Articolo di Luca Franceschini.

Questa volta Emidio Clementi l’ha fatta grossa. La passione del bassista e voce dei Massimo Volume per la letteratura è cosa nota: dopotutto lui stesso è scrittore e insegna da tempo al DAMS di Bologna, dove tutt’ora vive. Ma finché si era trattato di Emmanuel Carnevali, nessun problema: “Notturno Americano”, il suo precedente spettacolo di reading musicale, parlava di un poeta sconosciuto ai più ma se non altro accessibile, legato a doppio filo alla vicenda biografica dello stesso Clementi, che ne aveva già ricavato una canzone della sua band e un libro, che è tutt’ora il più celebre della sua produzione.
A questo giro però le cose si complicano: reduce dal progetto Sorge assieme a Marco Caldera, Clementi si è riunito al fido Corrado Nuccini (Giardini di Mirò) per pensare ad un nuovo capitolo dei suoi reading.

E che cosa ti vanno a prendere se non i “Quattro quartetti” di Thomas Stearns Eliot?
Al contrario di Carnevali, si tratta di un poeta celebre. Anzi, probabilmente si tratta di uno dei poeti più celebri di tutta la storia della letteratura mondiale.
Il problema è che Eliot è anche dannatamente difficile. La sua poesia è evocativa, altamente affascinante ma anche simbolica, filosofica e dottrinale talvolta fino all’eccesso. Si è parlato di “poesia metafisica”, esattamente come per Montale (che vive nello stesso periodo e che, come il suo collega anglosassone, certo non brilla per chiarezza espositiva) ma il problema vero è che Eliot, prima ancora che un poeta, è un lettore di poesia. I suoi testi sono intrisi di citazioni provenienti dagli autori e dai periodi storici più disparati e spesso sono anche espressamente costruiti sulle citazioni. Avete presente “Cemetry Gates” degli Smiths? Quella in cui Morrissey ironizza sul suo prendere a prestito le opere di Wilde e i film del “Kitchen Sink Drama” inglese per i suoi testi? Ecco, Eliot faceva esattamente così (anche Wilde, se per questo, ma in modo meno smaccato). Del resto, lui stesso ha affermato che: “Una delle qualità del vero poeta è che nel leggerlo ci ricordiamo di remoti predecessori, e nel leggere i suoi remoti predecessori ci ricordiamo di lui.”.

Di conseguenza, per capire le sue poesie occorre anche avere un consistente bagaglio di letture alle proprie spalle (o, in alternativa, essere provvisti di una buona edizione con note a piè di pagina) e armarsi di tanta pazienza per poter tornare in continuazione sopra ciò che non si capisce.
Seconda cosa: i “Quattro quartetti” (che furono scritti in momenti diversi tra il 1936 e il 1942 e solo successivamente pubblicati insieme) sono in assoluto la cosa più difficile che questo poeta abbia mai scritto.
Difficile per le tematiche, che sono tantissime e tutte intrecciate insieme, così che è dura seguire il filo senza perdersi ogni due per tre; difficile per la forma, perché l’idea che l’autore ha avuto è stata quella di scrivere un testo poetico che avesse lo stesso andamento di una composizione musicale (da qui, appunto, il termine “quartetto”).
Capirete quindi che l’idea stessa di  Emidio Clementi che incide un disco su Eliot mi abbia totalmente entusiasmato (uno dei miei artisti preferiti alle prese col mio poeta preferito!); dall’altra parte però, mi sono un po’ inquietato: qualcuno lo ascolterà mai? Il messaggio che Eliot vuol far passare, riuscirà a passare davvero? In un’epoca (questo è forse il vero problema) nella quale ascoltiamo un disco intero distrattamente e una volta sola (quando capita!) e tutt’al più ci accontentiamo di mp3 sparsi? In un’epoca in cui nessuno legge più un romanzo dall’inizio alla fine, figuriamoci un libro di poesia?

