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Lonnie Holley – Oh Me Oh My (Jagjaguwar, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Andrea Notarangelo

La bellezza della musica sta nel fatto che quando ritieni di aver scoperto tutto e quando pensi che difficilmente proverai una particolare emozione, ecco spuntare qualcosa di nuovo ad attenderti dietro l’angolo. A volte hai a che fare con una bella sorpresa, altre meno, ma non è questo il punto. La musica è quel tipo di arte che ti fa immaginare colori e sfumature là dove ci sono solo note e che ti mostra paesaggi paradisiaci o sobborghi disagiati di una metropoli ad ogni cambio di melodia. La musica è il viaggio più lungo che potrai mai fare nella tua vita senza esserti mosso di casa o dalla scrivania del tuo ufficio. Ed è in questo modo che ho abbracciato la proposta di Lonnie Holley, un artista anomalo e completamente fuori dagli schemi. Non voglio fare l’esperto dai gusti ricercati, mi piacerebbe raccontarvi che circa dieci anni fa ascoltai il suo esordio e ne rimasi folgorato, ma in verità, fino ad oggi non ero a conoscenza di questo portento e per questo motivo mi limito solo a introdurvi nel suo mondo. Desidero infatti raccontarvi la storia di un settantatreenne che solo nel 2012 è arrivato al traguardo del suo primo disco e che oggi presenta il settimo lavoro in studio dopo aver passato una vita come artista concettuale dedito alla creazione di opere di assemblaggio realizzate con materiali di recupero. Mister Holley ha visto di tutto, da bambino quando è stato venduto per una bottiglia di whisky, per passare a lavorare come scavatore di tombe fino al dedicarsi alla raccolta del cotone nel suo Alabama. Tutta l’esperienza l’ha concentrata nei suoi dischi e azzarderei dire che questo nuovo Oh Me, Oh My corrisponde alla summa e all’essenza del suo messaggio.

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Joe Locke – Makram (Circle 9, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

La musica di Joe Locke, in questa sua ultima fatica Makram, è costituita da una serie di brani euforizzanti che fin dal primo ascolto dimostrano la loro immediatezza e spontaneità, come fossero stati realizzati in un unico flusso continuo d’ispirazione. Ovviamente tutto non è così semplice come appare. Dietro a ciò che sembra facile, soprattutto nel jazz, ci sono ore di studio, prove su prove, ripensamenti e riscritture delle parti, insomma una dura gavetta percorsa spesso a costo di notevoli sacrifici personali. In effetti, al di là del subitaneo piacere che si prova ascoltando Makram – il titolo dell’album è un omaggio al contrabbassista libanese Makram Aboul Hosn, un amico di Locke e suo occasionale collaboratoresi comprende come questo lavoro sia stato, in fase progettuale, scomposto in profondità e quindi ricostruito nei suoi singoli tasselli per giungere a un’opera quadrata, materica, quasi fisica per la continua scossa nervosa e muscolare che trasmette a chi l’ascolta. L’autore principale di tutto questo è il sessantaquattrenne vibrafonista Joe Locke nato in California, con circa una trentina di uscite discografiche a partire dalla fine degli anni ’80 con il suo esordio Scenario (1987) pubblicato su vinile e credo mai stampato in formato digitale. In Makram si assiste a un bel ribollire di suoni che non illanguidiscono mai troppo, nemmeno durante l’esecuzione delle ballad. Vero è che in Locke arde il sacro fuoco del jazz, così come questo è stato tradizionalmente concepito, cioè ritmo, improvvisazione e gusto per l’impervietà di alcuni passaggi al limite della tonalità. Vitalità e assenza di pulsioni eccessivamente introverse fanno parte di queste sonorità smaliziate, con gli arrangiamenti fluorescenti di una ritmica tutta controbalzi ma sempre alfine allineata senza troppe stravaganze alla finalizzazione del progetto vibrafonistico di Locke.

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Anatomia di un suicidio @ Piccolo Teatro Grassi, Milano

T E A T R O


Articolo di Mario Grella

Il nuovo talento della drammaturgia britannica si chiama Alice Birch, ha trentacinque anni ed è l’autrice della bellissima Anatomia di un suicidio, (tradotto in italiano da Margherita Mauro per il Saggiatore), pièce teatrale di tre ore filate in scena al Piccolo-Teatro Grassi di Milano, fino al 19 marzo, una co-produzione del Piccolo Teatro e Casadargilla per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni. Nonna, mamma e nipote legate dal filo di un male di vivere profondo e le loro vicende si dipanano sincronicamente sulla scena pur se vissute in tempi diversi: gli anni Settanta per la nonna, il Duemila per la figlia e il Duemilatrentacinque per la nipote. Una trovata drammaturgicamente geniale e una narrazione scarna, fatta di dialoghi o monologhi che tengono le protagoniste sospese sull’abisso, ma senza mai lasciarle precipitare.

