L E T T U R E
Articolo di Simone Santi
‹‹Avere una perla come il RITRATTO DI SIGNORA di Klimt avrebbe certamente aiutato il turismo piacentino… Una tela unica come quella del pittore austriaco, che ha la caratteristica di nascondere un altro dipinto ritenuto scomparso… Un richiamo assoluto. Abbiamo preferito non rimpiazzarlo con una copia e anche le guide, quando arrivano nella sala degli stranieri, giustificano la sua assenza spiegandone l’insostituibilità. Aspettiamo che ci venga restituito l’originale per poterlo mettere al suo posto, speriamo presto.››
Le amare considerazioni dell’allora direttore Stefano Fugazza, riportate nel libro di Ermanno Mariani Il mistero del doppio ritratto di Klimt (2018, edizioni PONTEGOBBO) insieme al racconto degli incredibili accadimenti di quegli anni a partire dal furto del quadro dipinto dal maestro della Secessione viennese, trafugato dalla Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza nel febbraio 1997, esprimono in buona sintesi il vissuto e le implicazioni anche psicologiche, oltre che economiche e sociali, che hanno visto coinvolte una città e la sua comunità: una vicenda che aveva avuto ampia risonanza e destato all’epoca grande scalpore per le modalità con le quali si era verificata, e che, tra luci e ombre, ha continuato negli anni a generare leggende e sobillare misteri; misteri che del resto non paiono del tutto dipanati neanche oggi, ancorché gli auspici dell’ex direttore Fugazza si siano realizzati e il “doppio ritratto” di Gustav Klimt, rinvenuto nel 2019 e restituito alla galleria, è tornato nella disponibilità di Piacenza e dei suoi visitatori.

Vienna di fine Ottocento era la capitale asburgica sempre più amministrativa di un impero complesso, dove la sensazione di vivere il fulgore dorato e decadente del concludersi della propria parabola storica si confondeva nell’imperversare sull’Europa centrale delle correnti di un rinnovamento artistico e culturale radicale e – potrebbe dirsi – irreversibile.
Al tramontare del XIX secolo la geografia artistica stava segnalando significative trasformazioni. In concorrenza a Parigi, che ancora manteneva il ruolo di propulsore essenziale della ricerca innovativa dei linguaggi artistici, si assiste ad un allargamento di questo movimento alla Mitteleuropa; un ampliamento che confluisce e coincide con la Secessione dell’ultimo decennio del secolo, che avrà i suoi fuochi nelle città di Monaco (1892), Vienna (1897), Berlino (1898), dove vengono ripetute, per lo più in chiave antinaturalistica e su basi postimpressioniste e simboliste, le esperienze francesi dei Salon. Tale movimento si configura come luogo di elaborazione e circolazione attraverso l’Europa di modelli d’avanguardia in virtù dei quali, anche tramite l’organizzazione periodica delle mostre, si va a definire un vero e proprio stile internazionale.
All’interno di questo rinnovamento artistico l’appello alla natura, che era stato un cardine della polemica antiaccademica ottocentesca, continua ad essere una delle parole d’ordine assumendo tuttavia una prospettiva per certi versi opposta. Non si cerca più, come facevano i pittori del plein air, di riprodurre fedelmente e senza mediazioni la natura nelle sue apparenze esteriori e visibili – già postimpressionisti e simbolisti si erano allontanati da tale approccio al mondo reale. Negli anni novanta e nei primi del nuovo secolo alcuni artisti si propongono di cogliere e di tradurre in forma le leggi interne della natura, i suoi principi astratti: si va così verso un concetto di relazioni interne e di struttura profonda della realtà, in cui la natura non appare più come dato oggettivo, fondato sugli inganni della percezione attraverso i sensi; piuttosto si manifesta e va ricercata nella sua essenza di natura vivente, che viene così rappresentata artisticamente attraverso ‹‹un complesso procedimento di trasformazione dell’immagine nella prospettiva di una, pur imperfetta, emancipazione da ogni casualità e caducità delle cose mondane››[1]. Nel nuovo linguaggio secessionista ciò si traduce in un sistema di stilizzazioni, di sintesi, di semplificazioni sempre più spinte dei modelli naturali, che finiscono col costituire una sorta di alfabeto formale via via più lontano dalla verosimiglianza superficiale, dalla riproduzione “naturalistica”, con una tendenza all’astrazione e alla pura decorazione. In questa direzione, si veda come una nutrita colonia di artisti russi, tra i quali il giovane Kandinskij, venuti a studiare presso la scuola accademica di Monaco – che ormai concorreva con Parigi come polo d’attrazione per gli artisti stranieri – sapranno cogliere e rielaborare, in modo originale, i più avanzati fermenti secessionistici.
