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Strut Records

Bennie Maupin & Adam Rudolph – Symphonic Tone Poem for Brother Yusef (Strut Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Una celebrazione od un’evocazione? Questo Symphonic Tone Poem For Brother Yusef, è una vertigine in assenza di gravità, una levitazione a mezz’aria di due potenti sciamani come Bennie Maupin e Adam Rudolph che hanno dedicato questo album alla memoria di Yusef Latef. Un lungo peregrinare tra suoni prevalentemente modali – tranne che nell’ultimo brano – artificialmente frazionati in cinque movimenti ma per la verità costituenti, nell’insieme, quasi una suite, è il partecipato tributo di due musicisti che hanno incrociato il loro destino con quello di Lateef. In realtà questo non è l’unico omaggio al fiatista di Chattanooga che io conosca, perché nel 2019 il sassofonista inglese Nat Birchall fece uscire con il suo quartetto The Storyteller- A Musical Tribute to Yusef Lateef. D’altra parte se lo stesso Lateef fosse vissuto fino ad oggi avrebbe compiuto cento anni, ma ha fatto comunque in tempo ad arrivare ai novantatre nel 2013, dopo aver navigato per i mari più trafficati e storicamente importanti del jazz dal dopoguerra ad oggi. Lateef cominciò a suonare e a comporre professionalmente nell’orchestra di Dizzy Gillespie nel 1949 e nella seconda metà dei ’50 iniziò la carriera solista, facendosi mentore di tutto quel sentore d’Oriente e più marcatamente afro-tradizionale che avrebbe imperversato di lì a poco e che coinvolse più o meno direttamente anche altri grandi musicisti come John Coltrane e Don Cherry. Fu poi tra i primi, tra i ’70 e i gli ’80, ad intuire ciò che lui chiamava “autofisiofisicità” della musica, in poche parole il ruolo dei suoni nella cura del benessere mentale e fisico, attitudine che poi s’inserirà, nel giro di qualche anno, nel filone modaiolo conosciuto come “new age”. È fondamentalmente il percussionista Adam Rudolph che ha avuto con Lateef i rapporti più intensi, avendo suonato con lui per circa vent’anni, in almeno quindici album pubblicati insieme. D’altra parte il sassofonista, clarinettista e flautista Maupin, oltre ad aver assorbito l’influenza di Lateef, ha alle spalle un curriculum importante. Partecipò alla pubblicazione di quattro dischi con Miles Davis – tra cui il mitico Bitches Brew – e altri album con Hernie Hancock e Mc Coy Tyner, limitandoci a citare solo i musicisti più conosciuti.

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Flora Purim – If You Will (Strut Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Dubito esista un’altra musica che come quella moderna brasiliana abbia influenzato così platealmente il jazz statunitense. Del resto la cultura sudamericana, a sua volta, ha colto nel jazz un’interessante possibilità di arricchimento evitando di arroccarsi su posizioni  stereotipate. Fin dai tempi di Jazz Samba del 1962, firmato da Stan Getz e Charlie Bird e poi con il riferimento più famoso Getz/Gilberto pubblicato due anni dopo, i ritmi iconici del samba e della bossa-nova hanno aperto innumerevoli nuove strade espressive nel jazz attraverso i nomi di Joao Gilberto, Gilberto Gil, Jobim, De Morales, Barque de Hollanda, diventati via via sempre più familiari al grande pubblico nordamericano ed europeo. Ma tra tutti questi c’è una figura leggendaria che ha compartecipato attivamente sia alla musica del succitato Getz che ad altre stelle del jazz USA, come ad esempio Gil Evans, Chick Corea, Dizzie Gillespie, George Duke fino ad affacciarsi al mondo del rock con le collaborazioni ai dischi dei Santana – Welcome (1973) e Borboletta (1974) – e con alcuni membri dei Grateful Dead – Rhytm Devils, The Apocalipse Now Sessions (1980). Si sta parlando di Flora Purim, una cantante che ha saputo accompagnare l’originale ardore ritmico-melodico popolare con i suoni più “aristocratici” dei colleghi statunitensi, sapendo fondere le proprie inclinazioni naturali insieme alle esigenze vocali più sincopate del jazz. La Purim, che torna con un disco da titolare dopo quindici anni di assenza, ha un cantato estremamente duttile, che quasi non dimostra l’avanzare degli anni. La sua voce è capace di adattarsi ad ogni occasione, caratterizzata da un’intonazione a dir poco perfetta che sappiamo assolutamente necessaria per seguire i continui cambi di tonalità e gli ampi salti intervallari così come accade frequentemente, appunto, nel jazz. Questo If You Will celebra gli ottant’anni di questa cantante di Rio de Janeiro che ha pensato di raccogliere intorno a sé, oltre all’altrettanto famoso marito batterista Airto Moreira, anche le altre percussioni – che nella musica d’influenza brasiliana non sono mai troppe – di Celso Alberti e la chitarra di Josè Neto. Compare inoltre la figlia Diana a dar manforte alla voce ma le note stampa, purtroppo, non specificano i nomi degli ulteriori collaboratori a questo album.

