Che suono ha l’ironia? Che note fa il sarcasmo? Quanto puoi distorcere l’ingenuità e raddrizzare lo scetticismo? Ma soprattutto, a cosa dovrebbe mai servire tutta questa insensata chiacchiera? Una serie di domande così pomposamente retoriche è forse uno dei modi più banali e allo stesso tempo efficaci per introdurre la recente uscita di Foreground Music, ultimo album dell’artista statunitense Ron Gallo per l’etichetta Kill Rock Stars, pubblicato agli inizi di marzo. Diventato uno dei punti di riferimento della scena indie nordamericana fin dal 2017 con l’uscita di Heavy Meta, Ron Gallo ha inaugurato una carriera brillante che lo ha portato a esibirsi su palchi celebri come il Coachella e a far scoprire la sua musica in tutto il mondo, inerpicandosi in esplorazioni musicali a partire da una base di immortale garage rock che, a volte celandosi per tornare più arrogante di prima, diventa un’attitudine prima che un marchio di stile.
L’attenzione costante alla melodia e alla delicatezza dei suoni che riguarda Food, l’ultimo lavoro del trombettista Paolo Fresu realizzato in coppia con il pianista Omar Sosa, cancella ogni dubbio sulla bontà di questa registrazione. Perché il sospetto di un eventuale taglio documentaristico a carico di quest’opera, dato l’argomento trattato, avrebbe rischiato di distorcere il delizioso senso musicale che ruota intorno all’album in questione. Nessun atteggiamento didascalico, invece. Quando si parla di cibo inevitabilmente si allude al suo consumo, al piacere – o al dispiacere – ad esso legato e infine agli squilibri che ne riguardano l’approvvigionamento, da sempre condizionato dalla voracità accaparratrice delle politiche aggressive liberiste, condizionando la drammatica disparità tra chi consuma troppo e chi poco o niente. Un tema difficile, quindi, vissuto tra occidente e terzo mondo in modo differente, spesso condotto tra deliranti ipotesi nutrizioniste da un lato e appelli mediati da un mero bisogno di sopravvivenza dall’altro. Il motivo principe di questo album, comunque, non è evidentemente solo politico. Tra inserti sonori di posate, tintinnii di bicchieri e piatti che si avvertono qua e là, è sempre la musica il tramite fondamentale tra Food e l’ascoltatore. Con il desiderio, magari un po’ ingenuo ma onesto, che essa riesca ad unire le persone così come ci riesce la buona cucina. Al di là di questioni d’importanza vitale, tutte evidentemente legate a problemi di natura intrinsecamente politica e ambientale – mai così preponderanti come di questi tempi – questo album è comunque un solidale messaggio d’amore, di Alma e di Eros che mantiene quindi il senso della continuità, almeno intenzionale coi lavori precedenti realizzati da questa coppia di Autori. Il fattivo sodalizio tra Fresu e Sosa viaggia infatti con suoni di velluto, percussioni afro e medio-orientali, suggestioni simbiotiche e culturalmente universali.
Bebo Ferra è un artista sardo d’origine e milanese di adozione. Da molti anni è riconosciuto come uno dei più creativi chitarristi nel panorama jazzistico nazionale ed europeo. Diverse sono le formazioni a suo nome, moltissimi i lavori discografici, sia come leader che come session-man e sideman. Bebo da anni si è affermato come uno dei più importanti chitarristi di jazz italiano ponendolo alla grande attenzione per la sua lunga militanza nel Devil Quartet di Paolo Fresu. Un artista a tutto tondo, che sa perfettamente rappresentare tutte le sfumature della propria espressività con misura, raffinatezza, bravura, competenza ed eleganza. Nato a Cagliari il 29 aprile 1962, intraprende lo studio della chitarra all’età di nove anni, indirizzando gran parte della propria ricerca musicale nell’ambito jazzistico. Nel 1979 inizia la sua attività professionale con il gruppo “Il Quintetto” guidato da suo fratello Massimo, anch’egli chitarrista già noto sulla scena isolana. Nel 1983 partecipa al festival Transmetro a Roma con un orchestra diretta da Bruno Tommaso che includeva molti giovani talenti del jazz italiano (Paolo Fresu, Mario Raja, Francesco Sotgiu). Dal 1984 al 1986 collabora in Sardegna con diversi musicisti come Tiziana Ghiglioni, Furio di Castri, Pietro Tonolo, Paolo Damiani, Paolo Fresu, Rita Marcotulli. Nel 1987 si trasferisce a Milano, dove collabora per due anni in un’orchestra per la RAI di Milano. Entra a far parte del gruppo di Gianni Coscia e in seguito alla seconda edizione del famoso gruppo AREA diretto da Giulio Capiozzo. Nel 1991 vince il concorso nazionale “Jazz Contest” con il gruppo Sardinia Quartet. Nel 1992 e 1993 lavora di nuovo con diverse orchestre per la RAI e la Fininvest (Nuovo Cantagiro ’91, ’92, Festival Italiano ’93, ecc.) e sempre nel ’93 nasce il suo primo disco come leader con la collaborazione di Franco D’Andrea.