Va pure ricordato che, in parallelo, si stava assistendo ad una riconsiderazione della natura come luogo nel quale agiscono forze nascoste, come sede di pulsioni inconsce temibili e incontrollate – sono gli stessi anni in cui a Vienna Sigmund Freud si prepara a fondare la psicanalisi. Una riscoperta che evidenzia una prima incrinatura sulla superficie del totem positivista che voleva l’uomo, grazie alla fiducia nella tecnica e al pensiero scientifico e razionale, padrone del mondo e di se stesso.
Così anche in campo artistico il concetto di natura viene a comprendere la realtà psicologica più profonda. Il racconto dell’anima, la ricerca e l’apprendimento dei suoi meccanismi, con la messa a nudo delle zone d’ombra e delle contraddizioni diventano riferimento per la pratica di un numero crescente di artisti. Basti pensare, solo per citare un esempio, al ruolo di primo piano giocato nell’ambito della Secessione berlinese da un pittore come Munch, la cui comparsa sulla scena artistica di fine secolo costituirà una svolta decisiva verso quella componente dell’arte del Novecento che sarà definita espressionista. Il pittore norvegese considerava il proprio lavoro come una sintesi visiva organica della vicenda spirituale e affettiva degli uomini, dei misteri della morte e della vita. Attraverso la semplificazione espressiva e cromatica, e molto spesso la marcata deformazione degli aspetti oggettivi della realtà volta a creare violente dissonanze, Munch cercherà di dare evidenza a stati psicologici sovreccitati ed eccessivi, dettati da situazioni in cui l’intensità emotiva raggiunge le soglie della sopportabilità. La natura per lui è specchio della condizione psicologica dell’uomo e al tempo stesso, nella sua accezione più estesa, luogo di confronto – e frizione – tra la morale sociale da una parte e le pulsioni più segrete e i desideri individuali dall’altra. La sua pittura si colloca coerentemente e partecipa all’interno di un quadro culturale che vede dissolversi il naturalismo ancora dominante negli anni precedenti verso le forme di simbolismo attraversato da angosciate domande, lasciate drammaticamente senza risposte da quell’approccio fieramente scientifico-positivista alla realtà che la modernità aveva prodotto.
Il disagio, e non di meno la diffidenza che iniziano a insinuarsi nei riguardi della stessa natura umana, i timori per l’agire nascosto e imprevedibile di forze inconsce, violente e irrazionali, iniziano a riverberarsi anche nella società, nelle ambiguità e nei segni striscianti del decadere di un mondo che, tra i belletti e le agiatezze gaudenti degli ultimi splendori della Belle Époque, volgeva al termine. Di lì a pochi anni, ancora insospettabilmente, l’Europa sarebbe precipitata, sospinta dall’erompere sulla scena di impulsi nazionalistici, nella tragedia efferata di due conflitti mondiali.
In Austria l’ufficialità artistica era controllata dall’Associazione degli Artisti di Vienna (Künstlerhaus), di impostazione conservatrice. L’occasione per la componente più innovativa dell’Associazione di compiere un gesto di rottura ed emergere sulla scena con le proprie istanze si determina in occasione dell’esposizione del 1897, allorché un’opera del pittore Josef Engelhart viene respinta. E’ allora che un gruppo di artisti, guidati da Gustav Klimt, decide di uscirne e dare vita alla Secessione viennese.
Klimt era nato a Vienna, nell’allora sobborgo di Baumgarten, nel 1862, da padre orafo (dettaglio che sarà rilevante ad un certo punto della sua carriera artistica) e da madre melomane. Ammesso a quattordici anni alla Scuola di arti applicate di Vienna (Kunstgewerbeschule) impara a padroneggiare le diverse tecniche artistiche, dal mosaico alla ceramica, nel rispetto dei canoni accademici e sotto l’influsso di artisti quali Laufberger e Makart. La Kunstgewerbeschule avrà in seguito un’importanza molto più rilevante dell’Accademia nella formazione dei protagonisti del rinnovamento dell’arte austriaca, soprattutto quando intorno al 1900 verranno chiamati ad insegnare il pittore Kolomon Moser e il grafico Josef Hoffmann: in questa scuola sono infatti da ricercarsi le radici della diffusione nella cultura secessionistica austriaca del concetto di opera d’arte unitaria, dell’integrazione cioè di architettura, pittura, decorazione e arti applicate.
