Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Roberto Bianchi
Più o meno due anni fa i Cheap Wine suonavano per la prima volta al Teatro Spazio 89 di Milano. C’era da promuovere il loro ultimo “Beggar Town” e per l’occasione la band fece una cosa che non aveva mai fatto prima: eseguire tutto il disco dall’inizio alla fine quando ancora nessuno, se non gli addetti ai lavori, aveva avuto modo di sentirlo.
Quella fu anche per me una data da ricordare perché fu proprio in quell’occasione, pochi minuti prima dell’inizio del concerto, che mi venne chiesto di unirmi allo staff di Offtopic. Quindi, se adesso sto scrivendo queste righe, è anche merito di quella serata.
Oggi si ritorna nello stesso posto e alcune cose sono cambiate: Marco Diamantini è diventato papà, e i Cheap Wine hanno fatto uscire, ormai un anno prima, un live album contenente otto brani registrati dal vivo a Pesaro, la loro città. Brani che non erano comparsi sul precedente “Stay Alive!”, alcuni raramente eseguiti in concerto, e che nel complesso sono riusciti a fotografare al meglio che cosa vuol dire assistere ad una esibizione di questa band.
E già il primo pezzo sarebbe abbastanza. Quella “Fade Out” che chiudeva “Moving” (forse il disco più dilatato e psichedelico inciso dal gruppo) e che ci viene proposta in una versione fiume, profondamente catartica, dove i ricami chitarristici di Michele Diamantini e le luci bassissime contribuiscono a disegnare l’atmosfera perfetta.
Quello di stasera è uno show più riflessivo del solito. Complice anche i brani del nuovo live (che vengono tutti eseguiti), che concedono poco alle accelerazioni rock and roll, i pesaresi suonano poche canzoni ma tutte allungate a dismisura, dando spazio ad assoli e improvvisazioni vari e rendendo chiaro che, col pubblico comodamente seduto in una situazione raccolta, l’ideale è darci meravigliosa musica da ascoltare, complice anche un’acustica finalmente di altissimo livello.
E così ecco arrivare la delicata e malinconica “Dried Leaves”, la sempre dolcissima “I Like Your Smell”, proposta nel suo nuovo arrangiamento di armonica, “Behind The Bars”, con una lunga sezione centrale dedicata al piano di Alessio Raffaelli.
E ancora “Mary”, col suo lunghissimo assolo elettrico, un brano sempre sospeso tra inquietudine e nostalgia e che dal vivo, quando c’è, risulta sempre tra gli episodi migliori.
Da “Beggar Town”, un lavoro che dopo due anni ha confermato la sua grandezza ma allo stesso tempo la sua intrinseca difficoltà, riflesso forse della cupezza dei tempi in cui è stato concepito, vengono estratte le prime due tracce, “Fog On The Highway” e “Muddy Hopes”, mentre nel finale arriva anche una “Black Man” più fumosa che mai, una delle poche concessioni ai ritmi elevati di questa sera.
Ovviamente non poteva mancare “The Fairy Has Your Wings”, che è già diventato un classico. Il commovente ricordo di una persona scomparsa che però, fatto per nulla banale, non trasuda dolore ma è pieno di speranza, di serenità. E poi quel break centrale di pianoforte, quando Alessio Raffaelli rimane da solo a suonare per qualche minuto, con l’atmosfera sospesa e la tensione che si taglia a fette, e gli altri strumenti entrano in un crescendo pazzesco, fino all’esplosione finale del solo di Michele. Sono cinque, sei minuti che riassumono alla perfezione che cosa sono oggi i Cheap Wine.
Perché l’ho già scritto un sacco di volte ma non mi stancherò mai di ripeterlo: una band che suona come loro, in Italia non ce l’abbiamo.
È il rock americano che abbiamo consumato per anni, quello che le generazioni più vecchie della mia hanno utilizzato come grande, e a volte unico maestro di vita, e che qui rivive davvero; non come mera imitazione, ma come appassionata dichiarazione d’amore.
Quando torni a casa da un concerto dei Cheap Wine, anche se ne hai già visti una marea, sei sempre contento ed è sempre come se fosse la prima volta. C’è bisogno di una band così, per ricordare che la musica è importante. Che non salverà la vita, ma che è davvero dannatamente bello che ci sia.
1 Pingback