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Nubiyan Twist – Freedom Fables (Strut Records, 2021)

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Recensione di Claudia Losini

L’Inghilterra, patria della pioggia, del punk e del brit pop. E di Gilles Peterson, producer e broadcaster che ha contribuito a promuovere il grande successo della world music dal 2016 in avanti. Non c’è da stupirsi quindi se i Nubiyan Twist provengono proprio da Londra. Attivi dal 2009, sono un collettivo che spazia dal jazz al soul, dalla ritmica brasiliana fino all’elettronica più inglese.
Freedom Fables, terzo album e primo senza Nubiyan, co fondatrice del collettivo, condensa alla perfezione le diverse fonti di ispirazione di ogni componente, dal jazz all’afrobeat, dal dub all’elettronica, fino a diventare una lunga jam session dove si inseriscono anche collaborazioni con i più importanti nomi della scena inglese, tra cui Pat Thomas, Cherise (premiata come Jazz FM Vocalist of the Year nel 2019), il rapper sassofonista vincitore di un Grammy Soweto Kinch, e l’ormai componente fisso K.O.G., cantante e rapper.

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Sun Ra Arkestra – Swirling (Strut Records, 2020)

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Recensione di Mario Grella

Luci stellari, pianeti, satelliti, vortici, mondi galattici e magiche alchimie cosmiche. Inutile, far finta di nulla, è di tutto ciò che la musica di Sun Ra si nutre. Sembra che senza la sua “filosofia cosmica”, non si possa nemmeno fare musica. Eppure la sua musica ha una esistenza “ontologica” che è difficile non rilevare, anche sganciata da tutte le sue astruse ed originalissime teorie. Però a lui piaceva così e deve piacere così anche a noi. È una delizia sopraffina ascoltare questo magnifico Swirling, nuovo scintillante lavoro della Sun Ra Arkestra, registrato al Rittenhouse Soundworks di Philadelphia, che sotto la direzione del maestro Marshall Allen, porta avanti l’eredità spiritual-musicale del grande Sun Ra; e lo facciamo magari cominciando dal pezzo che da il titolo all’album.

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Idris Ackamoor & The Pyramids – Shaman! (Strut Records, 2020)

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Recensione di Mario Grella

Jazz e sciamani sono sempre andati d’amore e d’accordo e non costringetemi a fare lunghi e noiosi esempi. Del resto l’anima del jazz, nera era e nera resta, anche quando suonano dei bianchi. L’ennesima corroborazione della teoria, è in questo bellissimo disco, di Idris Ackamoor & The Pyramids, in uscita il 7 agosto, che per fugare ogni dubbio si intitola Shaman!, se vogliamo un’invocazione più che un titolo didascalico. Un disco diviso in quattro atti, una sorta di dichiarazione d’intenti su quattro grandi temi come amore e perdita, mortalità, l’aldilà, famiglia e salvezza. E già questa struttura, apparentemente non necessaria per giustificare un album di per sé di alta qualità, dimostra piuttosto bene l’importanza “rituale” della musica, in rapporto agli accadimenti della nostra vita spirituale.

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