Già durante gli anni di studio vengono commissionate a Klimt le decorazioni di grandi ambienti pubblici, come il cortile del Kunsthistorisches Museum e, nel 1880, le quattro allegorie del Palazzo Sturany a Vienna e il soffitto della Kurhaus di Karlsbad. Uscito dalla scuola nei primi anni ottanta, insieme al fratello Ernst e all’amico Franz Matsch si dedica alla pittura decorativa dei teatri di Reichenberg, Fiume, Karlsbad, raggiungendo il successo con i lavori per il Burgtheater (1886-88) e, qualche anno più tardi, per lo scalone del Kunsthistorisches Museum di Vienna. In questi lavori vediamo comparire le inclinazioni simboliste e la tendenza alla stilizzazione tipiche della sua opera negli anni secessionisti.
Il suo stile più maturo, insieme all’irriducibile genio provocatore, iniziano a palesarsi in maniera manifesta – e a raccogliere anche le prime aspre critiche – in occasione della decorazione del soffitto dell’aula magna, commissionata nel 1894 dall’università di Vienna sul tema illuministico del trionfo della Luce sulle Tenebre, immagine del progresso e della cultura scientifica. Klimt esegue i pannelli allegorici delle tre facoltà, Giurisprudenza, Medicina e Filosofia, realizzando una conturbante figurazione di corpi femminili. Il lavoro viene respinto dalla committenza, per la loro interpretazione antipositivistica della scienza e per la scarsa sobrietà.

Rispetto ad altri movimenti innovatori coevi la Wiener Sezession aveva avuto il vantaggio di godere dell’appoggio del mondo intellettuale e della cultura ufficiale: si riteneva infatti che un rinnovamento sarebbe stato indispensabile affinché l’arte austriaca potesse arrivare a misurarsi col dibattito europeo. Pertanto la “rottura” del 1897 e la fondazione ad opera dei fuoriusciti di nuovo movimento non aveva costituito affatto un evento traumatico. Ne è la riprova il fatto che a presiedere onorariamente il nuovo organismo viene chiamato il vecchio pittore Rudolf von Alt, tra i fondatori nel 1861 del Künstlerhaus. Il Comune di Vienna concederà ai secessionisti un’area sulla quale viene costruito dall’architetto Josef Maria Olbrich un edificio destinato alle esposizioni.
Il motto della Secessione viene scritto sulla facciata del palazzo: ‹‹Ad ogni tempo la sua arte – libertà per le arti›› e rispecchia l’apertura a tutte le tendenze artistiche che in quegli anni erano ritenute a diverso titolo innovative: del gruppo facevano infatti parte naturalisti, esponenti del cosiddetto postimpressionismo e simbolisti. Attraverso un’intensissima attività espositiva la Secessione porta a Vienna numerosi protagonisti delle trasformazioni artistiche interazionali dell’ultimo ventennio del secolo. La rivista Ver Sacrum, manifesto e periodico del gruppo, con le sue pubblicazioni costituiva l’altra sede di presentazione e diffusione delle opere e delle idee dei secessionisti, così come dei critici e dei letterati che li sostenevano.
Intanto il linguaggio tecnico ed espressivo di Klimt si va orientando verso un linearismo di grande raffinatezza, sostenuto da un gusto decorativo sempre molto elevato e dai preziosi cromatismi. Le figurazioni così realizzate acquistano forti valenze simboliche, sia in opere di esplicita allegoria (Nuda Veritas, 1899), sia in soggetti più tardi (come L’abbraccio, 1905-1909), sempre comunque attraversati da forti risonanze – o dissonanze – esistenziali. Le inquietudini e i desideri dell’uomo moderno emergono con grande vigore nel florilegio di immagini visionarie e dionisiache del Fregio di Beethoven del 1902, opera realizzata in occasione della quattordicesima mostra secessionista viennese, allestita nei locali del Palazzo della Secessione.