Allora ho deciso di tentare un esperimento: lasciamo perdere i contenuti musicali del disco (che tanto potete scoprirli e descriverli meglio di me) e concentriamoci sul testo. Testo che, è giusto dirlo, è composto solo ed esclusivamente da versi di Eliot, riportati nella traduzione italiana di Filippo Donini.
Che cosa è dunque necessario sapere per poter accostarsi a quest’opera senza farsi venire il mal di testa dopo cinque minuti? Beh, proviamoci. Non ho nessuna qualifica per farlo, se non che ho letto questo testo parecchie volte per parecchio tempo e lo amo alla follia. Spero che, leggendo questo articolo (che è lungo, devo avvertirvi, perché la materia non si può trattare in due righe) vi verrà voglia di prendere in mano Eliot e lo amerete quanto lo amo io…

I “Quattro quartetti”- qualche informazione generale. Thomas Stearns Eliot nasce nel 1888 a St. Louis, nel Missouri e solo successivamente si trasferirà in Inghilterra, dove di fatto vivrà per tutta la vita (morirà a Londra nel 1965). I “Quattro quartetti”, come già detto, sono scritti a cavallo tra il 1936 e il 1942. Significa che appartengono alla sua produzione più matura e costituiscono anche l’ultima grande opera della sua carriera.
Altra cosa da sapere: nel 1930 si era convertito al cristianesimo e da questo momento in avanti i suoi lavori partiranno da tale avvenimento e prenderanno l’ipotesi religiosa come punto principale di lettura dell’intera realtà. Da questo punto di vista, i Quartetti sono, assieme ai “Cori da la Rocca” l’opera più esplicitamente cristiana di Eliot, quella dove l’immaginario religioso è più forte.
È difficile, forse impossibile, riassumere in poche righe i temi di queste quattro liriche. Forse è meglio partire dalla struttura: ciascuna composizione è divisa in cinque movimenti che, presi singolarmente hanno sempre caratteristiche fisse ma che allo stesso tempo dialogano tra loro riprendendo immagini e temi.

Clementi e Nuccini non ci hanno proposto l’opera in versione integrale (altrimenti ci sarebbe voluto un doppio cd o quasi) ma hanno scelto di limitarsi al primo, al terzo e al quinto movimento di ciascun quartetto. Una scelta che, se da una parte impedisce di cogliere in pieno il percorso che Eliot fa compiere al lettore, dall’altra parte ha avuto il pregio di eliminare le parti in assoluto più ostiche, dato che la seconda sezione ha di norma un contenuto più dottrinale e filosofico e la quarta è un breve frammento lirico non sempre facile da intendere.
Per quanto riguarda le tematiche, ne parlerò separatamente nella descrizione di ciascun quartetto (anche per non rendere troppo pesante la lettura di questo articolo); tuttavia, un paio di cose bisogna dirle lo stesso: i titoli delle composizioni, per esempio, sono sempre dei luoghi in qualche modo legati al passato di Eliot. La particolare natura di ciascun luogo costituisce ogni volta il punto di partenza per una riflessione che si snoda, semplificando molto, attorno a quattro temi fondamentali: lo scorrere del tempo e le sue tre dimensioni (passato, presente e futuro), la Seconda guerra mondiale (prima alle porte, poi tragicamente presente), i limiti del linguaggio nella comunicazione di un’esperienza, la possibilità di cogliere nel presente, un momento di illuminazione che possa riscattare la tragicità e la cupezza dell’esistenza.
Ovviamente tutto ciò che ho appena detto e tutto ciò che dirò, non ha assolutamente la pretesa di esaurire il discorso. Occorre che ciascuno si metta in gioco personalmente, magari prima leggendo l’opera e solo in un secondo momento ascoltando il disco: la sua bellezza è come sempre data dalla fusione perfetta tra il recitativo di Emidio e le suggestive ambientazioni sonore di Corrado, ma può essere colta con maggiore facilità una volta acquisita una certa dimestichezza con le parole di Eliot.
Non bisogna neppure complicarsi la vita, però. Come lo stesso Eliot ebbe a dire: “La vera poesia può essere comunicata prima ancora di essere capita”. Ci sentiamo di dire che ha ragione: c’è in questi versi un fascino e una potenza che possono arrivare a chiunque, indipendentemente dal fatto che se ne comprenda o meno il significato.

