L I V E – R E P O R T
Articolo e immagini sonore di Claudia Losini
Avevo quasi dimenticato quanto sia bella l’esperienza di sentire i Múm dal vivo. L’ultima volta, anzi, l’unica, fu nel 2009 a Spazio 211, quando presentarono Sing along to songs you don’t know.
Scoprii i Múm, il cui nome non si significa nulla, se non che la disposizione delle lettere ricorda due elefanti che si guardano intrecciando le proboscidi, con il loro primo album, preso perché già dal titolo mi aveva fatto capire che tipo di musica avrei ascoltato: Yesterday was dramatic – today is OK. In realtà la tristezza in questo primo album passava quasi in secondo piano sulla sperimentazione glitch, un genere che agli inizi del 2000 stava esplodendo. Brani come I’m 9 today e The ballad of the broken birdie records sono rimasti dei classici. Così come Green grass of tunnel e l’incredibile We have a map of the piano entrambe di Finally we are no one.

I Múm sono una parte molto significativa delle produzioni musicali indie degli inizi 2000, e nei loro 20 anni di attività hanno sempre avuto la straordinaria capacità di far sognare il pubblico. Certo, la formazione nel corso degli anni si è modificata: non ci sono più le due gemelle Valtýsdóttir, mentre rimangono Örvar Þóreyjarson Smárason, Gunnar Tynes, Sigurlaug Gísladóttir, il percussionista-batterista Samuli Kosminen e il nuovo membro Jeffrey Tyler Ludwick; ma la sostanza è rimasta: la stessa voci sognanti, sperimentazione e post rock. E anche stavolta ne hanno dato prova sul palco, dove hanno fatto emozionare il pubblico non solo coi grandi capolavori che hanno reso famosa la band in tutto il mondo, ma anche con i brani dell’ultimo album, registrato in Puglia, presentati per la prima volta dal vivo. Queste sono canzoni più pop, con un’impronta trasognata, innamorata, nostalgica, forse meno sperimentale ma indubbiamente d’impatto. Sigurlaug ci fa sentire come se fossimo nella sua cameretta, mentre lei canta con una voce eterea e balla, quasi non ci fosse nessuno a vederla.

Il pubblico, che, ammettiamolo, è formato per la gran parte dallo zoccolo duro di chi seguiva il gruppo fin dagli esordi, i nostalgici di quei tempi forse più genuini dove la musica si scopriva nei negozi di dischi e per passaparola, dove ai concerti si andava per scoprire le band e comprare i vinili. Siamo tutti lì, chi a occhi chiusi, chi a osservare con cura i movimenti della cantante sul palco, chi perso nei propri pensieri, quasi la musica lo aiutasse a trascendere la presenza fisica per fluttuare nello spazio.
Il finale è, ovviamente, “We have a map of the piano”: la perfetta conclusione di un concerto catartico, per dimenticarsi per un’ora e mezza di se stessi e semplicemente lasciarsi trasportare dal suono, dalla voce, dall’emozione.




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