A vederlo incute un certo timore Billy Gibbons, con la sua barba lunga, gli occhiali scuri e la voce tenebrosa, ma in realtà è una persona dolcissima nella sua stravaganza: ho avuto l’onore di incontrarlo qualche anno fa in quel di Locarno, intervistato da uno dei miei idoli radiofonici, Luca De Gennaro, ed è stato uno dei pomeriggi più spassosi che abbia passato. Ti aspetti che tiri fuori chissà quale aneddoto e, invece, ecco che attacca a parlare della sua infanzia in Texas e di quando, all’età di 5 anni, la madre lo portò ad un concerto di Elvis Presley e rimase folgorato dalla musica. Un predestinato, perchè, figlio di direttore d’orchestra, comincia prestissimo a suonare la batteria, ma è a 14 anni che molla tutto per la sei corde, e inizia a suonare in giro con il suo gruppo, arrivando perfino ad aprire per Jimi Hendrix. La gavetta è lunga, nel ’69 fonda gli ZZ Top con il bassista Dusty Hill, gemello di barba, e il batterista Frank Beard, ma è solo negli anni ’80 che raggiungono il successo con l’album Eliminator. Nell’immaginario collettivo il trio è sempre associato alle hot rod, le vetture storiche americane che sfrecciano nel deserto tra dune, cactus e serpenti a sonagli, alle bottiglie di whiskey e a bellissime donne dagli abiti succinti e quest’etichetta Billy se la porterà dietro anche nella sua carriera solista, con tre album all’attivo.
Il 16 aprile 2021 è uscito, per Concord Records, Let The Bad Times Roll dei The Offspring, prodotto ancora una volta da Bob Rock, a nove anni dal precedente album in studio, Days Go By; l’album è stato registrato a più riprese nel corso degli anni, ma i conflitti con la precedente casa discografica ne hanno ritardato la pubblicazione che, originariamente, era prevista per il 2020: dodici tracce per circa 33 minuti, di cui una cover strumentale, fatta a modo loro, In the Hall of The Mountain King, scritta niente di meno che nel 1875 da Edvard Grieg e usata come colonna sonora di numerosi film (mi sto scervellando da giorni per ricordare in quale l’ho sentita la prima volta) e una rivisitazione piano, voce e orchestra di Gone Away, tratta da Ixnay on the Hombre del 1997. Vi suonerà familiare anche Coming for You, con il basso a tracciare la linea melodica, perché in realtà il brano circola già nelle radio dal 2015.
Tutto l’album, per il resto, rappresenta un po’ un ritorno alle origini, a quelle melodie orecchiabili che, negli anni ’90, hanno fatto di loro, come dei Bad Religion, gli alfieri del pop-punk statunitense. La verve è quella di sempre, schietti come pochi, non hanno mai avuto paura di mostrare il lato oscuro della luna, criticando in maniera ironica, ma pur sempre feroce, la società a stelle e strisce. Nel brano di apertura, This is Not Utopia, parlano ad esempio di giustizia ed uguaglianza (“con tutto questo odio come possiamo sopravvivere?”), nella title track, Let The Bad Times Roll, si riflette sulla presidenza Trump, peccato sia uscito solo ora, in The Opioid Diares criticano, a suon di ritmo galoppante e chitarre vagamente metal, le facili prescrizioni di oppiacei da parte dei medici americani (Dr. Feelgood docet). Il punto di forza di questo gruppo sta proprio nell’affrontare con il sorriso anche le tematiche più cupe, come in Behind Your Walls, dove parlano di depressione, di suicidio, della perdita delle persone care.
Bisogna arrivare alla quarta traccia per trovare chitarre più grintose e ritmi più sostenuti, con ritornelli da stadio, come in Army of One e in Breaking These Bones, dove la batteria comincia a pestare a dovere; Holland, Noddles e soci restano comunque dei burloni e possono permettersi pertanto anche un’incursione nel jazz e nel rackabilly, come in We Never Have Sex Anymore, storia di un matrimonio al capolinea, che farà un po’ storcere il naso ai fan più ortodossi, ma che a me non dispiace affatto, si consoleranno poi con Hassan Chop, il brano più fedele alle origini hardcore della band. La chiusura viene affidata a Lullaby, una ripresa arpeggiata del ritornello della title track, forse un tantino troppo veloce come epilogo, poco oltre un minuto, dà quasi la sensazione di qualcosa di incompleto, chissà che la cosa non sia stata fatta volutamente, in attesa di aggiungere un nuovo capitolo alla loro storia. Intanto per il 2022 è già previsto un tour che toccherà anche l’Italia, con una tappa il 21 giugno al Carroponte di Sesto San Giovanni, nel frattempo ci godiamo le nuove canzoni, poi si vedrà…
Voto: 8/10 per le melodie veloci, i ritornelli orecchiabili e i temi importanti.
Tracklist: 01. Thi is Not Utopia 02. Let The Bad Times Roll 03. Behind Your Walls 04. Army of One 05. Breaking These Bones 06. Coming for You 07. We Never Have Sex Anymore 08. In the Hall of The Mountain King 09. The Opioid Diares 10. Hassan Chop 11. Gone Away 12. Lullaby
Ci sono ormai ben pochi artisti viventi che ti lasciano un segno, voci così calde e travolgenti che al solo suono ti senti tremare. Avevamo Johnny Cash, Lou Reed tanto per citare i primi due che mi vengono in mente, oggi abbiamo il re inchiostro Nick Cave, Eddie Wedder… ed abbiamo Matt Berninger. Dopo vent’anni di carriera come frontman di uno dei gruppi più influenti della scena indie rock The National, ecco che arriva il momento del suo contributo solista al mondo e, con questi presupposti, non poteva che venire fuori un semi capolavoro. Serpentine Prison è uscito il 16 ottobre per Book Records, sua sotto etichetta con distribuzione Universal e prodotto dal polistrumentista Booker T. Jones. Per 42 minuti Matt ti sussurra all’orecchio frasi malinconiche, rassicuranti, come una coperta calda in un pomeriggio d’inverno. L’ho riascoltato diverse volte, prima in cuffia al buio, poi ho fatto uscire quelle note dalle casse dello stereo mentre cucinavo la domenica mattina, lasciandole scorrazzare per casa, libere di impossessarsi di ogni metro quadro. In ogni modo lo ascoltiate, il risultato non cambierà, è un album di una perfezione devastante, nessun elemento fuori posto, una pienezza assoluta.