Se prima del dieci aprile qualcuno di voi volesse fare un tuffo nella Londra punk, nelle sue icone, ma soprattutto nella sua moda, non dovrà far altro che visitare la piccola, ma preziosa mostra, allestita alla Fondazione Sozzani di corso Como 10, ed intitolata Mr & Mrs Clark. Ossie Clark and Celia Birtwell, fashion and paints 1965-1974. La mostra, curata da Federico Poletti, mette in posa la produzione originale e dirompente di due tra i più celebrati stilisti della Londra di quegli irripetibili anni. Chi pensasse però ad una semplice mostra sulla moda sarebbe fuori strada, poiché quella della Fondazione Sozzani è una mostra di atmosfere: abiti, film, fotografie e disegni che caratterizzarono la capitale britannica a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta.
Il paradosso di Zerocalcare sta, a mio parere, tutto nel fatto che è talmente bravo nello scrivere i testi e nell’affabulare la trasposizione in video dei suoi fumetti, da far sembrare i suoi disegni quasi un commento del testo e non viceversa, mentre invece il segno grafico è di prim’ordine. La mostra allestita a La Fabbrica del Vapore di Milano dal titolo significativo Zerocalcare. Dopo il botto (aperta fino al 23 aprile prossimo), con le sue oltre 500 tavole esposte e i numerosi video, manifesti, libri, locandine, fotografie, rende pienamente giustizia a questo artista a tuttotondo. Sebbene nella mostra sia presente un’ampia fetta della produzione di Zerocalcare, si può tranquillamente affermare che il focus di questa esposizione è certamente il racconto della frammentazione sociale all’indomani della pandemia. Intorno a questo tema ruotano i numerosi video esposti e molte storie a fumetti.
Forse non tutti sanno che Bruce Nauman, da giovane, aveva intrapreso studi matematici, ma invece di un razionalissimo matematico è diventato un razionalissimo artista, sfatando, ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che arte e razionalità, spesso, molto più spesso di quanto si ami credere, non possano convivere. Ed è proprio applicando il metodo rigoroso dell’indagine scientifica che verità, spesso indiscusse e tramandate, possono non bastare a fornire una percezione univoca e rassicurante della realtà. Visitare la magnifica mostra Neons Corridors Rooms del Pirelli Hangar Bicocca di Milano conferma ampiamente questa tesi ed è quindi fortemente consigliato, fino al 26 febbraio, costringere il vostro corpo a visitarla, visto che anche il vostro corpo diventerà parte della ricerca del grande artista americano. Bruce Nauman usa il corpo (soprattutto quello del visitatore), come materiale scultoreo umano e le sue installazioni non potrebbero vivere senza il corpo di chi le attraversa e le percorre. Il corpo del visitatore si trova a vivere in una sorta di “dasein” per usare un termine caro all’esistenzialismo, nell’opera stessa. “Esserci” questa potrebbe essere la traduzione del termine tedesco: esserci per esperire ed essere esperiti.
Non è solo da oggi, che sono attratto dagli artisti africani molto più vivaci, molto più motivati, molto più attenti è molto più prolifici dei cosiddetti artisti occidentali (sempre che queste definizioni significhino ancora qualcosa). Allora se amate l’arte africana contemporanea (ma anche se non sapete neppure cosa sia e/o come sia) non dovreste perdervi Born in the first light of the morning di Dineo Seshee Bopape, allestita nello “Shed” del Pirelli HangarBicocca a Milano. Di solito a questo punto sarebbe d’uopo presentare l’artista. Mi limiterò a dire che Bopape è nata a Polokwane, in Sudafrica, nel 1981 ed è proprio il luogo di nascita, più che il prestigioso curriculum di studi, che dà profondissimo senso alla sua arte che, inutile negarlo, ha necessariamente a che fare con molte avanguardie artistiche della seconda metà del Secolo breve, nonostante queste ancestrali e remote radici. Video, installazioni, Land Art, sono i mezzi coi quali la Bopape costruisce il suo universo segnico e i “resti” di un mondo fattuale, costruito spesso da terra, roccia, fuoco e acque che, quasi invariabilmente, ritornano al tema più caro all’artista africana: il colonialismo e l’Apartheid. Ispiratrici di Dineo Seshee Bopape sono state numerose figure di scrittori e attivisti anti coloniali del sud del mondo, come lo psichiatra e attivista Frantz Fanon, lo scrittore Sol Plaatje, la scrittrice femminista afro-americana Audre Lorde, il sociologo Stuart Hall, l’attivista anti-Apartheid Winnie Mandela.
