R O C K M E M O R I E S


Recensione di Arianna Mancini

“I am the wolf, without a pack/ Banished so long ago/ I’ve survived on another skill/ And on my shadow on/ All I’ve learned is that poison stings…/I am the wolf, calming the beast…/I am the wolf, out wild and free”. (Sono il lupo, senza branco/ Bandito tanto tempo fa/ Sono sopravvissuto grazie a un’altra abilità/ E alla mia ombra/ Tutto ciò che ho imparato è che il veleno punge…/Io sono il lupo, che calma la bestia…/Sono il lupo, libero e selvaggio”).

25 novembre 1964, Ellensburg (USA) – 22 febbraio 2022, Killarney (IRL). Ogni inizio ha la sua fine, due date e nel centro, per chi lo ha amato e lo ha fatto incondizionatamente, infinite emozioni, fascinazione, oscurità e calore che scavano dentro la parte più nascosta. Spazi che si dilatano, viaggi: sia quelli che percorri stando fermo in rapimento d’ascolto che quelli fatti solcando le autostrade con l’adrenalina che pulsa in corpo per l’imminente attesa di un suo concerto.

Lui si piazzava lì, al centro del palco vestito della sua oscura statuaria eleganza, quasi immobile, impugnava il microfono con le sue mani tatuate di stelle e poi si palesava quella voce, il magnetismo di un suono viscerale. Il triste epilogo ha spento per sempre la speranza di poter assistere nuovamente ad un suo spettacolo, di poter ascoltare una nuova uscita discografica, una nuova avvincente collaborazione musicale o di leggere un suo nuovo scritto, ma il suo lascito artistico ha acceso una luce che brillerà nella stessa oscurità da cui è nata, e niente sarà in grado di scalfirla.

Mark, The Night Porter (come lo chiamava Kurt Cobain) The Wolf, o Dark Mark, il moniker che ha vestito una delle sue ultime incarnazioni, è stato…anzi è parte di quella nota schiera di artisti come Chris Cornell, Fabrizio De André, Elliot Smith, Ian Curtis, Jeff Buckley, Jeffrey Lee Pierce, Johnny Cash, Layne Staley, Luigi Tenco, Mark Linkous, Nick Drake, Syd Barrett, che amo definire, riprendendo le parole di Khalil Gibran, “insonni nel sonno”. Da questo stato di allucinazione e malessere perpetui dell’animo cuciti su vite condotte ai limiti, nel bene e nel male, nel fronteggiare ogni sorta di demone e di abisso, lì, nella “tragedia” e nelle crepe dell’esistenza si erige e svetta il loro songwriting.
     
Nella prefazione di I AM the Wolf, Lyrics & Writings (2017), una raccolta dei suoi testi con commento introduttivo per ogni album fino a Gargoyle, l’amico John Cale scrive: ”A voice is your first passport. You reach people with whatever noise you find effective. Then come the words that glom you to your listener like an invisible umbilical cord, each word a scramble with its own history that you throw like dice into the lake – but this is Mark Lanegan’s lake and each time the songs writhe in the water you hear the light and the darkness that illuminate him.” (“La voce è il tuo primo passaporto. Raggiungi le persone con il rumore che ritieni più efficace. Poi arrivano le parole, che ti legano all’ascoltatore come un invisibile cordone ombelicale, ogni parola è un’accozzaglia con la sua storia che si lancia come dadi nel lago – ma questo è il lago di Mark Lanegan e ogni volta che le canzoni si muovono nell’acqua si sentono la luce e l’oscurità che lo illuminano). Il riuscire a sentirsi parte di questa scossa credo che abbia a che fare con le emozioni inconsce, quelle abissali. I suoi testi intrisi di intima emotività, da quella più carnale a quella più delicata, uniti alla sua voce cavernosa e profonda, un timbro unico e inconfondibile, aprono un varco lì dove poche cose sanno arrivare. A questo proposito mi viene in mente una frase che Paolo Benvegnù mi disse nel corso di un’intervista (la trovate nel link, per chi volesse leggerla):”L’amore è intercettare l’irrazionale dell’altro”. È ovvio che in questo contesto per amore non si intende il sentimento che unisce due persone, ma la connessione profonda con un altro essere umano. Mark era in grado di suscitare questa alchimia, arrivare nella nostra parte irrazionale, dove sopiscono le emozioni celate e taciute, era capace di afferrarle e dargli voce lasciando un segno. Ti faceva sentire parte del tutto, tale accadimento è un miracolo e una volta che si toccano certe corde è impossibile non lasciare eterna traccia e dissolversi.