Una prima svolta nell’evoluzione del suo stile, che lo porterà nel 1905 ad allontanarsi con i suoi seguaci dal movimento secessionista, si determina in occasione dei suoi viaggi in Italia. Nel 1903 Klimt si reca per due volte a Ravenna, dove viene a contatto con l’arte bizantina: in particolare è l’utilizzo dell’oro nell’arte del mosaico – richiamo anche alla memoria dei lavori di oreficeria del padre – a indicargli un nuovo modo di trasfigurare la realtà, non solo impreziosendola negli effetti decorativi ma anche colmandola di pregnanti simbolismi. Proprio l’assoluto risalto dell’oro è la caratteristica che conferisce il nome a quello che viene definito il periodo aureo dell’artista viennese, nel quale sono realizzati i suoi capolavori più celebri, dove prevalgono le figure femminili presentate in tutta la loro erotica fascinazione: Giuditta I (1901), Le tre età della donna (1905), Il bacio (1907-1908), La Danae (1907-1908), L’abbraccio (1905-1909), L’albero della vita (1905-1909) Giuditta II o Salomè (1909). Il nuovo stile conferisce a queste opere un effetto di marcata bidimensionalità, in cui assume maggior risalto il linearismo delle figure.
Questi sono gli anni in cui diviene l’artista preferito di Adele Bloch-Bauer, donna aristocratica, raffinata e bellissima la quale, dopo il matrimonio con l’industriale Ferdinand Bloch, aveva dato vita ad uno dei salotti più eleganti e in voga di tutta Vienna, cui partecipavano politici, intellettuali e artisti del rango di Richard Strauss, Gustav Mahler e dello scrittore Stefan Zweig. Klimt la immortala in una lunga serie di ritratti – tra cui si ricorda Ritratto di Adele Bloch-Bauer I (1907) – e la assume come pura modella per impersonare le figure di Giuditta e di Salomè.

È proprio la Salomè del 1909, caratterizzata da cromie più scure e marcate, a concludere il periodo aureo dell’artista. Preso in un periodo di crisi personale, consapevole che si era ormai giunti al tramonto di un’epoca con i tristi presagi che aleggiavano sul destino dell’impero, che i fasti di una storia secolare avevano fatto immaginare che avrebbe potuto essere eterno e invece sarebbe di lì a pochi anni deflagrato, Klimt decide di abbandonare l’oro di Bisanzio e le linee eleganti dell’Art Nouveau. Ponendosi a contatto con la produzione di artisti accolti dalla Secessione francese quali Van Gogh, Matisse, Toulouse-Lautrec, e soprattutto con la pittura espressionista che a Vienna aveva trovato proprio tra i suoi allievi due dei maggiori interpreti, Schiele e Kokoschka, egli amplia i colori della sua tavolozza e accentua i cromatismi. Questa è considerata la “terza fase” della vita artistica di Klimt, detta anche periodo fiorito. Di questo periodo maturo è anche la produzione di una pittura di paesaggio dove il senso della decorazione arriva ai limiti della composizione astratta.
Uno degli ultimi ritratti di signore di ottima società – tra queste ritroviamo anche Margareth, la sorella dei fratelli Wittgenstein, il pianista e il filosofo – con i quali Klimt conclude la propria carriera di grande protagonista della scena artistica viennese del primo quindicennio del Novecento è Ritratto di Signora, la cui datazione al 1916-17 è avvalorata anche dai suoi colori accesi che rimandano all’influenza espressionista. Si ipotizza che la dama ritratta sia Alma Mahler, musa di Klimt e una delle sue numerose amanti; secondo altri potrebbe trattarsi di Ria Munk, che il pittore già aveva rappresentata in altri ritratti e sul letto di morte, nel 1912.
Nel gennaio del 1918, di ritorno da un viaggio in Romania, il maestro viennese contrae l’influenza spagnola e muore l’11 gennaio, lasciando numerose opere incompiute.
Nel 1919 il gallerista Gustav Nebehay organizza un’esposizione all’hotel Bristol di Vienna dei quadri di Klimt tra cui è presente il Ritratto di Signora. Presumibilmente avviene in questo periodo la vendita del quadro al gallerista milanese Luigi Scopinich, dal quale nel 1925 viene poi acquistata dal conte Giuseppe Ricci Oddi di Piacenza, per la collezione personale del suo palazzo cittadino. Il ritratto viene infine trasferito nell’ottobre 1931 nella Sala degli stranieri, presso la sede della Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, museo voluto e fatto realizzare dallo stesso mecenate al fine di donare alla comunità piacentina la propria collezione all’interno di una sede espositiva.
L’opera così diventa una delle tre che di Klimt sono conservate in Italia. Le altre sono Le tre età della donna, dipinto del 1905 e acquistato dallo stato italiano dopo l’assegnazione del primo premio all’Esposizione Internazionale d’Arte di Roma nel 1911, oggi esposto alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea capitolina, e Giuditta II, del 1909, ospitata presso la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro a Venezia.
