R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Arrivato agli ottant’anni sembra che Joe Chambers, anche a giudicare dalla posa un po’ guascona con la quale appare in copertina di questo nuovo Dance Kobina, mantenga un atteggiamento sufficientemente spavaldo senza avere alcuna intenzione di recedere dai suoi progetti creativi. Da questo punto di vista Chambers è un musicista che pare sempre sospeso in uno stato perdurante di grazia e tutto ciò lo dimostra annunciandosi in un nuovo album ricco di ritmi ma leggero come una nuvola. Questo suo procedere, pragmatico nel non disperdersi in superflue evoluzioni strutturali e costantemente vitalistico nelle linee espressive, viene giustamente premiato da un lavoro formalmente perfetto anche se non compare, in assoluto, niente di particolarmente nuovo. Ma da un batterista come lui, uno di quelli che hanno fatto la storia del jazz e se vogliamo pure della Blue Note – la recensione del suo precedente lavoro Samba de Maracatu e ulteriori informazioni sulla sua identità artistica potete rintracciarle qui – non ci si aspetta uno spavaldo orizzontismo di frontiera ma piuttosto proprio un album come questo, generoso nella sostanza, con un’identità locativa centrata sul jazz ma non fossilizzata in territori risaputi. Così com’era accaduto per il suo lavoro precedente, il titolo di quest’album può trarre in inganno, dato che il termine congolese Kobina significa “ballare”. Chi si aspetta quindi un lavoro dance infarcito di percussioni esotiche resterà ovviamente deluso. Non che in questo disco manchino aspetti ritmici e percussivi a suggerire l’influenza di matrici africane o latine – del resto la tecnica di Chambers, in questo album, coaudiuvata o meno da altri percussionisti, è in grado di assorbire e rielaborare qualsiasi stimolo poliritmico – ma l’impronta definitiva che si avverte è quella di un jazz che pare bastare quasi a sé stesso, focalizzato ma non sclerotizzato nella tradizione e inoltre alieno da qualsiasi nomadismo etnico.

Lo stile di questo storico batterista possiede l’agile levità di chi rifugge da pesanti esibizioni muscolari, preferendo la continua, tramestante sollecitazione di tamburi e piatti a cui non viene mai fatto mancare un moderato ma costante mordente esecutivo. Le tracce dell’album si susseguono con due formazioni differenti. La prima vede il pianista canadese Andrès Vial, che qui co-partecipa alla produzione, insieme al sax contralto di Caoillainn Power, Michael Davidson al vibrafono e alla marimba, Ira Coleman al contrabbasso ed Elli Miller Mabongou alle percussioni. La seconda si compone del pianista Rick Germanson, del sax alto di Marvin Carter, dal contrabbasso di Mark Lewandowsky e dalle percussioni di Emilio Valdes. Su tutti il leader Chambers che passa con naturalezza dalla batteria alle percussioni e al vibrafono.

Il brano di apertura è This is New scritto da Kurt Weill nel 1941 con il testo di Ira Gershwin – il fratello George era morto nel ’37 – e che faceva parte del musical presentato a Broadway, Lady in the Dark. Preceduto da una breve introduzione, il pezzo in questione si muove rigorosamente all’insegna del classico trio piano-batteria-contrabbasso, rendendo ben riconoscibile il tema affrontato peraltro da Vial con una cadenza interpretativa piuttosto somigliante allo stile di Bill Evans. Poi il pianoforte diventa più personalizzato quando parte in assolo, classicamente be-bop, seguito dal caldo contributo, veramente groovy, del contrabbasso. La ripresa del tema precede, come di prammatica, la chiusura del brano. Se prestate attenzione alla leggiadria con cui Chambers lavora sui tempi, vi farete senz’altro l’idea di come egli intenda l’interplay e quale sia una delle sue modalità preferite d’innesto nell’insieme di un trio, cioè innanzitutto quella di non alzare mai il proprio volume sonoro oltre quello gli altri. Con il brano che dà il titolo all’album, Dance Kobina, scritto dal pianista Vial, si abbandona la formula triadica per entrare in pieno regime poli-strumentale. Il pezzo dimostra un luccicore gioioso incentrato sulla stimolante alternanza solistica tra vibrafono e pianoforte, con un tema appeso ad un filo di pensosa malinconia quasi a compensarne l’esuberanza ritmica. Traspare la classe notevole di Chambers & C che tiene lontano ogni immagine oleografica contribuendo a creare un clima sereno, al netto di qualsiasi eccesso enfatico Il brano a seguire, Ruth, porta la firma dello stesso Chambers. Qui il sinuoso sax contralto è suonato da Carter ed anche il piano non è quello di Vial ma bensì di Germanson. Una traccia, questa, che indossa i crismi della ballad, quasi una morbida serenata color seppia, molto evocativa. La batteria si diffonde tra gli strumenti con tutta la discrezione possibile, secondo il collaudato stile di Chambers. Tra i brani migliori dell’album. La formazione di Caravanserai, altro pezzo firmato dall’Autore, è quella presente in Ruth ma le note di copertina rimarcano che al vibrafono è presente lo stesso Chambers, per cui o la traccia presenta una sovraincisione o c’è qualcosa che non torna nelle note allegate al comunicato stampa. Comunque sia, la ricchezza dell’intreccio batteria più percussioni aggiunte – ad opera di Valdes – contribuisce al colore della composizione che nel supporto ritmico ricorda certe musiche di Carlos Santana prima maniera. Gran tocco del pianista e vibrafono dotato di una calda solarità che partecipa alla creazione di un tema costruito su un’intrigante progressione di intervalli ascendenti.

