R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Certo non si può parlare di musica impolverata dal Tempo, riguardo a questa che ascoltiamo dal trio Riccardo BarbaNicola ZilianiFederico Negri. Prima di tutto per la giovane età dei tre protagonisti – nessuno di loro raggiunge la quarantina – e in secondo luogo perché anche se il loro ultimo album Orpheus in the Underground è una sorta di fenditura spazio-temporale attraverso cui sbirciare gran parte della storia della Musica – mi rifaccio ad un’intervista condotta al trio da Carlo Cammarella e apparsa su Jazz Agenda nel maggio di quest’anno – ai tre musicisti riesce comunque un’operazione indovinata, pur decisamente ambiziosa, di cui tutto si può dire tranne che rispecchi tout court il passato. Si tratta di composizioni di ardua collocazione, dato che in questo disco si ascolta tutto, jazz, rock, musica sinfonica, classica contemporanea, con riferimenti espliciti a gruppi come Radiohead, E.S.T., Genesis, Bad Plus ed altro ancora. L’atteggiamento globale è quello della ri-composizione della forma musicale in genere, frazionando, ricucendo, inserendo suoni e suggestioni di svariato assetto e impronta al fine di ottenere un risultato veramente insolito a cui tutto si può rimproverare tranne che annoiare. In effetti momenti di Bellezza ce ne sono a volontà, così come peraltro frangenti confusivi in cui sembra che si proceda un po’ a tentoni, come quando s’imbocca un labirinto in cui si perda temporaneamente l’orientamento. Ma quando si recupera il verso giusto beh allora è veramente una sorpresa. L’ipotesi di delineare un’idea di jazz contemporaneo ci può stare, a patto di attribuire al termine jazz un significato molto più ampio di quello che abitualmente intendiamo. Non si tratta di valutare il ruolo di qualche effetto elettronico o la resa di un certo strumento o quel passaggio armonico più o meno audace, quanto la percezione fondante alla base di questa musica, ormai profondamente mutata da almeno vent’anni a questa parte. Riccardo Barba & soci sembrano consapevoli di questi cambiamenti e sono convinto pensino al jazz non come ad un insieme di canoni collaudati ma ad una forma mutevole, una creta malleabile a cui dare ogni volta un aspetto diverso. A partire dal fatto che l’equilibrio tra le parti musicali scritte ed improvvisate, all’ascolto, appare a favore delle prime – che è già piuttosto insolito per dei jazzisti – i linguaggi utilizzati si sovrappongono, si mescolano in un’interessante babele di significati che in fondo rispecchiano la struttura della società contemporanea dove tradizioni e modernità si mescolano in un abbraccio ambiguo, dai fini non sempre prevedibili. Un po’ come l’inclassificabile musica di questo Orpheus, il personaggio del mito greco, in grado sia d’incantare le sirene – moderne – ma anche di smarrirsi nell‘underground londinese piuttosto che nell’Ade della tradizione classica. La ripartizione strumentale vede Barba al piano, alle tastiere a al synth, Ziliani al contrabbasso e Federico Negri alla batteria. In un brano è presente anche un organico di dieci elementi – i loro nomi, come sempre, li elencherò alla fine della recensione – più la tromba di Flavio Sigurtà.

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