R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Devo confessare che al primo ascolto di questo Arkinetics di Dan Kurfirst ero rimasto molto perplesso. Mi sembrava di riapprocciare quei pretenziosi esperimenti di nu-jazz che erano dilagati negli anni ’80, autentiche insalate di sampler, spezzoni vocali, frammenti estratti da dischi più o meno famosi del passato, tutto messo insieme con qualche percussione elettronica a far da collante. Ma già dal secondo ascolto si è chiarita una situazione completamente diversa da quella che avevo in un primo tempo precipitosamente inferito. Innanzi tutto, chi è mai Dan Kurfirst? Questo giovane batterista e percussionista americano, nato e cresciuto a Brooklyn, ha studiato le relazioni tra il mondo ritmico occidentale ed etnico, soprattutto afro-asiatico, e l’induzione di stati di trance, cioè slittamenti della coscienza verso territori psichici lontani da quelli che normalmente abitiamo. Tamburi battenti, danze rituali, elementi percussivi reiterati favoriscono un ipnotico abbandono degli abituali criteri di relazione sia con il mondo esterno che con noi stessi. Ma non si tratta solo di ritmi. In questo suo primo disco da titolare – in precedenza c’è stata solo una pubblicazione con Ensemble Fanaa (2018) – Kurfirst ha messo in piedi per l’occasione un gruppo che arricchisce la sua musica di altri strumenti come il piano, il basso, la tromba, il flauto, le tablas, il tutto per arrivare ad un jazz contemporaneo a tratti inafferrabile e fluttuante, che deve sicuramente pagare un tributo a Bitches Brew di Miles Davis. Anzi, a dirla tutta e con un pizzico di sfrontatezza, Arkinetics lo possiamo considerare come una diretta evoluzione di quel seminale lavoro davisiano – sono passati più di cinquant’anni da allora (!) – senza per questo rischiare di essere tacciati di blasfemia. E ciò vale sia per la costruzione modale, praticamente una costante per quasi tutto l’album, sia per gli interventi della tromba e del piano che ricordano – pur con le doverose distanze – rispettivamente lo stesso Miles e la coppia Zawinul-Corea. Interessante è anche la scelta del titolo dell’album. Il termine Arkinetics è in fatti una sincrasi tra due parole come “architecture” e “kinetics”. L’architettura cinetica, una pratica cresciuta solo dopo gli anni ’40, progetta edifici con parti mobili – un esempio che riguarda gli appassionati di Calcio è lo stadio di Wembley a Londra dotato di un tetto retrattile – senza che ovviamente le strutture fisse abbiano a soffrirne. Ed è quello che metaforicamente succede anche nella musica di Kurfirst. Le percussioni, molto complesse, si muovono continuamente all’interno di una costruzione che si mantiene solida, squadrata nella sua struttura prevalentemente modale. L’autore newyorkese, inoltre, parla tecnicamente di “cicli ritmici”, suggerimenti ed esperienze ricavate dai suoi numerosi mentori, in particolare il batterista-percussionista Adam Rudolph, che ebbe tra l’altro una lunga collaborazione con il sassofonista Yusef Lateef. Ma al di là di quello che può essere l’insegnamento puramente applicativo, Kurfist ha appreso dai suoi maestri anche l’arte della concentrazione e della meditazione sul proprio lavoro, la capacità di far tabula rasa di ogni commento critico durante l’ispirazione, per permettere così alle idee creative di circolare più liberamente tra il musicista ed il proprio strumento.
