R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Abituati da tempo ai suoi “moduli” numerati e siglati al posto dei normali titoli di ogni brano, ci troviamo oggi di fronte alle stesse crittografie sfogliando le tracce dell’ultimo lavoro di Nik Bärtsch per piano solo. Il compositore svizzero aveva già editato un album di questo tipo nel 2002, quell’Hishiryo in cui accanto al piano s’intravedeva saltuariamente qualche elemento percussivo ad arrotondare il clima melodico – ritmico del suo strumento. In questa nuova produzione Entendre, Bärtsch utilizza solo il suo piano ed eventualmente qualche rumore aggiunto prodotto dal pianoforte stesso, colpendone le corde o la cassa armonica con un moto della mano. Alcuni moduli, come il 5 ed il 13, sono già stati pubblicati in precedenza su Hishiryo, in forme differenti, ma tutti questi brani tranne l’ultimo Deja-vu Vienne, erano già stati incisi con i suoi gruppi Mobile e Ronin. In questo frangente Bärtsch si lascia andare alla composizione in assoluta solitudine, confermando le sue doti minimaliste ma non facendo mai mancare certi influssi classici mescolati all’improvvisazione che pare essere elemento imprescindibile della musica contemporanea. In questo disco non c’è jazz, almeno se intendiamo con quel termine l’insieme dei canoni stilistici che abbiamo imparato a conoscere, con le opportune sfumature e i vari distinguo, da un secolo a questa parte. Siamo piuttosto vicini, e questa non è certo una novità per Bärtsch, all’essenzialità sonora di Steve Reich, forse a certe suggestioni di Philipp Glass, talora a qualche onda melodica alla Terry Riley e alla provocazione, ma in tono più timido, dei silenzi di John Cage.

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