Burnt Norton: II nome è quello di un castello che il poeta visitò nel 1934. Molte delle immagini presenti nella poesia sono dunque riconducibili agli ambienti di questo luogo anche se, come sempre nell’opera di Eliot, assumono poi un significato simbolico. In questo senso, il giardino delle rose e le risate dei bambini rimandano sì ad un momento di illuminazione, di felicità che risale ad un’epoca passata ma che può essere colto ancora, a condizione che si viva immersi nell’istante presente.
Ed è proprio il tempo, il soggetto principale di questo primo quartetto. Il celebre inizio (“Il tempo presente e il tempo passato/son forse presenti entrambi nel tempo futuro,/e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato”) riprende più o meno esplicitamente quel che Sant’Agostino scrisse all’interno delle sue “Confessioni”. L’idea è semplice: il passato ed il futuro non esistono se non all’interno del presente ed è dunque solo nel presente, nel vivere l’istante, che si può conquistare la saggezza e la verità.
La vita, per Eliot, è una cosa seria ed è inutile chiedersi “ciò che poteva essere” perché esso, come tale “è un’astrazione/che resta una possibilità perpetua/solo nel mondo delle ipotesi”.
Misteriosa, ed anche un po’ inquietante, la figura dell’uccello, che ad un certo punto dice che “Il genere umano/non può sopportare troppa realtà.”. Un distico splendido, tra i più celebri del primo quartetto, ed anche sorprendentemente attuale, se si pensa a come vanno le cose nel nostro mondo.
È un concetto che viene sviluppato meglio nel terzo movimento: esso si apre infatti con una rappresentazione squallida della società contemporanea, un “luogo di luce fioca” che non è né luce del giorno né buio. È la condizione simbolica di un mondo tiepido, simile a quello degli ignavi di Dante, puniti per non aver saputo prendere una posizione netta nella vita. La scena si svolge nella metropolitana di Londra e vede la presenza di “volti tirati, logori dal tempo, distratti per distrazione dalla distrazione, pieni di voglie e vuoti di significato, (…) uomini e pezzi di carta che il freddo vento mulina”. È un mondo di “perpetua solitudine”, dove non può esserci nessun significato, nessuna vera conquista di una dimensione che possa durare in eterno.

E si arriva così al quinto movimento di questo quartetto, che è anche quello che in tutte le composizioni di questa opera, sviluppa un discorso metapoetico, attraverso complicate riflessioni sul linguaggio. La prima parte, in effetti, è decisamente ostica, non è per niente facile ricondurla ad un messaggio comprensibile anche se forse, a leggere attentamente, pare che l’idea di fondo sia questa: qualunque tipo di significato, per potersi comunicare, ha bisogno di una forma ben precisa, che è per forza di cose collocata nello spazio e nel tempo. Tale condizione, tuttavia, implica una finitezza perché “ciò che soltanto vive può soltanto morire”.
C’è dunque bisogno di un qualcosa che duri per sempre: qui Eliot ricorre agli scritti del mistico San Giovanni della Croce per suggerire che il desiderio umano, se si muove all’interno del fluire del tempo ma nello stesso tempo anela ad una soddisfazione perenne, allora può davvero avvicinarsi alla sua meta reale: “L’amore è per se stesso immobile,/soltanto causa e fine del movimento,/fuori del tempo, e senza desiderio/tranne che nell’aspetto del tempo/rappreso in forma di limite/tra l’essere e il non essere.” Come fosse davvero una composizione musicale, il quartetto si chiude come era iniziato, riprendendo le immagini della luce e della risata dei bambini: “Improvviso in un raggio di sole/mentre ancora la polvere muove/ecco s’alza il riso nascosto/di bimbi in mezzo alle foglie”. “Su, presto, qui, ora, sempre…” è l’esortazione del poeta. Si vive solo nel presente, appunto: “Ridicolo, squallido il tempo/che prima e dopo si stende”.