Tocca ora a City of Saints, composizione uscita dall’estro del pianista Vial, mentre la formazione torna ad essere quella già coinvolta nel precedente Dance Kobina. Questo brano, ad essere sincero, mi sembra un curioso assemblaggio tra Song for my Father di Horace Silver e Naima di John Coltrane. Comunque la musica scivola via come rosolio, un distillato di jazz che proviene dalle cantine dei vecchi maestri, con interventi di sax e di piano che rimandano a Wynton Kelly e allo stesso Coltrane. Molto espressivo il contralto di Power e la voce cristallina del vibrafono suonato dall’ottimo Davidson. Gazelle Suite è una traccia ad opera di Chambers, dove Davidson si sposta dal vibrafono alla marimba e viceversa. L’aspetto insolito di questo brano è il suo continuo scivolamento da atmosfere africane al blues – che tanto lontano dall’Africa non è mai stato – per merito dell’interconnessione ritmica tra Chambers, le percussioni di Maboungou e la marimba. Il passaggio tra due climi musicali diversi sembra qui molto naturale, indirizzato ad un sound proteiforme che si chiude in un modo quasi tribale, addolcito dalle ultime note di vibrafono giusto in chiusura. Intermezzo è sempre di Joe Chambers ma qui le carte si rimescolano perché è lo stesso batterista che si mette al vibrafono, con Lewandowski al contrabbasso e Germanson al piano. Il tutto appare come un’improvvisazione totale, un momento di passaggio estemporaneo nel corso dello svolgimento più complesso fin qui registrato tra i diversi brani. Uno scorcio in trio, quindi, un trasparente ordito di suoni prima del prossimo brano, Power to the People. Questo è un vero e proprio omaggio verso Joe Henderson, l’autore del pezzo che uscì nel 1969 nel contesto dell’omonimo album del celebre sassofonista statunitense. Qui è il sax di Carter che si avventura in un lungo assolo turbinoso ed elegante, spesso accompagnato dal vibrafono, dimostrando notevole capacità tecnica, a cui fa seguito un intreccio ritmico con contrabbasso, batteria e percussioni. Proprio questo brano ci dà la misura della sintassi del gruppo, capace di rivedere e rivivere la musica di Henderson vent’anni dopo la sua morte. Chiude l’album Moondancer del chitarrista austro-americano Karl Ratzer, che prende il titolo dallo stesso album pubblicato nel 1999. Con un notturno tappeto sonoro di grilli – sembrano prodotti da uno strumento a fiato, piuttosto che da un circuito elettronico – gli strumenti si allargano, prendono spazio e respiro. All’insegna della moderazione, il pezzo in questione viene trattato come una ballad, dove possiamo apprezzare la bravura di Chambers al vibrafono che allaccia spesso le sue note al pianoforte di Germanson.

Vivere la vecchiaia – e chiamiamola col suo nome, ogni tanto! – con la delicata ma inesauribile gioia di un bambino, è il risultato del misterioso fosforo cerebrale che sembra animare lo spirito di Chambers. Il quale, senza mai superare i limiti del buon senso e operando all’interno di un’esperienza jazzistica che pochi possono pretendere di avere, edita un disco come Dance Kobina, a distanza di due anni dal precedente, dal suono sempre spontaneo e fresco. A tal punto che tutto questo, combinato con l’eleganza innata nel misurarsi con le percussioni e con la naturale fluidità del messaggio sonoro, contribuisce a rendere l’album affascinante quanto inaspettato come una fioritura fuori stagione.

Tracklist:
01. This Is New (5:19)
02. Dance Kobina (6:24)
03. Ruth (4:11)
04. Caravanserai (4:38)
05. City of Saints (7:31)
06. Gazelle Suite (5:27)
07. Intermezzo (2:55)
08. Power To The People (6:09)
09. Moon Dancer (4:43)

Photo © Randy Cole, Milikka Shad