R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Questo album d’esordio di Christina Galisatus, pianista e compositrice nata a San Francisco ma residente attualmente a Los Angeles, potrebbe essere teoricamente annoverato come uno tra i lavori migliori del 2023. L’avverbio ipotetico è di rigore, dato che l’anno è appena iniziato anche se conservo pochi dubbi sul livello qualitativo generale di questo Without Night. Con un substrato classico tra le mani e un interesse precoce per il jazz, diplomatasi alla californiana Standford University, la Galisatus pubblica un lavoro magari non perfetto – è pur sempre un esordio – ma talmente intrigante che il suo fascino è in grado di compensare di gran lunga qualsiasi eventuale lacuna rilevabile. Come racconta la stessa Autrice in un’intervista rilasciata a Shoutout L.A. nel luglio del 2021, uno dei problemi che si è trovata ad affrontare, per poter acquisire un proprio stile musicale originale, è stato quello di superare l’idea di emulare l’attitudine e lo slancio fisico dei suoi colleghi maschi. Ammettendo l’ipotesi, tutt’altro che peregrina, di una certa forma di patriarcato jazzistico – locuzione attribuita alla famosa batterista Terri Lyne Carrington – una musicista non dovrebbe cercare di suonare come un uomo ma dovrebbe invece proporre un universo musicale più personale, quantomeno al di fuori degli stilemi esecutivi utilizzati dai colleghi maschi e non perchè questi ultimi non siano validi ma per garantire una certa onestà di fondo, sia intenzionale che propositiva. Trovare la propria strada, quindi, è proprio quello che infine riesce alla Galisatus. Le sue composizioni, spesso accompagnate dal canto – ma in questo album non è lei la vocalist – si caratterizzano da un tocco pianistico molto morbido e da un jazz che scorre tra delicatezze dal sapore new-age e impressionismi classici.

Direi che questa musica ha un orientamento prevalentemente orizzontale, quindi molto attento alla melodia che ricorda, in alcuni passaggi, la cronaca pop di Norah Jones ma se vogliamo, meno propensa alle semplificazioni spesso adottate da quest’ultima. La voluttuosa intensità dei brani, edenici e fragili allo stesso tempo, ci porta ad un ascolto a cui ci si può arrendere senza condizioni. Tuttavia, pur tenendo presente la sottile trasparenza dei singoli brani, la musica mantiene una certa corposità grazie soprattutto alla formazione che accompagna Galisatus e che contempla la bellissima e seducente voce di Erin Bentlage, Michael Blasky al sax tenore, Steven Lugerner al clarinetto basso, Brandon Bae alla chitarra, Joshua Crombly al basso elettrico e contrabbasso ed infine Zev Shearn-Nance alla batteria. Le tracce editate sono sedici ma alcune tra queste hanno breve durata e vanno considerate più come intermezzi piuttosto che brani compiuti. Inoltre qualche brano sfuma in quello successivo, per cui l’ascolto nella sua totalità risulta più fluido e dinamico di quanto la lunghezza complessiva dell’incisione farebbe supporre.
I Always Look to the Sky è una brevissima introduzione – meno di un minuto – tuttavia sufficiente a farci capire l’ambizione e la direzione della Galisatus. Guardare in alto, verso il cielo, cercando quella bellezza immateriale ed apollinea che l’Autrice, anche per mezzo di una vocalist eccellente come Bentlage, cerca di trattenere sui tasti del piano. A Fragile State rivendica appunto la fragilità di alcuni stati emotivi e suggerisce – senza bisogno di parole – come sia meglio non lottare contro di essi ma piuttosto lasciarsi andare, adattandosi alla loro forma. Il brano inizia con un passaggio melodico di pianoforte molto classico, quasi ricordando Satie, appoggiandosi tra due accordi in minore – Si e Mi – sviluppandosi poi attraverso un sax soffiato con tutta la delicatezza del mondo ed una ritmica che inizialmente scivola sul brushing di Shearn-Nance. Dalla metà in poi compare anche qualche lampo lontano di chitarra ed il ritmo diventa più marcato ma non accelerato. Il successivo The Child è un brevissimo gioco a due tra voce e contrabbasso e rientra di diritto nel novero degli interludi. I Want to Know Her inizia anche questo dondolandosi per un breve accenno a due accordi di piano – Do minore e Sol maggiore – su cui si distende il canto quasi sussurrato, con un testo “rassicurante” sulla presenza di sentimenti veri in un mondo che può spaventare per la sua cruda aggressività. Il brano cresce via via, con l’aggiunta degli altri strumenti ed è molto ben costruito, fino a diventare una vera e propria pop rock song ma con degli interventi di piano e soprattutto di chitarra che ci ricordano che siamo pur sempre in un territorio di confine col jazz. Forward and Back s’introduce infatti con un sentire più contemporaneo e una costruzione più strutturata. La voce improvvisa qualche vocalizzo, a volte anche esasperando il proprio intervento. L’equilibrio sonoro tra gli strumenti è sempre ben regolato, anche se in definitiva il brano appare più forzato dei precedenti, alla lunga risultando meno convincente. Candlelight oscilla il suo alone nell’oscurità attraverso il sax gentile di Blasky. La voce si comporta alla stregua di uno strumento, con qualche sporadico intervento introduttivo, prima di affrontare un breve testo con il suo modo sospiroso e sensuale. Una bella progressione di accordi di piano ne costituisce la trama di sostegno. Il brano sfuma in quello successivo, Interlude I (There Can’t Be Light), assai interessante perché è quasi in piano solo, se escludiamo qualche strofinio d’archetto sul contrabbasso. Il pezzo sembra un po’ l’altra faccia del precedente, suggerendo che esista un luogo dove la luce non può arrivare. La sensibilità classica della Galisatus qui emerge tutta, allontanando altre influenze. S’instaura un dialogo continuo fatto di domande eseguite sulla parte destra della tastiera e di risposte manifestate sulla sinistra, verso le note più gravi. Segue Controller e si ritorna all’abbraccio con le atmosfere precedenti, una mescolanza d’istanze jazzate e melodismi pop condotta con grande gusto estetico. Un arpeggio ostinato di piano sembra introdurre un tema modale, compare la chitarra elettrica sovraincisa e frammentata in entrambi i canali stereo. Poi però questo andamento si alterna con una fase tonale. Il sax segue inizialmente l’arpeggio del piano ma quando l’intensità sonora aumenta si entra in un clima progressive ben suggerito dal lavoro di sustain di chitarra e dall’accompagnamento rock della batteria. Ottimo brano, con una vena energetica che offre cuore e fiato alla narrazione musicale.