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Rumba de Bodas – Yen Ko (Rubik Media, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Elena Colombo

È possibile viaggiare ascoltando musica? Sì, secondo i Rumba de Bodas. Il nuovo disco della band bolognese, pubblicato con l’etichetta italo-tedesca Rubik Media, si intitola infatti Yen Ko, che in lingua Tai ghanese significa letteralmente “let’s go”: quale migliore invito per un viaggio musicale in giro per il mondo?
Prima di iniziare a preparare i bagagli, però, pianifichiamo il viaggio e conosciamo i nostri accompagnatori. I Rumba de Bodas sono una formazione jazz-afrobeat, attiva nel panorama della musica indipendente da ormai quindici anni, nei quali sono passati da otto a sette membri. Il loro talento gli ha permesso nel tempo di solcare diverse platee internazionali, tra le quali spicca la partecipazione alla Seoul Music Week.
Le sonorità del nuovo disco sono sfaccettate, multietniche e soprattutto coinvolgenti: ogni brano invita l’ascoltatore a lasciarsi andare alla vitalità della musica e a improvvisarsi ballerino. I fiati afro-funk, le percussioni e gli accompagnamenti elettronici si declinano diversamente nel disco, per formare un sound contaminato che punta a sorprendere chi ascolta. Abbiamo però anche due costanti che ritornano sempre, pur declinate in modo diverso: la voce di Rachel Doe, profonda e vibrante, e il ritmo incalzante che farà scatenare anche l’ascoltatore più timido.


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Mirco Ballabene – 7 composizioni Improvvisate Per Contrabbasso Solo (Niafunken, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Apparentemente, ma solo apparentemente, accingendosi ad ascoltare un concerto o un nuovo lavoro discografico di contrabbasso solo, ci si potrebbe spaventare. Naturalmente poi l’ascolto, se di ascolto vero si tratta, non solo risulterà gradevolissimo, ma potrebbe addirittura risultare indispensabile. Lo è perché l’ascolto del suono di uno strumento “in purezza” è, almeno per chi scrive, un’operazione mentale assolutamente necessaria per restituire equilibrio; una specie di pausa di riflessione, una volontaria clausura in un “hortus conclusus” che permette riflessione, introspezione, ma che soprattutto rieduca all’ascolto, quello vero. L’eccentricità e l’esclusività dello strumento riconduce l’attenzione sulla costituzione del suono nella sua origine e sulla intenzionalità della scrittura musicale.  Tutto questo potrebbe risultare impossibile ascoltando una band, un ensemble, ma persino un’orchestra. Con queste predisposizioni d’animo e di mente mi sono accostato alle 7 composizioni improvvisate per contrabbasso solo di Mirco Ballabene, CD uscito nell’appena trascorso mese di febbraio per la brillante etichetta “Niafunken”.

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Kendrick Scott – Corridors (Blue Note Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Le avventurose progettualità delle formazioni triangolari costituite da contrabbasso, batteria e fiati, senza strumenti classicamente armonici come il piano e la chitarra, hanno sempre attratto la mia attenzione per due motivi fondamentali. Prima di tutto per il peso della buona riuscita dell’esperienza che gravita molto, com’è ovvio aspettarsi, sulle spalle dello strumento solista. Si va senza rete e il musicista che si trova al centro dell’attenzione deve essere super-bravo perché per ogni eventuale momento d’indecisione e di sbandamento si rischia la caduta. In seconda analisi sono attratto dai concetti sintetici che in questi casi specifici sottolineano una forma mai banale di intelligenza musicale, cioè la capacità di melodizzare e armonizzare con pochissime note, appoggiando il solista alle sole linee di contrabbasso. In questa circostanza l’ultima pubblicazione del batterista é Kendrick Scott, Corridors, presenta un’anomalia, se così possiamo chiamarla, perché le composizioni non sono a carico dello strumento a fiato ma sono frutto della creatività dello stesso batterista. Non è la prima volta, anzi, che assistiamo ad un’intensa attività compositiva dei percussionisti. Ad esempio, su Off Topic ci siamo recentemente occupati di Sebastian Rochford – trovate una sua recensione quied anche del nostro connazionale Marco Frattini – potete leggere qualcosa d’altro qui. In questo Corridors il sax suonato da Walter Smith III, quarantatreenne membro dell’Ambrose Akinmusire Quintet e dell’Eric Harland Voyager, attrae oviamente la maggior parte dell’attenzione ma non potrebbe farlo più di tanto se non avesse alle spalle il contrabbasso di Reuben Rogers – curriculum denso di compartecipazioni con gente del calibro di Charles Lloyd, Aaron Goldberg, Dianne Reeves, Joshua Redman, Phil Woods, Thomasz Stanko e qui mi fermo per respirare – e soprattutto la batteria, ovviamente, del titolare dell’album, Kendrick Scott. Quest’ultimo è nato a Houston, Texas, quarantatre anni fa, ed oltre al nutrito numero di collaborazioni che fin qui ha realizzato e agli importanti mentori che ha avuto come Joe Sample, Terence Blanchard e Charles Lloyd tra gli altri, ha alle spalle quattro dischi con il suo gruppo Oracle – due con l’etichetta Blue Note più questa terza nuova pubblicazione con una band diversa ed un lavoro uscito esclusivamente a suo nome pubblicato dalla Criss Cross nel 2009.