Ritratto di Signora per diversi decenni non gode di particolare lustro, nonostante i prestiti ad alcune mostre svoltesi soprattutto negli anni ottanta del secolo scorso: a Venezia in occasione della Biennale del 1984, a Vienna, al Centre Pompidou di Parigi, e poi altre città italiane. Fin quando non accade qualcosa di inimmaginabile.
Nel 1996, durante la preparazione di una ricerca scolastica, una studentessa delle scuole Medie Superiori nota una straordinaria somiglianza tra il quadro e un’altra opera del pittore austriaco, di cui si possedeva solo una fotografia e che si riteneva fosse andata dispersa dopo un’unica mostra a Dresda nel 1912. Claudia Maga, questo il nome della quindicenne piacentina, sottopone le proprie osservazioni al prof. Ferdinando Arisi, noto critico e storico dell’arte e membro del consiglio d’amministrazione della Galleria Ricci Oddi. L’intuizione è folgorante. Quando tra la primavera e l’estate di quello stesso anno il dipinto viene sottoposto ad esami e indagini spettrali, ecco che sotto i colori del Ritratto di Signora compare un secondo volto: il Ritratto di Ragazza, dipinto da Klimt nel 1910 e per motivi ignoti ricoperta successivamente con un nuovo ritratto, avente per soggetto la stessa modella.
La notizia del doppio ritratto diviene un autentico caso, la sensazionale scoperta ha una risonanza mediatica eccezionale. Non solo per la prima volta l’opera si era guadagnata la prima pagina della stampa locale: l’eco oltrepassa i confini nazionali e arriva sino a Vienna. Dopo la visita del console austriaco si inizia a ipotizzare una collaborazione tra le due città. All’inizio del 1997, scrive Mariani, ‹‹per consacrare la sensazionale scoperta, il Comune di Piacenza e la Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi annunciano al mondo che il doppio ritratto sarebbe stato protagonista di un’esposizione […] a Palazzo Gotico, una mostra intitolata “Da Hayez a Klimt. Maestri dell’Ottocento e Novecento della Galleria Ricci Oddi”, una mostra dove avrebbero dovuto essere esposte un’ottantina fra dipinti e sculture della raccolta di via San Siro››. Per la prima volta il Ritratto di Signora sarebbe stata ‹‹l’attrazione principale di una mostra e il fulcro di un progetto tutto piacentino››, mentre Piacenza avrebbe goduto di una ribalta le cui ricadute avrebbero portato benefici in ogni settore. Ma a questo punto accade il secondo colpo di scena di questa storia.
L’inaugurazione della mostra Da Hayez a Klimt era fissata per il giorno 8 marzo. Ma la sera del 22 febbraio, durante i concitati giorni dei preparativi, i custodi della Galleria Ricci Oddi si accorgono della sparizione di un quadro. E non si tratta di un’opera qualsiasi. La tela rubata è proprio il doppio ritratto. Di lì a poco si capirà che il quadro era stato rubato probabilmente il 18 febbraio, ma i responsabili se ne erano accorti con un ritardo di quattro giorni.

All’epoca del furto Ermanno Mariani lavorava per il quotidiano Parma e Piacenza Mattina, un inserto locale de L’Unità, ed era corrispondente del quotidiano Il Giorno per Piacenza, come cronista di nera. Da allora e fino ad oggi si è occupato di questa storia seguendone le indagini, le ricostruzioni, i sospetti, le rivelazioni, i misteri e le trame, e le tante leggende che intorno a questo furto si sono accumulate negli anni. Una storia che è andata ben oltre la ricerca della verità e di tutte le possibili narrazioni che se ne sono fatte.