East Cocker: Il secondo quartetto prende il nome da un villaggio nel Somersetshire, da cui Andrew Eliot, antenato del poeta, emigrò per andare in America. È la sua storia famigliare a fungere da punto di partenza ma ancora una volta si andrà oltre, andando a toccare tematiche universali.
L’apertura è cruciale: “Nel mio principio è la mia fine”. Si tratta del motto di Mary Stuart, la regina di Scozia, parente di Elisabetta I, che fu fatta da lei uccidere nel 1587 in quanto possibile rivale al trono. Nel corso della lirica questa frase si fonderà col frammento di Eraclito “il principio e la fine sono la stessa cosa” e verrà utilizzato, in senso invertito, nell’ultimo verso. Il significato è dunque chiaro: nella nascita è già racchiusa l’inesorabilità della morte; allo stesso modo, nella fine di ciò che è mortale, è implicita la possibilità di una rinascita. Questo, a grandi linee, il senso di una composizione fortemente incentrata sul perenne ciclo dell’esistenza. La descrizione della danza dei due sposi è tratta da uno scritto del 1531 di Thomas Elyot, un antenato del poeta ed è in linea con questa stessa tematica: il matrimonio è un sacramento che unisce la vita e che genera vita e tutto è inserito nel ritmo delle stagioni, eterno movimento di nascita e morte (“Il tempo delle stagioni e delle costellazioni/il tempo della mungitura e il tempo del raccolto/il tempo dell’accoppiamento dell’uomo e della donna/E quello delle bestie. Piedi che s’alzano e cadono./Mangiare e bere. Letame e morte.”).
Dopo un secondo movimento in cui viene evocata l’immagine del fuoco distruggitore della Seconda guerra mondiale e stigmatizzata la “saggezza dei vecchi” in contrapposizione a quella dell’umiltà che viene dal cristianesimo, inizia la terza parte: “O buio, buio, buio. Tutti vanno nel buio, (…) e freddo il senso e perduto il motivo dell’azione”. Come in “Burnt Norton”, così anche in questa poesia, la terza sezione è dedicata alla società contemporanea. Due immagini, questa volta: le quinte di un teatro durante un cambio di scena e nuovamente la metropolitana di Londra. In entrambi i casi, si tratta di due involucri che non riescono a celare fino in fondo il vuoto e la superficialità dell’esistenza di questi uomini (“E s’anima la conversazione, poi un po’ per volta si perde nel silenzio/E si vede che dietro ogni faccia si spalanca il vuoto mentale/E non resta che il crescente terrore di non aver nulla a cui pensare;”). Come si può uscire da tutto questo? Attraverso una strada “dove non c’è estasi” che conduca, attraverso la speranza e l’attesa di un amore disinteressato, a cogliere quell’illuminazione che è descritta, ancora una volta, con l’immagine del riso dei fanciulli.

È un concetto che viene meglio chiarito ed esplicitato nel quarto movimento, assente nel disco: sono il sangue e la carne di Gesù Cristo, che possono salvare l’umanità.
“E così eccomi qua, nel mezzo del cammino, dopo vent’anni…”. Eliot amava tantissimo Dante e molte delle sue composizioni sono ricche di citazioni dalla Commedia. Il quinto movimento si apre con un esplicito richiamo al primo canto dell’Inferno e riprende il discorso sulla poesia e sul linguaggio che era stato affrontato al termine di “Burnt Norton”. Il poeta ha capito, in questi vent’anni in cui ha provato “a imparare l’uso delle parole” che “ogni tentativo è un rifar tutto da capo”. Tutto, infatti, è già stato detto da “uomini che non si può sperare di emulare”. La poesia è dunque inutile, arrivati a questo punto? Probabilmente no. La risposta che l’autore si dà è che forse “Per noi non c’è che tentare. Il resto non ci riguarda”.
Che cosa significa questo “tentare”? È un incessante andare avanti, una continua esplorazione che ricorda quella dell’Ulisse dantesco; un’esplorazione “dove il luogo e l’ora non importano”, un “muovere senza fine verso un’altra intensità/per un’unione più profonda,/attraverso il buio, il freddo e la vuota desolazione,/il grido dell’onda, il grido del vento, la distesa d’acqua/della procellaria e del delfino.”.
È un viaggio verso l’ignoto, dunque, dove le dimensioni del tempo sembrano svanire e dove il significato non è immediatamente identificabile. Ma è una sete di conoscenza che non si può eliminare e che sembra poter rispondere alla vita vuota degli uomini del terzo movimento. “Nella mia fine è il mio principio”: la lirica si chiude così, in modo opposto e allo stesso tempo identico a come era iniziata.