Con il suo innato carisma il nostro Wolf Poet ha attraversato la fine del Novecento ed il primo quarto del nuovo secolo esplorando svariati generi musicali e aprendosi ad una miriade di collaborazioni. Gli esordi a fine anni Ottanta con gli Screaming Trees, precursori del grunge con tinte garage psichedeliche e netta attitudine punk, propriamente dentro al grunge impreziosito da note blues con i Mad Season nello splendido e purtroppo atto unico di Above (1995), destinato a divenire un album di culto, in cui partecipò come ospite a fianco “dell’amico gemello” Layne Staley in I’m Above e Long Gone Day, lo stoner con i Queens of the Stone Age, l’elettronica prima con i Soulsavers e poi con Skeleton Joe (al secolo Joe Cardamone), le ballate indie con Isobel Campbell, il nebbioso e lunare alt rock dell’album Saturnalia (2008) dei The Gutter Twins con l’amico Greg Dulli con cui collaborò anche con i The Twilight Singers, il cantautorato sapiente intriso di beat electro di Downtelling (2019) con il producer italiano Alessio Natalizia (aka Not Waving).

Mark troverà il suo giusto posto nel mondo nella canzone d’autore lasciandoci dodici album in studio, che ci guidano nella sua evoluzione stilistica dalle atmosfere semi-acustiche degli esordi (The Winding Sheet, Scraps at Midnight e Field Songs), attraverso suoni rocciosi (Bubblegum), all’electroblues (Blues Funeral) aprendosi poi a spazi più elettronici (Phantom Radio e Straight Songs of Sorrow) mantenendo sempre inalterata la genuina coerenza, di quel lupo “libero e selvaggio”.
In questa strada lo vediamo alla guida della Mark Lanegan Band e anche con Duke Garwood che collaborò con lui in due album (Black Pudding e With Animals).
Ci lascia con un nuovo progetto artistico in embrione: i Black Phoebe, creato con la moglie Shelley Brien e alcuni membri della M.L. Band, ed il loro EP omonimo d’esordio (2020) in cui le sonorità gotiche si vestono d’elettronica. Questo avrebbe potuto essere l’inizio di un nuovo percorso, chissà se mai uscirà del materiale registrato che non ha ancora visto la luce.

Tentare di tenere traccia di ogni sua cover o contributo anche se per una sola canzone è un’impresa titanica, perché proprio quando pensi di avere una conoscenza esaustiva sull’artista salta sempre fuori qualche featuring di cui ignoravi l’esistenza. Seguendo le sue impronte nelle foreste musicali di casa nostra, un dovere di menzione va alla sua cover di Pelle degli Afterhours ed il featuring in Devil Whistle Don’t Sing dei napoletani The Devils nell’album Beast Must Regret Nothing (2021). Ebbene sì, questo era Mark.

Le parole che ci ha lasciato non sono solo quelle delle sue canzoni, ma anche quelle che vivono nei suoi libri: a completare I’m the Wolf Lyrics & Writings nel 2019 esce Sleevenotes, un commentario accorato dei brani a cui è più legato. Sing Backwards and Weep. A Memoir (2020) è un’aperta confessione della sua vita in bilico e sgretolata da dipendenze sempre ad un passo dal baratro, ma che ha trovato nella musica una risposta ed una salvezza, e che in un certo modo celebra la luce che albeggia nuovamente sopra le macerie. A fargli da specchio sonoro poco dopo esce l’album Straight Songs of Sorrow.
Una scrittura a quattro mani lo vede al fianco di Wesley Eisold (aka Cold Cave) nella trilogia di poesie: Plague Poems, Year Zero – A World with No Flowers e Ghost Radio. I toni e le atmosfere graffiano il chiarore e la nebbia che lo cela ricordando a tratti la Waste Land di T.S. Elliot, la decadenza di Arthur Rimbaud e nella dolcezza alcuni sonetti di Shakespeare.
Con il suo trasferimento in Irlanda, un ritorno alle radici dei suoi avi, ci regala Leaving California (2021), una raccolta di poesie, riflessioni, dediche ad amici; una nuova vita che segna un ulteriore riscatto dal passato.
Devilin a Coma, ultimo atto, è una sorta di malinconico e pungente diario intervallato da alcune poesie in cui racconta la sua terribile esperienza dopo aver contratto il Covid, che lo aveva tenuto in bilico fra la vita e la morte per settimane. Lui, che la  morte l’aveva guardata in faccia più volte, “l’avrebbe scampata anche questa volta” mi dicevo… Noi che lo abbiamo amato conosciamo bene i dettagli della storia, si era ripreso e stava lavorando a nuovi progetti ma:
“Black as the clouds covering the sun”(tratto da Slip Away- Above Deluxe Edition. Featuring Mark Lanegan).

Così come Mark dedicò a Layne Staley (quando era ancora in vita, brano che fu poi suonato al suo funerale) Last One in the World, io mi sento di dedicarla a lui. Il primo verso recita: “Goodbye my friend, I hate to see you go”. Mark non era un mio amico nel senso stretto della parola, ma ho consumato i suoi dischi, divorato i suoi scritti e ogni volta, di quelle quindici che sono stata ai suoi concerti, non è mai mancato un saluto o uno scambio di idee e in virtù di quell’irrazionale che viene toccato, non posso che dire: “Goodbye my friend, I hate to see you go/…Goodbye my friend, thank you for the dream/ The last one in the world”.

Ringrazio Alessandra De Amicis (Dea Illustra) per aver impreziosito l’articolo con i suoi disegni sonori, se li accosti all’orecchio puoi sentire Mark cantare.