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Nguyên Lê Trio – Silk and Sand (ACT Music, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Dopo oltre trent’anni dal suo esordio discografico possiamo affermare con una certa sicurezza che l’immagine artistica di Nguyên Lê non ha perso col tempo la sua naturale luminosità. Anzi, riapparendo sulla scena internazionale con il suo ultimo album Silk and Sand, ribadisce ciò che ha sempre sostenuto musicalmente nel corso degli anni e cioè che il dettaglio è parte della grandezza. La minuta attenzione con cui il chitarrista franco-vietnamita seleziona i suoni, non solo quelli del suo strumento, permette alla propria musica di strutturarsi, frammento dopo frammento, nell’autentico cross-over a cui, in fondo, egli ha sempre aspirato. Se infatti sottraiamo parzialmente alla sua discografia alcuni album come Celebrating the Dark Side of the Moon del 2014 oppure il più vecchio Purple – Celebrating Jimi Hendrix del 2002 – peraltro realizzati con un’intenzione del tutto personale, lontana anni luce dalla semplice volontà di fotocopiare i grandi Maestri del rock – possiamo renderci conto come il desiderio di un legame interculturale sia sempre stato mantenuto acceso in . E questo è stato reso possibile non solo da un’ispirazione costante ma anche per merito di una ricerca dettagliata riguardo gli elementi basilari dei linguaggi utilizzati, particolari che si sono inseriti gli uni con gli altri come tessere di un puzzle. ha da tempo compreso come in Musica non si possa mantenere un atteggiamento manicheo, per cui influenze orientali, medio-orientali e occidentali, invece che fiorire di per sé seguendo una propria presunta purezza culturale, si prestano ad un ibridismo linguistico attraverso una condivisione di materiali e metodi, utilizzando strumenti musicali in comune, scale armoniche con interscambi modali e invenzioni percussive. In Silk and Sand, una certa visione organizzata alla tranquillità e non ai tecnicismi – questi sono sott’intesi e mai esibiti – si focalizza maggiormente sul medio-oriente, sia per la scelta degli strumentiselezionatiche per la sezione ritmica, motivo quest’ultimo che ha spinto a chiamare con sé il percussionista marocchino Rhani Krjia.

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Andy Emler – No Solo (La Buissonne, 2020)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Che disco meraviglioso è questo!!. Da quanto tempo non si ascoltava un lavoro da cinque stelle ”secche” come No solo di Andy Emler? Una musica fatta per pensare, scendendo uno a uno i gradini della coscienza fino ad arrivare al confine del Grande Mare. Una musica fuggevole come la traccia luminosa lasciata dai fari di un auto. Andy Emler è un pianista e organista parigino che nella sua vita ha scritto molta musica, oltre una cinquantina di partiture per vari strumenti con indirizzi musicali diversi. Ha inciso inoltre più di una trentina di dischi, in parte da titolare, in parte con varie combinazioni tra cui la sua creatura più cara, il MegaOctet, una band composta da vari musicisti che amano improvvisare all’insegna di un affascinante eclettismo sonoro. In questo No Solo Emler è al piano, spesso in solitaria – tanto per smentire parzialmente il titolo dell’opera – accompagnato altre volte da una serie di ospiti che citeremo mano a mano nell’ascolto dei singoli brani dell’album. L’impostazione pianistica, almeno in questo disco, risente moltissimo della impronta classica, con numerosi richiami in filigrana del musicista da Emler preferito, cioè Maurice Ravel a cui dedicò nel 2013 un uscita discografica intitolata My Own Ravel. Aggiungerei un bagaglio di suggestioni ”ambient” che fungono però solo da fondale. Il proscenio è animato, infatti, da una continua invenzione melodica, una raffinata sintassi di periodi assolutamente tonali, quasi senza dissonanze. Insomma non si sconfina mai in acque limacciose, mostrando invece parecchi salti di registro dinamico alternati ad eteree rarefazioni sonore. Teniamo presente che non si tratta di un lavoro onirico né di un viaggio nella pura fantasia ma di una salutare meditazione su sé stessi, un colloquio a tu per tu con il nostro daimon, un open focus che tutti dovremmo organizzare, ogni tanto, riguardo alla nostra essenza più interiore.

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