Che questa mostra non si possa leggere indipendentemente dal luogo che la ospita, lo si evince già dalle parole di Rem Koolhaas nel catalogo. Non dimentichiamo che Koolhaas è l’architetto che ha curato il restauro dell’antica distilleria della periferia sud di Milano che, come d’incanto, si è trasformata nella meraviglia che conosciamo. Tutto questo è pertinente con la mostra? Lo è, visto che il curatore Salvatore Settis ha voluto intitolarla Recycling Beauty. Non si tratta della semplice esposizione di una serie di sculture di epoca classica, bensì di un progetto più sottile, così come di grande acume fu la prima mostra con cui fu inaugurata la Fondazione Prada nel 2015, quel Serial Classic che proponeva una lettura molto originale della statuaria greco-romana, come grande creazione “collettiva”.
“Man in the boat” di Ron Mueck e “Real World” di Alex Cerveny, sono certamente tra le opere d’arte contemporanea che tra la scorsa primavera e l’inizio dell’autunno hanno suscitato in me le maggiori emozioni. Naturalmente non le uniche visto che, nella consueta parentesi parigina di fine estate, ho avuto modo di turbarmi, e non poco, con “Echo2” di Philippe Parreno, al centro della Rotonde della Bourse de Commerce (purtroppo mi sono colpevolmente perso “Storia della notte e destino delle comete” di Gian Maria Tosatti nel Padiglione Italia alla biennale veneziana, ma non si ha quasi mai tempo per tutto). Certamente si tratta di umori e riflessioni molto diverse, ma per chi scrive, di sicuro queste sono le tre opere d’arte più suggestive di questo 2022. Chi volesse condividere questo mio godimento estetico/estatico, ha ancora tempo fino all’undici dicembre per lasciarsi inquietare da “Man in the Boat” e da “Real World”, esposte entrambe, nella magnifica mostra intitolata appunto Mondo Reale realizzata, non per caso direi, con la parigina Fondation Cartier, nell’ambito della XXIII Esposizione della Triennale di Milano, intitolata “Unknow Unknows”.
L’addio al mondo di Vincent Van Gogh nel nuovo spettacolo di Marco Goldin: parole, musica e suggestioni visive per raccontare il congedo dalla vita di un artista eternamente sospeso fra malinconia e passione.
A quattro anni esatti dall’evento “La grande storia dell’Impressionismo”, Marco Goldin – storico dell’arte, saggista, narratore – ritorna sul palco del Teatro Nuovo di Salsomaggiore Terme per presentare in prima nazionale il suo nuovo spettacolo, “Gli ultimi giorni di Vincent Van Gogh. Il diario ritrovato”, che andrà in scena il 5 novembre. Il diario ritrovato in un cassetto non è che un espediente narrativo per proiettare il pubblico all’interno della dimensione umana di Van Gogh, e farlo partecipe delle ultime tappe del suo percorso artistico ed esistenziale, da Saint Remy a Parigi e infine a Auvers-sur-Oise, dove il suo “viaggio” troverà la definitiva conclusione. Abbiamo incontrato Marco Goldin nel backstage, per avere qualche anticipazione e approfondire i temi portanti di questo lavoro carico di suggestioni, basato sull’omonimo romanzo – edito da Solferino – uscito nelle librerie il 15 settembre: a teatro vuoto, i pannelli luminosi ad alta definizione che costituiscono la scenografia riproducono con estrema nitidezza i quadri di Van Gogh, creando un’esplosione di colore su cui si stagliano i pochi ma essenziali oggetti che rendono immediatamente riconoscibile la ricostruzione della stanza che accolse le ultime ore dell’artista.
