R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Questo A Short Diary, pubblicato da Sebastian Rochford e Kit Downes, è un epicedio, un’elegia funebre dedicata al padre di Sebastian, Gerard Rochford, prestigioso poeta scozzese morto nel 2019. Si tratta di un lavoro così fragile che andrebbe maneggiato con cura, rimanendo consapevoli non solo della forte matrice sentimentale di cui l’album è impregnato ma anche dello sforzo dell’Autore stesso di metabolizzare, col tempo, la perdita del proprio affetto. I due artisti tracciano un reticolo di decriptazione abbozzato originariamente da Rochford – che non è in realtà un vero pianista ma un ottimo batterista – proprio sul pianoforte del padre, nella vecchia casa della sua infanzia ad Aberdeen. Lasciandosi trasportare dal ricordo, tracciando sulla tastiera solo pochi segni di un percorso melodico che verrà poi arrangiato da Downes, Rochford applica l’arte della sottrazione, quasi si fosse messo all’opera come un maestro zen, scarnificando il cuore della sua musica fino alla fibra primigenia. Le note scivolano sul piano goccia dopo goccia, gli accordi sono momenti di abbandono per costruire un percorso armonico dilatato basato sull’arte del respiro e – paradossalmente – del silenzio. Si ascoltano echi di canzoni infantili, discorsi rimasti catturati tra le mura della casa avita, odori, luci, passioni e sentimenti, tutto il rimescolio di memorie in grado di estrarre dalla trance rimembrante di Rochford un neorealistico codice miniato, un disegno in punta di pennello dove ogni traccia di colore è il risultato di una sintesi, un diario di souvenirs sfogliato con commozione pagina dopo pagina. Come tradizione vuole, Thanatos richiama Eros, la Morte evoca l’Amore in un eterno andamento ciclico che prosegue dall’inizio dei Tempi.
Chi sono i due protagonisti coinvolti professionalmente in questo album? Di Kit Downes noi di Off Topic ci siamo occupati a lungo, sia per quello che riguarda una sua performance live all’organo chiesastico in quel di NovaraJazz nel corso di quest’anno – la recensione potete leggerla qui – e anche a proposito del suo album Vermillion, sempre del 2022, che potete invece rintracciate qui. Sebastian Rochford è un apprezzato batterista cinquantenne, scozzese, con alle spalle una cospicua selezione d’incisioni, sia come leader dei Polar Bear, una band di avant-jazz in attività dal 2004, sia come solista sotto lo pseudonimo auto-ironico di Kutcha Butcha, un nomignolo dispregiativo talvolta utilizzato per definire i nati da coppie anglo-indiane come lo stesso Rochfort. Ma è stato anche il batterista dei Sons of Kemet – nominati qui a proposito del recente album di Tom Skinner – ed ha collaborato con il sassofonista Andy Sheppard, con Brian Eno & David Byrne, con il pianista Bojan Zulfikarpasic, Rokia Traorè, Patti Smith e molti altri ancora. Ai rispettivi strumenti, Rochford con la batteria e Downes al piano, i due artisti s’inseguono entrambi con comprensione ed empatia soffermandosi sull’idea di ciò che è transitorio, fuggevole e contingente, attraverso una lettura fatta di progressivi rispecchiamenti, immagini nelle immagini in un rincorrersi all’infinito di una vera e propria mise en abyme di figurazioni concatenate.