Compiendo un percorso di progressivo alleggerimento, il ventisettenne chitarrista pugliese Enrico Le Noci s’allontana dalla dimensione corposa del quintetto che l’aveva visto esordiente nel 2019 con Social Music, il riuscitissimo album d’esordio per A.Ma Recods. Come se avesse avvertito la necessità di restringere il campo d’indagine all’essenziale, Le Noci si è concentrato sulla forma triadica, rinunciando non solo alla componente fiatistica ma anche ad un vero e proprio bassista, affidandosi in sua vece alla sapienza tecnica del tastierista, l’olandese Matthijs Geerts e al supporto ritmico di Egidio Gentile. Non sceglie certo una via facile, il giovane artista di Martina Franca, lavorando in sottrazione sulle ultime composizioni, sue e altrui, di questo nuovo album Electric Nuts. Infatti, applicandosi a un numero più ridotto di strumenti, si è obbligati a cercare vie sintetiche il più efficaci possibili ed occorre quindi che i musicisti si dimostrino costantemente ancor più all’altezza delle loro pianificazioni. Le Noci è disposto a correre il rischio e a evidenziare, chitarra alla mano, la sua completa capacità gestionale di questa nuova situazione. Come giustamente riportano le note stampa che accompagnano questo album, la scelta di una struttura portante come tastiera-batteria-chitarra non è certo cosa nuova nella storia del jazz. Ci aveva provato il chitarrista Grant Green, ad esempio in Blues for Lou inciso nel ’63 e pubblicato postumo parecchi anni dopo, con John Patton all’organo, oppure ancora in Talkin’ About del ’64 con Larry Young alla tastiera. Anche il grande organista Jimmy Smith ebbe Quentin Warren alla chitarra con un trio in Jimmy Smith Plays Fats Waller del ’62 e anche in Straight Life (1961), sempre associato a Warren. Proprio da queste combinazioni testate negli anni ’60 si svilupperà il termine groove a indicare il ripetersi di una serie ritmica di battute a carattere ciclico. Insomma un ritmo coinvolgente, trascinante e sempre più fisico. Citerei, comunque, tra le influenze di Le Noci, non solo il grande libro del Blues – cercate il suono della sua chitarra con il sassofonista Elias Lapia nel suo recente Though Future – ma anche la varietà di umori legati all’acid jazz e a qualche suggestione che viene sia da George Benson che anche da Pat Metheny, soprattutto nell’utilizzo equilibrato delle note più sostenute.
Andrea Poggio, insieme a Lucio Corsi, era il disco che più attendevo quest’anno. Intelligente e ricercata, la musica di Andrea Poggio, unita a una scrittura vivace ed evocativa, è uno dei migliori esempi di cantautorato italiano. Il futuro è il suo terzo disco, uscito a inizio maggio per La Tempesta. Iniziamo a spezzare lo stereotipo del cantautore con chitarra che canta di politica o di amore, come la grande tradizione italiana ci insegna. Andrea Poggio guarda a Paolo Conte e a Battiato, ma lo fa a modo suo, circodandosi, come sempre, dei migliori musicisti del momento: insieme ad alcuni membri degli Esecutori di Metallo su Carta (che lo avevano già accompagnato in tour), troviamo nel disco Adele Altro, Francesco Bianconi, Federico Altamura, Luca Galizia (Generic Animal) e Caterina Sforza, oltre alla partecipazione e produzione di Ali Chant, che tra gli altri ha collaborato con PJ Harvey, Perfume Genius e Yard Act (questi ultimi due, tra le migliori proposte contemporanee).
“Il Ciclo di Bethe, banda novecentesca di musica amabilmente rumorosa”. È così che si autodefinisce il neonato collettivo, in gran parte, romano nel presentarci il suo lavoro d’esordio: Novecento. Il nome del progetto artistico trae ispirazione dal fisico e astronomo tedesco Hans Albrecht Bethe e dalla sua teoria nota come Il Ciclo di Bethe (o ciclo del carbonio, azoto, ossigeno) che, come cita la Treccani, fa riferimento “all’origine dell’energia stellare basata su un ciclo di reazioni termonucleari che avvengono all’interno delle stelle.” Con questo nome i nostri “Cavalieri del cielo” ci svelano il loro grido, il loro lamento e le loro perplessità in Novecento. Novecento come il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, periodo colmo di svolte, innovazioni ma anche di distruzioni, perdite non solo materiali ma soprattutto interiori, a livello di consapevolezza del singolo e di coscienza collettiva. Uno sguardo al passato con il senno di oggi che non lascia spazio a sentimentalismi poetici, ma si propone di risvegliare negli animi dormienti lo spirito critico e costruttivo. Una rivoluzione creativa come quella che avviene in cielo con il ciclo carbonio, azoto, ossigeno. Dovremo pur imparare dagli errori del passato?
