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Joe Chambers

Joe Chambers – Dance Kobina (Blue Note Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Arrivato agli ottant’anni sembra che Joe Chambers, anche a giudicare dalla posa un po’ guascona con la quale appare in copertina di questo nuovo Dance Kobina, mantenga un atteggiamento sufficientemente spavaldo senza avere alcuna intenzione di recedere dai suoi progetti creativi. Da questo punto di vista Chambers è un musicista che pare sempre sospeso in uno stato perdurante di grazia e tutto ciò lo dimostra annunciandosi in un nuovo album ricco di ritmi ma leggero come una nuvola. Questo suo procedere, pragmatico nel non disperdersi in superflue evoluzioni strutturali e costantemente vitalistico nelle linee espressive, viene giustamente premiato da un lavoro formalmente perfetto anche se non compare, in assoluto, niente di particolarmente nuovo. Ma da un batterista come lui, uno di quelli che hanno fatto la storia del jazz e se vogliamo pure della Blue Note – la recensione del suo precedente lavoro Samba de Maracatu e ulteriori informazioni sulla sua identità artistica potete rintracciarle qui – non ci si aspetta uno spavaldo orizzontismo di frontiera ma piuttosto proprio un album come questo, generoso nella sostanza, con un’identità locativa centrata sul jazz ma non fossilizzata in territori risaputi. Così com’era accaduto per il suo lavoro precedente, il titolo di quest’album può trarre in inganno, dato che il termine congolese Kobina significa “ballare”. Chi si aspetta quindi un lavoro dance infarcito di percussioni esotiche resterà ovviamente deluso. Non che in questo disco manchino aspetti ritmici e percussivi a suggerire l’influenza di matrici africane o latine – del resto la tecnica di Chambers, in questo album, coaudiuvata o meno da altri percussionisti, è in grado di assorbire e rielaborare qualsiasi stimolo poliritmico – ma l’impronta definitiva che si avverte è quella di un jazz che pare bastare quasi a sé stesso, focalizzato ma non sclerotizzato nella tradizione e inoltre alieno da qualsiasi nomadismo etnico.

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Joe Chambers – Samba de Maracatu (Blue Note Records, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

In un’ipotetica collocazione tra i jazzisti più significativi, dagli anni ’60 ad oggi, temo che Joe Chambers non verrebbe adeguatamente considerato. Il suo problema, se così possiamo chiamarlo, è stato quello di lavorare accanto a dei grandissimi nomi di artisti che scelsero lui come batterista ma che nel contempo, ovviamente non in modo consapevole, ne oscurarono giocoforza la personalità. Parliamo di pezzi da novanta come Archie Shepp, Wayne Shorter, Freddie Hubbard, Chick Corea, Charles Mingus, Miles Davis e l’elenco potrebbe tranquillamente prolungarsi per un bel po’. Negli anni ‘60 Chambers ha collaborato come sideman in una ventina di sessioni per la Blue Note, mantenendosi sempre fedele, anche con eccessiva modestia, al suo ruolo di cooperatore e nonostante le frequenti richieste posticipò di gran lunga la data del suo debutto come leader per l’etichetta newyorkese che avvenne solo nel 1998. Non così esuberante come altri batteristi all’Art Blackey né tantomeno raffinato come lo fu Paul Motian, Chambers ha comunque partecipato al successo del post-bebop forse come pochi altri prima e dopo di lui. Autore e band leader di almeno una decina e più di album egli si prodiga in questo Samba de Maracatu sia come batterista che come vibrafonista, coadiuvato dal piano di Brad Merritt, dal basso di Steve Haines, e dalle voci di Stephanie Jordan e Mc Parrain.

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