Unendo l’abilità di cronista nel raccogliere e raccontare i fatti con la capacità del narratore di rielaborare i fatti per creare una storia, attraverso la forma plastica di un romanzo Mariani ha deciso dopo vent’anni di raccontare la propria versione, fondendo ‹‹ciò che davvero accadde e ciò che sarebbe potuto accadere››, nel tentativo ‹‹di fornire al lettore una spiegazione su quello che forse è accaduto››: perché ‹‹compito della letteratura romanzesca è la ricerca della verità, non dei fatti esattamente come sono avvenuti. O meglio ancora: un tentativo, uno sforzo di avvicinarsi alla verità››. Così, quasi assecondando con lo sguardo il racconto in prima persona dell’alter ego dell’autore, un cronista incaricato di seguire la vicenda del furto del Klimt, siamo accompagnati a rivivere, in uno stile ironico che qua e là attinge ai toni del noir, ciò che accadde in quei giorni, quelle settimane, quegli anni, attraverso la riproposizione di personaggi reali o liberamente ispirati, delle loro voci, delle storie e degli imbrogli, delle testimonianze e delle indiscrezioni, e di tutti gli intrighi di un mondo, ai confini tra luci e ombre, fatto di investigatori e di ladri, di falsari, collezionisti e mercanti d’arte. Ripercorriamo così le indagini delle forze dell’ordine, che hanno visto coinvolti anche i carabinieri del “Nucleo tutela patrimonio artistico” di Bologna, riguardo alle modalità e alle responsabilità grazie alle quali il quadro ha potuto essere incredibilmente portato fuori dalla Galleria, e riguardo alle piste che avrebbero dovuto ritrovarlo – per alcune all’estero, per altre ancora nascosto a Piacenza. Si raccontano le varie segnalazioni e gli avvistamenti dichiarati dell’opera, riportati anche sui giornali nazionali, e i commenti di eminenti personaggi; i tanti ritrovamenti di opere d’arte rubate, effettuati dalle forze dell’ordine in quegli anni, che hanno fatto luce su un mondo ancora poco conosciuto ma che produce grandi profitti alla criminalità organizzata – si stima che l’Italia abbia il triste primato, con 20.000 furti l’anno di opere d’arte; si solleva anche un velo sul mondo della contraffazione delle opere d’arte, presentato come un vero e proprio “mercato dei sogni” disponibile alle tasche di ogni acquirente, che offre a ciascuno l’illusione di possedere un autentico “capolavoro”. Vengono menzionate anche alcune delle tante copie che sono state realizzate e che sono circolate di Ritratto di Signora in quegli anni. Ma il quadro vero non sarà mai rinvenuto, né accertata una verità definitiva, e il romanzo si conclude insieme alle ormai poche speranze, dopo vent’anni e i tanti fallimenti, di ritrovarlo.
Ma qui arriva il terzo colpo di scena della storia di questo quadro. Il 10 dicembre 2019, durante i lavori di manutenzione del giardino della Galleria Ricci Oddi, incredibilmente Ritratto di Signora viene ritrovato in un vano esterno del museo. Su come sia arrivata lì, ovviamente, mistero. Fatto sta che le analisi condotte hanno accertato che si tratta del quadro autentico, ed il 28 novembre ha potuto essere finalmente ricollocata all’interno del museo. Il destino però ancora non ha smesso di essere beffardo: a causa dell’emergenza sanitaria, i musei sono chiusi e anche l’opera ritrovata non può ancora essere vista dai tanti appassionati, o semplici curiosi del quadro e della sua straordinaria vicenda. Bisogna dunque attendere ancora, fin quando il 27 aprile di quest’anno, con la cessazione delle restrizioni, la Galleria Ricci Oddi ha riaperto al pubblico e la sua opera più celebre è finalmente disponibile agli sguardi dei visitatori.

Questa potrebbe essere una conclusione, finalmente lieta, della storia – almeno per ora; ma non è certo la fine di tutte le domande e dei misteri che da oltre vent’anni accompagnano il doppio ritratto.
Ogni opera d’arte ha un’anima; un’anima sua propria, dentro la quale soffia anche lo spirito del suo tempo. Il Ritratto di Signora ce lo lascia intendere, con la fascinosa seduzione del suo profilo, il languore dello sguardo e la leggiadria primaverile che ne infiora il vestito; un’ambiguità che racconta la sua doppia identità, questa manifesta e quella celata del Ritratto di Ragazza, col suo cappello nero e il vistoso boa che ne avvolge il collo e cade a coprire i seni, ad evocare la moda francese di inizio Novecento. Un’ambigua doppiezza che simboleggia e ci riporta direttamente allo spirito di quel tempo, dove la sontuosa e spensierata gaiezza della Belle Époque nascondeva sotto la patina le inquietudini della propria dissoluzione ad opera di forze ancora inconsce e portatrici di drammatici enigmi alle quali Freud, in quella stessa Vienna della donna del ritratto, stava iniziando a dare nome e cittadinanza.
[1] W. WORRINGER, Problemi formali del gotico – 1911
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