I Dry Salvages: In questo caso è lo stesso Eliot a spiegarci, in una nota, di che si tratta: “Sono un piccolo gruppo di scogli, con un faro, a nord est di Capo Ann, Massachusetts”. La scena si sposta dunque in America, nella patria di origine del poeta.
Il primo movimento è incentrato sul contrasto tra fiume e mare: il primo rappresenta lo scorrere del tempo ed è qui identificato nel Mississippi, con alcuni suggestivi ricordi dell’infanzia del poeta a St. Louis (“Il suo ritmo era presente nella stanza dei bambini,/nell’ailanto nauseabondo del cortiletto d’aprile,/nell’odore dell’uva sulla tavola d’autunno,/e nella veglia d’inverno sotto la luce a gas.”); il secondo simboleggia invece l’eternità, che come tale ingloba dentro di sé ogni dimensione temporale (“Il mare è anche l’orlo della terra, il granito/entro il quale si addentra, le spiagge dove scaglia/le sue testimonianze d’una creazione diversa e più antica”).
Eliot aveva studiato il sanscrito ad Harvard e conosceva piuttosto bene la cultura orientale. Il terzo movimento è incentrato sulla teoria dell’azione disinteressata, ricavata da uno dei testi sacri dell’Induismo. In esso il dio Krishna esorta un guerriero chiamato Arjuna a gettarsi in battaglia contro il nemico, senza curarsi troppo delle conseguenze. Non è comunque un testo facile da interpretare e lui stesso sembra rendersene conto, nel corso di questa sezione (“Talvolta io mi domando se questo è ciò che Krishna intendeva o è un altro modo di dire la stessa cosa”). Quello che sembra dire, in ogni caso, è che l’uomo non ha in mano i risultati e i frutti che scaturiranno dalle azioni: molto meglio, a questo punto, agire senza troppo preoccuparsi di quel che accadrà. Questo tema sfocia in un’esortazione ai viaggiatori ad andare sempre avanti, senza curarsi del passato o del futuro. Nel finale, i due temi sono fusi insieme e si scorge, nell’immagine del mare, anche un richiamo al primo movimento (“O viaggiatori, o naviganti,/voi che giungete al porto, e voi il cui corpo/soffrirà la prova e il giudizio del mare,/o qualsiasi altra fine, questa è la vostra vera destinazione./Così Krishna, come quando ammoniva Arjuna/sul campo di battaglia./Non buon viaggio/ma avanti, viaggiatori.”).

E si arriva così all’ultimo movimento, che è preceduto da una breve e luminosa preghiera alla Madonna, con tanto di richiami espliciti all’ultimo canto del Paradiso di Dante.
Gli uomini hanno vari modi per interrogare il futuro ed Eliot li elenca uno ad uno, non senza una certa ironia. Li definisce “passatempi e droghe e rubriche nei giornali”. Quel che conta davvero, al contrario, è “comprendere il punto d’intersezione del senza tempo col tempo”: sarà anche un’occupazione da santi, come dice successivamente, ma è anche l’unica cosa che può salvare. Si tratta di “un’annientamento di tutta la vita nell’amore, nell’ardore, altruismo e dedizione”. Nuovamente, quindi, viene ribadito che è questo amore disinteressato ciò che può salvare l’uomo.
Gli ultimi versi, dal tono altamente lirico ed evocativo, con ancora una volta gli echi del Paradiso dantesco, riprendono temi già trattati in precedenza: l’andare costantemente avanti, l’annullamento del tempo nell’istante presente, l’eterno ciclo di morte e rinascita all’interno dell’esistenza (“Noi che non siamo sconfitti/solo perché continuammo/a tentare, contenti alla fine/se il nostro ritorno nel tempo/(…)/dà vita a un suolo che ha senso.”).