Rest è uno dei pezzi più emotivi della raccolta, dedicato ad una zia dell’Autrice che le fu molto vicino nella sua educazione musicale e non solo. La tonalità maggiore d’impianto – Do# – viene resa più instabile da una quinta bemollizzata – aggiungendo un’ombra d’incertezza malinconica allo sviluppo del brano che procede anch’esso con una decisa impronta classica, mitigata però da certe risoluzioni più jazzistiche. Il crescendo verso cui tutto procede, a cui contribuisce il bell’incrociarsi tra il clarino basso e il sax, si arricchisce inoltre dei vocalizzi della Bentlage. What Breathes è un soliloquio dell’ottimo chitarrista Bae, mai invadente neppure per sbaglio, attento a centellinare le sue corde anche quando si trova, come qui, in solitudine, contando solo su qualche effetto elettronico di fondo. Anche questo brano diluisce senza soluzione di continuità con quello che immediatamente segue, cioè Lily Pads. Questa si rivela essere una canzone veramente carina con molte inflessioni folk-pop che al di là dell’angelizzazione operata dalla voce, s’avvicina a Norah Jones e per certi versi persino ad un’altra Jones, cioè Rickie Lee, la musa di Chicago del tempo che fu per Tom Waits e nel contempo validissima autrice. Debbo far notare come l’ingegnere del suono sia attentissimo all’equilibrio di tutti gli strumenti, nessuno sopravanza l’altro ed ognuno di questi è chiaramente avvertibile ed identificabile in ogni momento dell’album. Da rimarcare due ottimi, misuratissimi assoli di contrabbasso e sax prima del crescendo finale che trasfigura l’originale pop song, incrementandone gli attributi jazzati. Without Being Held si snoda attraverso una linea melodica ben costruita, alternandosi tra pieni e vuoti, nobilitata da un eccellente assolo di clarino basso. Interlude II (Together) è un altro intermezzo quasi completamente pianistico, più veemente dopo un inizio in profilo di dolcezza. Passaggi armonici veramente interessanti, costruzione armonica ottimale. Basterebbe questo brano per illustrare la capacità compositiva della Galisatus. Ma non è finita, il brano si prolunga nella tonalità di base di Your Heart Could Smile, melodicissimo gospel caratterizzato, oltre che dagli accordi di piano, dall’incrocio tra i fiati di Blasky e Lugerner. Un piccolo capolavoro armonico da infilare in pompa magna nella nostra playlist personale. Anche And Sing si continua almeno nel testo col titolo del brano precedente, dove appare la coppia contrabbasso e voce a gestire una breve melodia sotto forma di canzone. L’ultimo brano è una ripresa della traccia d’apertura, I Always Look to the Sky, condotta praticamente solo con il piano a ricordarci la natura della composizione.
Avevamo accennato, in apertura, alla constatazione che questo Without Night potrebbe diventare una delle migliori nuove uscite di quest’anno. L’unica pecca – bisogna pur trovarne qualcuna in un disco d’esordio… – è forse un eccesso di languore che a tratti affiora qua e là, una sorta di autocompiacimento che avrebbe potuto essere aggirato, puntando ad una maggior sintesi del contenuto musicale. Mi riferisco sopratattutto a qualche bizantinismo vocale, nonostante, l’ho detto e lo ribadisco, la presenza della Bentlage abbia il grande merito di offrire alle composizioni della Galisatus un deciso, elegiaco profilo personale.
Tracklist:
01. I Always Look to the Sky
02. A Fragile State
03. The Child
04. I Want to Know Her
05. Forward and Back
06. Candlelight
07. Interlude I
08. Controller
09. Rest
10. What Breathes
11. Lily Pads
12. Without Being Held
13. Interlude II
14. Your Heart Could Smile
15. And Sing
16. I Always Look to the Sky (Reprise)
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