Bisogna dire che Santo Stefano, all’imbocco della vallata del Belbo, è un poco la metropoli delle Langhe. Il paese ha su di sé di rappresentare dinnanzi alla provincia di Alessandria che confina, tutti i vanti e le virtù dei contadini retrostanti.
Cesare Pavese
Ciau Masino
Articolo di Sabrina Tolve
Sì, lo so. È un testo che non conosce quasi nessuno. Di fatto, è una raccolta di racconti scritti da un Pavese molto giovane (parliamo del 1931 – ’32; il libro fu però edito postumo nel 1968), divisa in due parti: una serie di racconti narra di Masin, un’altra parla di Masino.
La vicinanza del nome è l’ossimoro costante della diversità delle vite e dello stato sociale dei due protagonisti. Se Masino è l’intellettuale che riesce nella vita, Masin è, di contro, il disperato che arranca e che viene escluso ed emarginato dall’esistenza. Del resto il senso è tutto nel nome: Masino è il nome in italiano; Masin è il nome in torinese. Tenete a mente quest’affermazione. È utile sottolineare quanti richiami autobiografici siano presenti nel testo: il mito americano, la presenza dell’avanspettacolo, ma soprattutto i luoghi. Torino, Santo Stefano Belbo, le colline, le Langhe, il Po fanno da cornice alle (dis)avventure dei due protagonisti. Molti hanno fatto notare, inoltre, quanto Masino e Masin siano due parti della personalità di Pavese: la voglia mai sedata di fuga e la solitudine, l’incapacità di aprirsi davvero agli altri e di mettere radici in un posto. Tra le altre cose, è un testo assolutamente sperimentale: prosa e poesia in alternanza, alternanza dei racconti stessi, ma la cosa che più affascina del testo è l’uso del dialetto, utilizzato molto, moltissimo durante i dialoghi e nei momenti topici della narrazione. Eppure, non è solo questo: l’uso efficace ed incisivo del racconto e dei Blues presenti nel testo (che sono chiaramente precisi principi poetici), l’elaborazione di temi coevi alla modernità torinese, fanno sì che il dialetto divenga una necessità linguistica viva e impattante, tale da superare – quasi – la tradizione letteraria italiana, spesso e volentieri ancora pomposa e poco fluida. Ma non voglio parlare solo di questo. Quello che è importante dire è che sembra che Pavese riesca – sebbene il talento qui sia, con evidenza, ancora in fase embrionale – a far suonare le solite note con qualcosa di più profondo, qualcosa che va al di là della sola bravura tecnica e stilistica. C’è in questi racconti una descrizione – e un’analisi – dell’uomo priva di ogni tipo di ipocrisia. Pavese fa dei quadri precisi e nettissimi dei sentimenti umani, nel bene e nel male, senza provare a nascondersi mai. Alcuni punti sono vere e proprie sferzate. Altri fanno sorridere, altri fanno addirittura inorridire. Quel che è certo è che, per quanto giovane, qui Pavese è totale. Probabilmente più estremo, sicuramente toccante come solo lui sa essere. Se si pensa che il libro venne proposto alla stampa come opera prima e che venne rifiutato, e che questo rifiuto portò Pavese a diventare lo scrittore che è stato, ebbene. Fatevi un favore: leggetelo.
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950) è stato uno scrittore, magnifico poeta, saggista e traduttore italiano. Non solo: fu antifascista, e condannato all’esilio. Fu iscritto al PCI e attivista ne L’Unità. Fu un uomo pensante, e le aspre critiche che ne subì lo amareggiarono tanto che, insieme ad amori travagliati e disturbanti, lo ammalarono di depressione. Nel giugno del 1950 ricevette il Premio Strega per La bella estate. Il 18 agosto del medesimo anno decise che non avrebbe più scritto. Il 27 dello stesso mese, si suicidò. Il biglietto d’addio recitava le medesime parole: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.» Se non avete letto niente di Cesare Pavese, non avete nemmeno bisogno che io vi dica quanto sia infima la vostra vita. Sarebbe una perdita di tempo (per me).
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