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Gaube – Kulbars (Bonimba/Santeria/Audioglobe, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Sabrina Tolve

Esce oggi, 10 marzo 2023, Kulbars, disco d’esordio di Lorenzo Cantini, in arte Gaube, prodotto da Francesco Cerasi.
L’album assorbe fin dalla prima nota: i testi sono limpidi, toccanti e disillusi, con una visione dettagliata degli avvenimenti degli ultimi anni, che mostrano una reale comprensione delle dinamiche di potere che ci circondano.
Gaube si porta dietro tutta una certa tradizione cantautorale italiana, ma non c’è senso di duplicazione; c’è piuttosto una modalità visionaria e severa che abbraccia con delicata nostalgia gli anni ‘70, li fa propri, e li reinterpreta alla luce dei cambiamenti sociali, delle sue contraddizioni.

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Guinevere – Running In Circles (La tempesta Dischi, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Claudia Losini

Siamo così abituati a guardare oltreoceano, che spesso non vediamo cosa si nasconde in piena luce. Guinevere è il nome d’arte di Ginevra Battaglia, già artista prima di cominciare questo percorso musicale che l’ha portata a coprodurre il suo primo ep con Matteo Pavesi (che ha collaborato anche con Alice Phoebe Lou).
Running in circles, esordio pubblicato da La Tempesta, potrebbe essere tranquillamente un secondo/terzo disco, dalla maturità espressiva e sonora espressa. Un esordio che difficilmente si dimentica, e che ti fa chiedere ancora di più.

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Claudio Cojaniz – Black (Caligola Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Musicalmente sospeso tra chiarori e oscurità, il pianismo melodico ed elegante di Claudio Cojaniz riappare in questo suo ultimo lavoro, sinteticamente intitolato Black. L’impasto percettivo che arriva all’ascoltatore è una miscellanea di molti profumi, alcuni decisamente  latini, altri in cui emergono fragranze classiche di tradizione europea ed infine note aromatizzate di blues con punte di suggestioni afro-americane. In questi ultimi anni, dopo la summa esperienziale dei suoi numerosi coinvolgimenti professionali in campi diversi – composizioni per tv e cinema, lavori per piano solo, in trio, in quartetto, in big bands, partiture per organo chiesastico ecc…- lo stile pianistico di Cojaniz si è arricchito di note più malinconiche e riflessive, tanto da assumere a tratti la forma di un’intima colloquialità, arricchendosi ancor più di quella compostezza formale che ha sempre caratterizzato il suo modo di esprimersi musicalmente. Cojaniz, in questo suo Black, sembra non utilizzare formule armoniche all’avanguardia, eppure in alcuni brani, dal mio punto di vista i migliori, come ad esempio Ola de Fuerza, il suono si smagrisce creando interessanti legami molecolari tra le note, soluzioni e passaggi che si fanno apprezzare non solo per lo sviluppo melodico ma anche per la non scontata relazione tra i singoli elementi. Si resta sempre in un ambito tonale, profondamente poetico, all’interno di un ampio e trasparente calice armonico che dimostra l’intensa partecipazione emotiva dell’Autore – tutti i brani della selezione sono di sua composizione – senza che si trovi posto per lambiccamenti estetizzanti né asfittiche torsioni melodiche. Il linguaggio di cui Cojaniz si serve nel delineare i suoi quadri emozionali è chiaro e limpido ed anche nei momenti più riflessivi in cui la luce sembra attenuarsi, non s’inabissa in tortuosità dissonanti. Insomma, si percepisce, dietro e dentro la musica, l’intensa educazione sentimentale formatasi tra musica classica, Monk – uno dei suoi grandi ispiratori – e il blues che emerge anche in questo album in isole lussureggianti mescolato a ricordi latino-africani.

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