Il Centre Pompidou sembra fatto apposta per ospitare una mostra di Chris Ware, uno dei più grandi fumettisti del mondo. Anzi sono i graphic novel di Chris Ware ad essere adatti ad essere ospitati in un giocattolone meccanico come il Centre Pompidou. Potremmo dire che le due cose sono fatte l’una per l’altra. Tuttavia il Beaubourg non aveva mai ospitato una mostra di Chris Ware e, probabilmente nemmeno Ware aveva mai disegnato il Centre parigino in una sua striscia. Per fortuna in queste settimane e fino al prossimo 10 ottobre, il Centre Pompidou ospita una magnifica esposizione sul lavoro del grande fumettista statunitense. Chris Ware, va detto per i pochi che non lo conoscessero, non è solo uno straordinario disegnatore e narratore, ma è anche un “progettatore” e “costruttore” di libri. Per lui il disegno della striscia, il lettering, lo story board, non esauriscono il suo lavoro. Ware si occupa infatti dell’intero processo di produzione di un graphic novel e la mostra parigina vuole render nota questa sua caratteristica, attraverso una esposizione cronologica del suo lavoro che parte da Chicago, dove Ware comincia a pubblicare dagli anni Novanta i suoi lavori su RAW, la rivista d’avanguardia diretta da Art Spiegelman e François Mauly.
Se qualcuno pensasse che artisti come Orlàn o Stelarc che, qualche decennio fa, alterando, distorcendo e anche maltrattando il loro corpo, avessero preconizzato il futuro del cyber-corpo e ci avessero visto giusto, ebbene si sbagliava. O almeno si sbagliava in parte poiché, se è vero che gli innesti cibernetici sono diventati una pratica quotidiana in campi come la chirurgia o la scienza, in arte il corpo umano è andato molto oltre le preconizzazioni immaginifiche della body art: il corpo umano oggi è semplicemente scomparso. E quando non è scomparso del tutto, è mummificato, finto, talvolta un simulacro nemmeno presente. A sostenerlo e a dimostrarlo ampiamente è la straordinaria mostra Useless Bodies? di Elmgreen & Dragset alla Fondazione Prada di Milano, visitabile fino al prossimo agosto. La presenza fisica dell’uomo post-industriale e post-tutto, sembra non necessaria o comunque sembra aver perso la propria centralità, proprio il corpo che per l’arte è stato quasi tutto. La mostra di Elmgreen & Dragset, danese il primo, norvegese il secondo, ha optato per installazioni site-specific che si possono definire sontuose, occupando tutti gli spazi espositivi della Fondazione, il Podium prima di tutto, con un allestimento dichiaratamente ispirato alla prima e memorabile mostra della Fondazione Prada, quel “Serial Classic” allestita proprio da Rem Koolhaas, che della fondazione è l’architetto e curata da Salvatore Settis. In questo primo, introduttivo e magnifico spazio espositivo, sono esposte sculture figurative, classiche e contemporanee, ma che sembrano evocare simulacri di corpi più che corpi stessi, proprio per la loro dialettica vero/falso e con un fitto gioco di sguardi e rimandi tra scultura del passato e scultura contemporanea. Tra le opere esposte la copia in gesso dell’Atleta con lo strigile, calco in gesso del 1938, notissimo anche col nome di Apoxyomenos, copia di epoca romana del II secolo d. C. da un originale greco del IV secolo a.C. E già qui il gioco dei rimandi incrociati è affascinante.