R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Credo di averlo ribadito già più volte e proprio qui, sulle pagine di Off Topic, che il jazz di Chicago non è solo il riferimento attualmente più importante negli USA ma è forse una delle proposte più innovative di tutta la musica contemporanea. È chiaro che in questa circostanza la vexata quaestio riguardi il significato letterale del termine ”jazz“ come del resto, l’autore di In These Times, cioè Makaya McCraven, ha così sottolineato:  “Cerco solo di creare la miglior musica possibile e non so neppure se chiamarla jazz…  e forse non è necessario etichettarla in questo modo” (da All About Jazz – 29/01/21). Ma come mai il batterista McCraven si schermisce nell’attribuirsi questo ruolo di jazzista? Non siamo alle soglie di alcun utopismo musicale, McCraven non è un teorico – anche se si fa chiamare “scienziato del ritmo” e definisce la sua musica come “organic beat music” – bensì un musicista che agisce diacronicamente su ciò che suona e non solo per quello che riguarda i consueti approcci improvvisativi. L’azione, in realtà, si prolunga oltre l’incisione musicale in sé. Come già fecero, in passato, Miles Davis con il suo produttore Teo Macero, sui nastri o comunque sulle tracce raccolte vengono operati dei tagli, delle cuciture, degli assemblaggi trasversali tra celle musicali differenti per ottenere una sorta di musica “reinventata”, prolungando il lavoro creativo oltre i limiti della pura performance. Inoltre McCraven accoglie nelle sue composizioni tutto ciò che può apparirgli congeniale, dagli archi ai droni di sottofondo, dai suoni urbani contemporanei dell’hip-hop al dub e ai ritmi jungle, inserti modali, soul music, spiritual jazz… Persino la scelta degli strumenti è estremamente fluida per cui ai tradizionali elementi dei gruppi jazz si aggiungono arpe, flauti traversi, marimbe, sitar, quartetti d’archi ed altro ancora. Pur non essendo originario di Chicago – McCraven è infatti nato in Europa, a Parigi, nel 1983 – qui si è trasferito a 24 anni, dopo una prima residenza nel Massachusetts. Ma è proprio nella Città Ventosa che il batterista franco-americano viene ben presto ad includersi nella scena musicale della città, tesa tra avant-garde e tradizione. Ora, dopo aver pubblicato il suo primissimo disco da titolare nel 2012 – Split Decision – e dopo una serie di interessanti uscite tra cui l’ultimo, acclamatissimo Deciphering The Message dell’anno scorso, McCraven propone un album con undici tracce, registrate in cinque studi differenti e in quattro performance dal vivo.
Questo lavoro ha richiesto una preparazione durata circa sette anni, avvenuta tra l’altro in contemporaneo allestimento di tutte le altre pubblicazioni, a cominciare da In The Moment del 2015. Sembra proprio che In These Times si sia voluto rappresentare una sorta di sintesi complessiva dell’estetica musicale di McCraven, quasi a tirar le fila di un discorso iniziato diversi anni fa e mai portato definitivamente al suo compendio. L’Autore viene accompagnato da una quindicina di elementi, tra cui qualche nostra vecchia conoscenza come Brandee Younger – una recensione la trovate quiJoel Ross – anche lui è recensito quiGregg Spero – potreste dare un’altra occhiata quied una serie di altri validi musicisti che elencherò alla fine della recensione.

Sebbene la musica di McCraven possa dare l’impressione, talora, di essere un po’ sovrabbondante nei suoni e nei tempi, in realtà le undici composizioni si condensano tutte in poco più di quaranta minuti d’ascolto, le linee melodiche sono bellissime e le basi ritmiche, sia la batteria suonata dall’Autore che gli interventi percussivi elettro-beat, sono sempre affascinanti e coinvolgenti. Inoltre c’è una narrazione lineare nello sviluppo, sono pochi gli strappi logici da un’idea all’altra, per cui si ha costantemente l’impressione che il discorso fluisca senza intoppi, cioè nel modo più naturale possibile.

