R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Ai tempi fastosi del bebop i maestri del jazz abbondavano di note straripanti ed esplosive, spesso inventandosi frasi così complesse da rendere molto difficile per gli altri poterle copiare e riprodurre. Il bagaglio tecnico era considerato, forse allora più di oggi, un biglietto da visita essenziale se ci si voleva qualificare come musicisti jazz. Poi le cose sono cambiate, si sono evolute, si è cercato di dare un diverso peso alla musica che non fosse limitatamente identificabile solo con la velocità di esecuzione e con la funambolica capacità di combinare tra loro le diverse scale musicali. Dopo la comparsa di Kind of blue si rivoluzionò tutto il jazz a seguire. Era tracciato, in quel capolavoro assoluto di Miles Davis & C, un nuovo paradigma che sanciva una maggior attenzione ai modi, alle pause, alle sfumature, ovviamente non abdicando mai alla preparazione tecnica individuale dei singoli musicisti. Poi venne il free jazz e i modelli precedenti furono modificati a loro volta. L’armolodia di Ornette Coleman resettava addirittura tutte le regole armoniche precostituite, via tutti i legami tradizionali, via il rispetto tonale, strada aperta alla libertà esecutiva più radicale. La rabbia, la consapevolezza politica della negritudine, l’urlo di quella generazione tra gli anni ’60 e 70 premeva con urgenza verso il superamento della tradizione facendo di questa dinamica la propria Bibbia espressiva.
Oggi ci troviamo di fronte al lavoro di due musicisti uno dei quali, Archie Shepp, proviene appunto da quel passato. L’ottantaquattrenne sassofonista è cresciuto con l’influenza di Cecil Taylor e di John Coltrane, mentre Jason Moran, pianista poco più che quarantenne, suo partner in questa uscita discografica, in qualche modo rappresenta l’aspetto più moderno, se non propriamente contemporaneo, del jazz odierno. Nonostante Shepp abbia quasi il doppio degli anni di Moran egli dimostra di non essere da meno del più giovane collega e infatti possiamo ascoltarlo in forma più che smagliante in questo Let my people go. Il titolo velatamente polemico e politico accenna all’orgoglio nero, soprattutto dopo i noti avvenimenti razziali degli ultimi mesi sotto il governo Trump e le vittime delle brutali repressioni poliziesche. Il disco è stato registrato in parte dal vivo in due momenti e posti diversi, a Parigi prima e a Mannheim secondariamente a distanza di un anno circa l’uno dall’altro. Il sax di Shepp non guarda tanto per il sottile, non cerca l’intonazione perfetta ma tocca il cuore con la sua commovente e cruda intensità. Nei brevi intermezzi cantati la voce del musicista costituisce di per sé un secondo strumento, ruvido, pastoso, come fosse un altro sassofono aggiunto. Anzi, voce e sax costituiscono spesso un tutt’uno, una duplice modalità comunicativa che vede i due elementi integrarsi idealmente uno nell’altro. D’altra parte il pianismo fieramente blues di Moran aiuta a tracciare dei limiti ben precisi. La base di tutto, l’inizio prima di ogni inizio, è la musica che nasce dal dolore e della tristezza. Proprio quel blues che qui diventa anche altro da sé, cioè fondamento culturale, orgoglio di pelle, radici, fiamma, razza e quant’altro ancora possa racchiudere il senso della Storia dei neri americani. In effetti è come se, in questo lavoro, si riassumessero alcune tappe straordinarie dell’intera storia del jazz. Vi sono dei traditional come Sometimes I feel like a motherless child, lo spiritual che apre e chiude questa raccolta in una duplice, intensissima versione di cui è impossibile discernere la migliore tanto è alta la qualità in entrambi i casi. Poi vi sono lussuosi standard come Isfahan della coppia Ellington-Strayhorn, costruito sulle note di una scala ionica e introdotto da un sax da brividi dove Shepp rivolta le frasi originarie di Johnny Hodges creando parentesi allucinate e dilatate, quasi un inconscio omaggio allo spirito sciamanico di Albert Ayler. Si entra nel cuore del gospel con He cares, momento d’intensa struggenza in cui temi e improvvisazioni si legano anche soprattutto grazie ad un’eccezionale trama pianistica che costruisce una rete lussureggiante di note dentro la quale il sax si spinge verso timbriche più acute. Go down Moses, anch’esso ripescato nell’ambito degli spiritual più popolari, appare appassionato e disperato nel pianismo di Moran, sintetico e asciutto persino nell’accompagnare il canto viscerale di Shepp. Si prosegue con la seguente Wise one che appartiene al repertorio di Coltrane. Moran, dopo i primi tre minuti dei tredici a disposizione per questo brano, vagabonda sulla tastiera in cerca di accordi alla Mc Coy Tyner, allargando il respiro e sostenendo la verve improvvisativa del sax. Molta energia e molta, al contempo, delicatezza d’esecuzione proprio nei momenti in cui il piano si fa più discreto. Ascoltate, a prova di quanto dico, cosa succede dopo il minuto otto circa, quando Moran parte con un assolo costruito con accordi pieni, prima del finale più rarefatto. Ancora uno standard con Lush Life, brano che Billy Strayhorn compose all’età di diciotto anni e che è stato eseguito da decine di artisti. Questa volta, oltre alle solite meraviglie operate dai due musicisti, c’è da rimarcare il canto di Shepp a chiudere la composizione. Poteva poi mancare qualcosa di Monk? Ed è naturalmente il suo pezzo forte, Round midnight, che in questa versione viene quasi sacralizzato dal vivo con una eccellente e meditata reinterpretazione. Dopo questa prova è la volta di Moran che si diverte con l’entrata in rag-time di Ain’t misbehavin’, brano di Fats Waller e il pubblico va in delirio per la performance vocale, un po’ forzata a dire il vero, offerta da Shepp in evidente stato di profonda autostima… Ancora un altro brano di Fats Waller, Jitterburg waltz, con il bellissimo preludio pianistico di scale discendenti ripreso anni fa anche dai Pogues nel loro piccolo capolavoro Summer in Siam. Dopo Ujama c’è ancora spazio per un piccolo omaggio a Donald Byrd con Slow drag nel finale che però nulla toglie o aggiunge all’economia dell’intera opera. Si tratta, in definitiva, di un disco straordinariamente bello e profondo, qualcosa che non si ascolta frequentemente con questo taglio d’intensità. La coppia Shepp-Moran è asciutta, basta a se stessa, non fa rimpiangere la mancanza di altri strumentisti perché il livello di sintesi qui ottenuto è tale che qualsiasi altra cosa aggiunta figurerebbe come un inutile orpello.
Tracklist:
01 Sometimes I Feel Like a Motherless Child
02 Isfahan
03 He Cares
04 Go Down Moses
05 Wise One
06 Lush Life
07 Round Midnight
08 Ain’t Misbehavin’
09 Jitterbug Waltz
10 Ujama
11 Slow Drag
12 Sometimes I Feel Like a Motherless Child (Edit)
4 Pingback