Il primo brano che incontriamo in queste confessioni d’autore è This Tune Your Ears Will Never Hear. Due accordi in minore – Fa e Do – s’inseguono accompagnati da un sostegno di piatti, quasi un incipit che ricorda la musica svedo-norvegese di questo ultimo ventennio, peraltro di marca ECM com’è appunto questo album. Un passo inizialmente marziale, una versione contemporanea dell’annuncio del destino beethoveniano come nella Quinta sinfonia. Ma il resto s’incanala, dopo questo iniziale momento di frattura dolorosa, nel clima riflessivo che percorrerà tutto il disco. Le pause della scrittura assurgono alla dignità di silenzi, attraversati da effimeri istanti di luminosità, destinati a sfumarsi, infine, in una sorta di atmosfera crepuscolare. Communal Decisions inizia con un curioso tema che ricorda una famosa colonna sonora di John Williams – lascio alla memoria del lettore indovinare quale… Si tratta di un brano minimale, pochissime note in piano solo, quasi smarrite nel ricordo di una nenia infantile, un passo lontano la cui eco si diluisce nello spazio vuoto di una stanza, un’apparizione fantasmatica riemersa dalla nebbia del passato. Night of Quiet non è molto da meno ma qui sono gli accordi che s’allineano, tremolanti come i ricordi, armonicamente molto legati ma distanti da intervalli meditativi. Come se lo sguardo si posasse su oggetti conosciuti e familiari, cercando di setacciarne l’essenza oltre all’immediata apparenza della forma. Anche qui il piano di Downes si muove in solitudine. Love you Grampa ha invece bisogno di una moderata base ritmica, qualche battito di piatti, qualche colpo di tosse del rullante, in un brano estremamente melodico con un’armonia semplice, eufonica. Ribadendo l’importanza dei legami familiari, ripercorrendo la strada a ritroso fino a rammentarsi della presenza dei nonni, la musica cerca di recuperare il filo della memoria, prima che Atropos ineluttabilmente, lo recida del tutto. La bellezza del brano sta proprio in questa alternanza di spiriti alti e bassi, nodi ora stretti e adesso sciolti in continua, disarmante semplicità. Verso il finale l’elegia guida la mano, rallentando la sequenza delle note fino a trasformare il brano in una composizione quasi innodica.

Our Time is Still si manifesta con l’eleganza rarefatta di una contemplazione notturna. Il pianismo di Downes appare per certi versi piuttosto in linea con lo stile che gli riconosciamo ma certo è che la delicatezza diafana qui dimostrata non la si ricorda così frequentemente in altre sue istanze. Silver Light si muove un po’ di più, almeno melodicamente, anche sa dal punto di vista armonico sembra quasi una ballata dai sapori malinconici, altalenandosi nell’arco di pochi accordi, con la batteria che gli sussurra accanto. Il piano accenna a qualche sfumatura pop e persino blues e forse in questi momenti si avverte la mancanza di un contrabbasso come rifinitore, data la suggestione del trio che il brano sembra richiamare. Ten of Us cerca di liberarsi dalla consuetudine armonica fin qui dimostrata, fraseggiando con una tessitura di dolcezza quasi ispanica, addirittura a ricordare la mano ombrosa di Federico Mompou. Finale in crescendo molto lirico, cadenzato e lievemente enfatico. Chiude l’album un brano molto particolare, per quello che riguarda la sua genesi. Even Now I Think of Her fu infatti composto dal padre di Sebastian, Gerard, che lo incise sul suo cellulare. In un secondo tempo il figlio l’inoltrò a Downes, affinché lo potesse sviluppare. Non so quali apporti siano stati aggiunti al pezzo in questione ma l’ascolto s’incentra su una melodia lineare e cantabile, dalle lontane valenze classiche, tra le cui quinte la batteria ricama, come al solito, qualche chiaroscurata percussione.
Da un certo punto di vista la novità, si fa per dire, sta proprio nel fatto che questa musica principalmente per piano sia stata originariamente scritta da un-non pianista. Dato per scontato che più o meno tutti i compositori, qualsiasi strumento suonino, compongano più frequentemente sul pianoforte, il punto di vista di un batterista in una circostanza come questa è sempre interessante, apparendo meno legato a schemi strutturali noti e a risoluzioni armoniche già collaudate. L’intensità poetica di quest’opera si avvita sul sentimento motore della nostalgia e dell’amore familiare, anche se talora un eccessivo laconismo asciuga eccessivamente la definitiva immagine sonora. Disco non difficile all’ascolto, ma talmente intimo e raccolto da richiedere assoluta concentrazione e, naturalmente, un orecchio più sensibile del solito.
Tracklist:
01. This Tune Your Ears Will Never Hear (3:52)
02. Communal Decisions (1:57)
03. Night Of Quiet (4:56)
04. Love You Grampa (6:15)
05. Our Time Is Still (3:32)
06. Silver Light (4:56)
07. Ten Of Us (7:08)
08. Even Now I Think of Her (4:14)
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