Inizia tutto con il primo brano live, appunto In These Times. Alla base un tappeto elettronico su cui un parlato, probabilmente pre-registrato che viene via via sopravanzato dal volume della musica, sembra accennare polemicamente al prezzo di vite umane pagato al “progresso” civile. Parte quindi il tema, un amalgama perfetto tra archi, flauto, sitar e synth, con una larga melodia quasi romantica che s’interrompe dopo circa tre minuti per consentire a Joel Ross i suoi inserti reiterati di marimba. Da qui in poi cambia il ritmo, l’aspetto e lo svolgimento del brano. Il sax tenore di Gregg Ward irrompe sulla scena musicale e mette alla prova il suo fiato con un fraseggio di note rapide e molto acute. Ma la sensazione più bella è quando, sotto l’assolo di sax, riprende il tema di cui sopra che si distende nelle retrovie con una struttura ritmica più convulsa a cui partecipa anche la chitarra di Jeff Parker. The Fours, realizzato in studio, si manifesta inizialmente con un colloquio tra batteria e contrabbasso attorno al quale si aggiungono via via gli altri strumenti – riconosciamo, l’arpa, la chitarra, il flauto, un pizzicato d’archi, qualche nota di piano, una sfumatura di tromba dell’ottimo Marquis Hill, altro geniaccio della scena di Chicago. L’assetto melodico presenta qualche orientalismo, accentuato dall’incrocio tra il flauto, probabilmente sovra inciso e i pochi accenni di arpa. Handclap elettronico in sampler, tanto per far capire come l’hip-hop sia di casa dalle parti di McCraven. High Fives sviluppa un intrigante progressione armonica discendente con il solito avviluppo di strumenti e l’elemento ritmico che si scagliona e si frantuma in vari rigagnoli sonori con l’aiuto anche di un arpeggio di chitarra, esemplare nella sua semplice efficacia. La melodia non manca mai, la sovrapposizione sonora è ben studiata e il risultato finale, come in tutta la musica di McCraven, non si allontana mai da una piacevolezza d’ascolto che dilaga man mano che il brano progredisce. Dream Another è quasi jazz psichedelico “directly from seventies” con la scansione ritmica ben in evidenza e il sitar che arpeggia per tutto il pezzo. Volano il flauto e la chitarra, la cantabilità del brano fa venire in mente qualche colonna sonora di vecchi telefilm americani del periodo sopra accennato. Non manca qualche suggestione di Herbie Mann, visto la prerogativa del flauto in questo frangente. Lullaby è un salto in paradiso, con l’arpa della Younger che introduce delle velature angeliche nel brano che preferisco, con il violino e gli archi in secondo piano, mentre emerge anche la tromba dal fondo del pentolone dove tutto si mescola e ogni suono si combina in un altro. “Stupendo” è l’unico aggettivo che riesco ad immaginarmi per questo pezzo, altamente suggestivo e che mette in mostra il valore compositivo di Mc Craven, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno. Con This Place, That Place ritorniamo dal vivo e forse questo è il brano più complesso dal punto di vista ritmico. L’impressione è che la musica scivoli via al di sotto della componente percussiva anche se invece il controllo su quest’aspetto è molto rigoroso. Se inizialmente si possa avere l’impressione di un’autentica prova jazz-live, il pizzicato degli archi e le ance ci conducono invece in altri territori più misteriosi ma qui si rende maggiormente visibile la componente orchestrale nel suo insieme. Onirismi, sincopi tambureggianti, marimba, arpa ed apoteosi d’archi sono gli elementi di un’atmosfera cool, tenebrosamente elegante.

Ancora pieno di violini e d’insieme orchestrale è The Calling, dove sopra un magistrale arrangiamento d’archi emerge il flicorno di Hill con un grande potere suggestivo. Seventh String inizia con una sequenza di qualche accordo di chitarra e ritmi in controtempo a distendersi sopra una selva floreale di percussioni ruotanti attorno ad una linea melodica in cui si evidenzia ancora una volta il flauto in un lirico solismo. Rimaniamo sempre in quota, dunque, la musica resta di altissimo livello ed è un piacere approcciare anche il pezzo successivo, So Ubuji. L’atmosfera si fa più leggera e giocosa e rimanda a melodie giapponesi, una sorta di oriental jazz music con sfumature pop e tanto di handclap e marimba a dare il tocco esotico. Con The Knew Untitled si torna dal vivo e appare finalmente in prima linea il piano di Greg Spero impegnato in un sognante arpeggio iniziale prima di essere inglobato sia dalle percussioni che dall’insistente pizzicato degli archi. Stacco, pausa e ripresa in modalità rock pura e cruda, con batteria lineare e assolo magnifico, nel suo senso della misura, della chitarra di Parker. Poi verso la chiusura ritorna la dolcezza melodica della parte iniziale, con archi melodiosi, fiati e pianoforte che si riprendono lo spazio sonoro. Che altro, se non ribadire la bellezza di questi brani così eterogenei ma che non perdono mai il loro filo d’Arianna? Si chiude in tutta rilassatezza con The Title, riprendendo in qualche modo la linea degli anni’70 che c’era in Dream Another, tra Quincy Jones ed Isaac Hayes.

È indubbio che Mc Craven sia una personalità dirompente nell’ambito del jazz o come altro si voglia chiamare la musica che ne risulta. L’insieme di oligoelementi sonori, veramente a volte infinitesimali, viene assemblato con una visione superiore del problema, rovesciando la prospettiva della creazione. Non solo dall’inizio alla fine ma si procede anche in senso inverso, lavorando di taglia e cuci e di manipolazioni in sala di mixaggio, ridiscutendo in parte il prodotto originale. I cultori “terminali” del classico jazz si rassegnino e si adattino ai cambiamenti che provengono dall’area di Chicago, anche perché ho l’impressione che questo modo di esser e di vivere la musica, in cui non si sono persi i canoni melodico-armonici di un tempo, semplicemente adattati allo zeitgeist contemporaneo, si espanderà ben presto a macchia d’olio per tutta la provincia del jazz.

Di seguito, come promesso, l’elenco completo dei musicisti che hanno partecipato a questo In These Times:
Makaya McCraven – drums, sampler, percussion, tambourine, baby sitar, synths, kalimba, handclaps, vibraphone, wurlitzer, organ
Junius Paul – double bass, percussion, electric bass guitar, small instruments
Jeff Parker – guitar
Brandee Younger – harp
Joel Ross – vibraphone, marimba
Marta Sofia Honer – viola
Lia Kohl – cello
Macie Stewart – violin
Zara Zaharieva – violin
Greg Ward – alto sax
Irvin Pierce – tenor sax
Marquis Hill – trumpet, flugelhorn
Greg Spero – piano
Rob Clearfield – piano
Matt Gold – guitar, percussion, baby sitar
De’Sean Jones – flute

Tracklist:
01. In These Times
02. The Fours
03. High Fives
04. Dream Another
05. Lullaby
06. This Place That Place
07. The Calling
08. Seventh String
09. So Ubuji
10. The Knew Untitled
11. The Title

Photo © Sulyiman, Janet M. Takayama