Mi piacerebbe poter convincere anche i più scettici che gli Ethnic Heritage Ensemble di Kahil El’Zabar sono qualcosa di più di un gruppo che sembra dilettarsi in una sorta di bricolage esoterico. L’idea di essere guaritori dell’anima, sia che provenga dalla permeabile città di Chicago – come in questo caso – che direttamente dall’Africa come accade per Nduduzo Makhathini – vedi recensioni quie qui – è un concetto affascinante di per sé, anche se mi rendo perfettamente conto che possa innescare inevitabili scetticismi. L’aspetto primitivo di questa musica, contenuta in Spirit Gatherer • Tribute to Don Cherry, la sua forma così insolita, piena di incavi misteriosi, profilata con elementi di tribalismo, alle volte sgraziata ed oscura, trova tuttavia la sua ragion d’essere nel radicarsi in profondità nell’humus del jazz. Naturalmente riconoscendo a questo termine la sua essenza primordiale nera, prima di diventare sinonimo più universalizzato di una certa parte della musica contemporanea. Non ci sono frivolezze tra queste note né tanto meno una ricerca estetica conformista. Con un potere di seduzione commerciale vicino allo zero, un minutaggio complessivo di poco sotto il limite delle possibilità contenitive di un Cd, quello che luccica nel cavernoso spleen di El’Zabar, è una potenza arcana, capace di minacciose esuberanze e di occulti sortilegi, affascinanti come la danza di una fiamma notturna. Il titolo dell’album fa riferimento ad una sorta di connessione tra spiriti ancestrali in grado di trasmettere influssi benefici ad altre entità, anch’esse spirituali, che siano in grado di raccoglierli. Le architravi ritmiche, lente ed ipnotiche, disvelano non solo l’originale vena compositiva dell’Autore ma anche la volontà di rivisitare i fiori selvatici di Don Cherry – a cui questo album è dedicato – di Ornette Coleman, di Thelonious Monk, di John Coltrane e Pharoah Sanders, non per caso degli autentici numi tutelari del jazz più autenticamente black.
Il chitarrista peruviano David Beltran Soto Chero, il giovane contrabbassista Alberto Zuanon e la cantante Laura Vigilante condividono la passione per la musica latino-americana partendo dalle tradizioni del passato fino al presente. Nasce così il trio Remedio: il fisarmonicista Sergio Marchesini, che per questa occasione era ospite speciale, si è appassionato al progetto, entrando poi stabilmente nel gruppo. Il disco, promosso da Caligola Records, è la registrazione di uno spettacolo live che il quartetto ha tenuto al Piccolo Teatro Tom Benetollo di Padova il 22 gennaio 2022: un’attenta selezione di dodici brani che percorrono le vie della musica sudamericana fra tradizione e contemporaneità. Il gruppo padroneggia in maniera magistrale le variazioni di accenti restituendo pienamente il clima di allegra malinconia che solo la musica latino-americana riesce a mescolare. La voce di Laura Vigilante si destreggia con le sonorità proposte dal terzetto di musicisti in un mix veramente azzeccato, anche grazie all’ottima registrazione.
È fresco d’uscita – fuori il 19 maggio 2023 per l’etichetta RE_verb – l’EP Lowland, nuovo lavoro della band Zugabe. Appena iniziato l’ascolto, prima di documentarmi sui musicisti che compongono questo progetto – e sui generi musicali che abbracciano, sui quali c’è da scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora – ho subito pensato che nessun titolo sarebbe stato più azzeccato: la pianura, una vasta distesa che ti fa intravedere solo lontano l’orizzonte, una calma e immensa landa desolata e infinita, questo è ciò che mi hanno evocato i primi secondi di ascolto. Gli Zugabe sono quattro ragazzi italiani, veronesi per la precisione: Alberto Brignoli (alla chitarra, alla voce e ai rumori), Alberto Gaio (alla chitarra solista), Antongiulio Ceruti (alla batteria, alla voce e al pad), Michele Pedrollo (al basso); il gruppo esiste dal 2013, e questi 10 anni di attività, evoluzione e presa di coscienza della direzione da seguire si sentono tutti nel loro sound.