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Alex Orciari

Simone Graziano – Embracing the Future (Auand Records, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Perché “preparare” il suono, cioè modificare anche radicalmente nella timbrica, l’espressione naturale di un pianoforte o di un altro strumento? La domanda è retorica. Ogni musicista che meriti questo appellativo è da sempre alla ricerca di un proprio, personale suono. E’ stato così nella musica classica – le improvvisazioni estreme sulle corde e sulle risonanze lignee del violino di Paganini, ad esempio, o le prime preparazioni fatte da Erik Satie sul piano in Le piege de meduse (1913), probabilmente influenzate dagli esperimenti contemporanei con gli “intonarumori” del compositore futurista Luigi Russolo. Si è arrivati però alle vere e proprie manipolazioni meccaniche degli strumenti dopo un lungo periodo di ricerca attraverso un allargamento dell’espressività del linguaggio musicale. Dilatare le possibilità comunicative del pianoforte, ad esempio, cercando tonalità inusuali, come in Debussy, Srawinsky, Prokofiev, Scriabin. Oppure modificare le leggi dell’armonia come nella dodecafonia di Schoenberg. Quando poi si diffonde nel mondo la musica nero-americana, gli autori classico-contemporanei comprendono la necessità di un rinnovamento profondo che non si limiti solo alla struttura musicale in sé ma che riguardi l’uso di nuovi strumenti reso possibile dalle innovazioni tecnologico-elettroniche – oscillatori, synt, manipolazione sui nastri magnetici, ecc. Il pianoforte preparato di John Cage, quindi, col suo Bacchanale del 1940 è solo una parte del percorso di ricerca iniziato  lungo tutto il ’900. Alla luce di queste considerazioni s’inserisce l’ultimo lavoro di Simone Graziano, questo Embracing the future che se non sbaglio è il suo settimo disco da titolare.

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Sophia Tomelleri 4tet – These Things You Left Me (Emme Record Label, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non mi vengono in mente molti nomi di sassofoniste in ambito jazzistico, almeno per quel che riguarda l’Italia. A parte la grande Carla Marciano, tra i più grandi interpreti coltraniani che abbia mai ascoltato, la scoperta di questa giovane musicista milanese, non ancora trentenne, mi ha decisamente incuriosito. Generalmente le musiciste jazz sono più impegnate nel canto o in strumenti come il pianoforte e, ultimamente, anche nel contrabbasso – penso, ad esempio, a Federica Michisanti e ad Antonella Mazza. A prendere possesso di questo feticcio tipicamente maschile, cioè il sax, è Sophia Tomelleri, nipote di Paolo Tomelleri, affermato saxofonista jazz ma che fu molto attivo anche nel campo della musica leggera, soprattutto nell’area milanese. Sophia ha iniziato dal sax contralto e dalla musica classica, spostando via via i suoi interessi al jazz e al sax tenore, attraverso un percorso di crescita che, dopo il diploma di Conservatorio, ha visto perfezionare la sua formazione prima a Monaco di Baviera e poi a Parigi, ponendo infine le proprie basi a Milano. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che ci troviamo di fronte ad una sassofonista tradizionale ma non troppo, avendo radici nell’hard bebop più classico ma che non disdegna certe fioriture sonore più contemporanee, rimanendo però distante da increspature atonali e forzature free. Quello che colpisce è la voce del suo sax, molto morbida e personale. Una timbrica “mellow”, a tratti decisamente scura, che da un lato accende in parte il ricordo di Johnny Hodges e talora si avvale dell’impronta di gente come Gene Ammons o Sonny Stitt.

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