Little Gidding: Quello che è probabilmente il più riuscito dei Quattro quartetti, prende il nome da un piccolo villaggio inglese dove nel 1626 un certo Nicolas Ferrar fondò una comunità religiosa che Oliver Cromwell soppresse vent’anni dopo nel complicato contesto della guerra civile tra re e parlamento (adesso non è davvero il caso di approfondire!).
Il poeta visita una piccola cappella di questo villaggio e questa sorta di pellegrinaggio costituisce l’occasione per meditare su diversi temi: la comunione tra vivi e morti, in particolare i grandi spiriti che qui abitarono e con cui ci si può mettere in comunicazione tramite la preghiera; il conflitto mondiale che avanza, col fuoco dei bombardamenti che consuma e distrugge, trasformando l’Inghilterra in un paesaggio infernale. C’è evidentemente un parallelo tra la guerra di trecento anni prima, che ha distrutto il villaggio, e quella che sta infuriando nel momento in cui Eliot visita il luogo.
“La primavera di mezzo inverno è una stagione a parte,/sempiterna, benché intrisa d’acqua al calar del sole,/sospesa nel tempo, tra il polo e il tropico./Quando il corto giorno più splende, di gelo e di fuoco,/il breve sole infiamma il ghiaccio degli stagni e dei fossi,/nel freddo senza vento che riscalda il cuore,/riflettendo in uno specchio acquoso/una luce che acceca nel primo pomeriggio.”.
Siamo a maggio, ma la primavera è turbata dalla guerra che porta il gelo nella realtà. In questo stato di sconvolgimento dove l’ordine naturale delle cose risulta alterato, si cerca nella preghiera un’ipotesi di salvezza, rappresentata dal “fuoco di Pentecoste”. Questo luogo diventa dunque il punto d’intersezione tra i vivi e i morti, un presente ben definito da cui poter ripartire: “Siete qui per inginocchiarvi/Dove la preghiera è stata valida. E la preghiera è più/che un ordine di parole, l’occupazione cosciente/della mente che prega, o il suono della voce che prega./E quello per cui i morti non trovavano parole, da vivi,/ve lo possono dire da morti: essi comunicano/con lingue di fuoco al di là del linguaggio dei vivi./Qui, l’intersezione del momento senza tempo/è l’Inghilterra e nessun luogo. Mai e sempre.”.

Purtroppo viene saltata la seconda sezione (che consiglio caldamente di andare a recuperare!), dedicata all’incontro con una figura misteriosa, sullo sfondo della Londra devastata dalle bombe; un passo esplicitamente ispirato al dialogo tra Dante e Brunetto Latini nel XV canto dell’Inferno e in assoluto uno dei momenti più alti dell’opera di Eliot.
Passiamo quindi al terzo movimento. In apertura vengono presentate tre condizioni con cui l’uomo si può rapportare alla realtà: l’attaccamento, il distacco e l’indifferenza. Per il poeta, la soluzione migliore sta nel distacco, dove il significato, l’essenza di ciò che si ama non è negato (come nell’indifferenza) ma è trasceso in una dimensione spirituale (“Non meno amore, ma espansione/dell’amore al di là del desiderio”).
È la memoria, secondo Eliot, che permette di passare dall’attaccamento al distacco. Siamo a Little Gidding, che è un luogo intriso di memoria. Eliot rende presenti coloro che soffrirono e accettarono di morire per le loro idee. In questo modo “la storia può essere libertà” (non solamente schiavitù) e il loro ricordo può servire ad illuminare le oscurità del presente, offrendo quindi un’ipotesi di lettura su ciò che sta accadendo, che sia diversa da quella della tragedia a senso unico (“Il peccato è Incombente, ma/tutto sarà bene, e/ogni sorta di cose sarà bene.”).
“Tutto sarà bene”: è il ritornello che da qui in avanti dominerà questa lirica, aprendosi via via fino al finale che, esattamente come in una sinfonia, ripercorre uno ad uno tutti i temi già toccati in precedenza negli altri quartetti per riassumerli, appunto, nella promessa che un bene più grande è possibile: “Con la forza di questo Amore e la voce di questo Appello/non cesseremo di esplorare/E alla fine dell’esplorazione/saremo al punto di partenza/sapremo il luogo per la prima volta./Per il cancello ignoto e noto/quando l’ultima terra sconosciuta/è quella del nostro principio;/alla fonte del fiume più lungo/la voce arcana della cascata/e i bambini tra i rami del melo/ignorati, perché inattesi,/ma uditi, sì e no, nel silenzio/tra un’onda e l’altra del mare./Su, presto, qui, ora, sempre…/condizione di semplicità assoluta/(che costa non meno di ogni cosa)/e tutto sarà bene/quando lingue di fuoco s’incurvino/nel nodo di fuoco in corona/e il fuoco e la rosa sian uno.”).

Tracklist:
01. Burt Norton
02. East Cocker
03. I dry Salvages
04. Little Gidding