R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Che tipo di strumento suona Eivind Aarset? Troppo facile rispondere che sia una chitarra. Facile e sbagliato, perché ciò che di solito emette suoni tra le mani del musicista norvegese è un animale ibrido tra il cordofono e l’elettronico. Tutto questo però almeno fino ad oggi. L’uscita di questo eccellente Phantasmagoria or a different kind of journey, infatti, dimostra un parziale cambiamento di rotta nelle sonorità volute da Aarset per ciò che riguarda l’utilizzo della sua chitarra che diventa uno strumento più riconoscibile nonostante le intense, montanti mareggiate elettroniche a cui viene sottoposto da due guastatori come Jan Bang e John Derek Bishop. Questi ultimi sono accreditati come ospiti, alla stregua del trombettista Arve Henriksen che appare in un paio di brani ma il nucleo centrale del quartetto di Aarset comprende, oltre allo stesso chitarrista, alcuni suoi vecchi amici come il bassista Auden Erlien e i due batteristi-percussionisti Erland Dhalen, che suona anche il vibrafono e Wetle Holte, quest’ultimo anche al mellotron e all’organo. Phantasmagoria è un lavoro un po’ spiazzante per i suoi continui rimandi a certo rock nordico-germanico dei ’70. Come in una spettrale successione d’immagini passano davanti ai nostri occhi gruppi come Can, Neu, Amon Duul, Agitation Free, Popol Vuh fino al riproposi di eidola come i Pink Floyd o addirittura come gli Hawkwind, tanto per non farci mancare nulla. E il jazz? Togliamoci subito il dente guasto: questo è un disco di “nuovo” rock. I jazzofili che hanno in mente il termine – orrendo – di ”avant-jazz” faranno meglio a cercare altrove. Piuttosto Aarset è un musicista contemporaneo che ha smarrito volontariamente le certezze direzionali del primo Electronique noire per portarsi in un mare aperto caratterizzato da ambigui riflessi lunari e luminescenze ipnagogiche. Siamo lontano anni luce dalla tradizione jazz ma assai più vicino al “…dove eravamo rimasti?” della fine dei ’70, quando rock ed elettronica si unirono in un matrimonio soddisfacente, pur di breve durata. Non si tratta però di una reminescenza vintage, anzi, ci troviamo di fronte ad un disco carico di elettricità, un temporale all’orizzonte che fa presagire sviluppi futuri imprevedibili pur con l’agitarsi di certi ricordi che rollano l’imbarcazione con un inquieto beccheggio.

Evidentemente Aarset ha superato da un pezzo la sua linea d’ombra ma ha bisogno ancora di qualche rassicurazione prima di continuare la sua navigazione in solitaria. Nel frattempo, oltre alle reminescenze seventies, il nostro musicista se la gioca con qualche vibrazione ambient e un bagaglio di rumorismi ben controllati. Il brano iniziale del disco, Intoxication, è paradigmatico. Con quel basso che passeggia cadenzato e la chitarra fatta di cristalli arpeggiati mi rammenta addirittura una Careful with that axe, Eugene cinquant’anni dopo, anche se qui manca l’urlo di Waters sostituito dal rumoroso brontolio della chitarra di Aarset. La timbrica dello strumento resta “naturale” per quanto possibile, con qualche riverbero e qualche controllata distorsione. Psichedelia d’alta scuola, si potrebbe commentare. Pearl hunter resta su una lunghezza d’onda analoga e procede con rilassatezza, limitando le inquietudini del brano precedente, ma quanto ricorda i corrieri cosmici, con quel suo incedere ipnotico che s’irrobustisce ritmicamente e sonicamente verso le battute finali!! Outbound si concede qualche effetto elettronico in più ma la serie di arpeggi ad intervalli di terza della chitarra che costituisce l’ossatura quasi dell’intero brano ne struttura anche l’andamento melodico. Nonostante le scariche elettroniche dei due sabotatori Bang & Bishop – ma forse proprio per la loro azione – la traccia ha una dinamica interiore molto tesa e contemporanea, con un buon sostegno di batteria tirata in tempi dispari. Duløc – The Cat ́s Eye è una lunga via crucis attraversata da frustate di effettismi in cui basso e batteria tracciano una guida luminosa per mantenere la dritta ad ogni costo. È il brano più “nevrotico” dell’intero album, forse prolungato oltremisura.

Manta Ray ci fa discendere tra suoni liquidi in un visionario paesaggio sottomarino, aiutati dal fiato misurato della tromba di Henriksen che mette in moto una macchina dei sogni ad hoc. Il tempo di adagiarsi sul fondale e la visione diventa confusa, declinata, tutto pare muoversi caoticamente e si dissolve in una serie di suoni che ricordano i biosonar dei delfini e delle balene. See this one coming si preannuncia con una nota ribattuta di basso e una serie di effetti elettronici che la intersecano in un suggestivo incrocio tra Klaus Schulze e Holger Czukay. La chitarra parte in assolo tra un mulinare di campionamenti e vari riverberi che disegnano imprevedibili plissettature della stoffa musicale. Arriva Soft grey ghosts e l’atmosfera s’incupisce preannunciandosi con un andamento quasi orchestrale, ovviamente attraverso una simulazione chitarristica ed una probabile sovrapposizione di mellotron che solletica il ricordo di Ummagumma. Poi tutto si stempera in una base quasi gothic-pop, molto gradevole. Aarset sovrappone i suoni di chitarra ottenendo seducenti, plastici chiasmi costruiti su una miscela percussiva a metà tra la drum-machine e la batteria acustica. Inbound è tutto elettronica e batteria con sonorità chitarristiche che sembrano grida in lontananza. Qualche intervento alla Zawinul, soprattutto nelle tastiere. Vorrei poter dire che c’è un po’ di jazz, almeno in questo brano, ma mi trattengo dal farlo perché sarebbe una inutile forzatura. Chiude l’album Light on Sanzu river, un brano ispirato da una traccia della cantante norvegese Anneli Drecker. Il fiume Sanzu equivale, nella tradizione buddhista giapponese, allo Styx della mitologia greca. È il fiume dell’attraversamento e dei tre guadi. L’anima del defunto s’incamminerà facilmente nell’aldilà attraversando un ponte, oppure con qualche difficoltà in un guado oppure ancora con gravi ambasce su un fondale pieno di serpenti. La modalità del passaggio dipende ovviamente dal carico di colpe accumulate in vita. Il titolo del brano suggerisce che il passaggio di Aarset e compagni possa essere il più leggero possibile. Una melodia dolce, con qualche appunto orientaleggiante e un vago senso di tristezza accompagna l’ultimo viaggio musicale di questo disco.
Notevoli, come si è visto, le suggestioni sonore del passato ma proiettate in un futuro ancora da scrivere. Aarset ha seguito le indicazioni di un proprio Maestro Segreto che non gli rivela la meta ma che l’invita a procedere attraverso le numerose immagini sonore da condividere con l’ascoltatore, come una lanterna magica che proietti ombre colorate in una fantasmagorica, appunto, oscillante sequenza onirica.
Tracklist:
01. Intoxication
02. Pearl Hunter
03. Outbound
04. Duløc – The Cat ́s Eye
05. Manta Ray
06. Didn ́t See This One Coming
07. Soft Grey Ghosts
08. Inbound
09. Light on Sanzu River
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