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Fulvio Sigurtà

Unscientific Italians – Play The Music of Bill Frisell Vol. 2 (Hora Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

All’uscita di un nuovo disco, molto atteso, non nego di essere curioso come un bambino, anche per poter godere della “copertina” (oggi ”cover”). Si tratta certamente di un retaggio infantile, ma è innegabile, che la cover ha un certo peso, anche oggi, dove “l’oggetto-disco” praticamente non esiste più (eccezione gucciniana a parte). E siccome l’uscita del secondo volume di Unscientific Italians Play The Music of Bill Frisell (Hora Records), mi intrigava e non poco, ho accolto con grande soddisfazione la magnifica grafica di un amico come Francesco Chiacchio, che ha curato l’operazione su un disegno originale di Frisell e con un prevedibile, ottimo risultato. Splendida la confezione, e la musica? Anche qui nutro un vecchio pregiudizio: difficilmente a grafiche tanto raffinate possono corrispondere contenuti deludenti. E infatti, anche in questo caso, il contenuto è letteralmente entusiasmante. Se il primo Unscientific Italians valse a Bill e ai suoi musicisti il premio della critica “Band of the Year 2021”, il secondo volume, anche se per il calcolo delle probabilità non potrà avere ancora un simile riconoscimento, non è da meno.

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Canova Trio – Agata (Filibusta Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Lucio Vecchio

Canova è un piccolo borgo medioevale, immerso nella natura della Val d’Ossola. Un villaggio di case in pietra e legno, abitato da diversi artisti. Ed è anche il luogo in cui, sei anni fa, questo trio è nato grazie all’incontro spontaneo di tre amici: Elisa Marangon, voce e pianoforte – Roberta Brighi, basso elettrico e voce – Massimiliano Salina, batteria.
Nel tempo, i percorsi ed i gusti personali, così come la voglia di sperimentare e rischiare, hanno permesso al gruppo di lavorare su brani originali ed arrangiamenti del tutto personali, caratterizzati da ricerca ritmica e liricità, ispirandosi alla musica jazz nordeuropea (come Kenny Wheeler, Ewan Svensson e Norma Winstone), così come al jazz americano, al neo soul e all’R&B moderno (come Robert Glasper e Gretchen Parlato).
Nell’estate del 2021 hanno registrato il loro primo album insieme Agata, con un ospite speciale, il trombettista Fulvio Sigurtà.
Attraverso colori e geometrie sorprendenti e sempre differenti la pietra Agata si fa spazio nel mondo e racconta, senza parole, di un miracolo della natura. Dalla combinazione di diversi fattori naturali nascono delle vere e proprie opere d’arte, dall’identità forte, che a tratti ricordano tecniche pittoriche appartenenti ad epoche lontane tra di loro.
Una modalità espressiva molto vicina al mondo della musica, che fa pensare al colore di questo disco.
In Agata, edito da Filibusta Records, trovano posto 11 tracce. Oltre alle composizioni originali di Elisa Marangon, di cui una scritta con Roberta Brighi, ed una di Massimiliano Salina, sono presenti reinterpretazioni di brani di Antonio Carlos Jobim, WayneShorter, Bill Evans, Enrico Pieranunzi, Dave Castle/Ewan Svensson.

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Barba Negri Ziliani – Orpheus In The Underground (Emme Record Label, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Certo non si può parlare di musica impolverata dal Tempo, riguardo a questa che ascoltiamo dal trio Riccardo BarbaNicola ZilianiFederico Negri. Prima di tutto per la giovane età dei tre protagonisti – nessuno di loro raggiunge la quarantina – e in secondo luogo perché anche se il loro ultimo album Orpheus in the Underground è una sorta di fenditura spazio-temporale attraverso cui sbirciare gran parte della storia della Musica – mi rifaccio ad un’intervista condotta al trio da Carlo Cammarella e apparsa su Jazz Agenda nel maggio di quest’anno – ai tre musicisti riesce comunque un’operazione indovinata, pur decisamente ambiziosa, di cui tutto si può dire tranne che rispecchi tout court il passato. Si tratta di composizioni di ardua collocazione, dato che in questo disco si ascolta tutto, jazz, rock, musica sinfonica, classica contemporanea, con riferimenti espliciti a gruppi come Radiohead, E.S.T., Genesis, Bad Plus ed altro ancora. L’atteggiamento globale è quello della ri-composizione della forma musicale in genere, frazionando, ricucendo, inserendo suoni e suggestioni di svariato assetto e impronta al fine di ottenere un risultato veramente insolito a cui tutto si può rimproverare tranne che annoiare. In effetti momenti di Bellezza ce ne sono a volontà, così come peraltro frangenti confusivi in cui sembra che si proceda un po’ a tentoni, come quando s’imbocca un labirinto in cui si perda temporaneamente l’orientamento. Ma quando si recupera il verso giusto beh allora è veramente una sorpresa. L’ipotesi di delineare un’idea di jazz contemporaneo ci può stare, a patto di attribuire al termine jazz un significato molto più ampio di quello che abitualmente intendiamo. Non si tratta di valutare il ruolo di qualche effetto elettronico o la resa di un certo strumento o quel passaggio armonico più o meno audace, quanto la percezione fondante alla base di questa musica, ormai profondamente mutata da almeno vent’anni a questa parte. Riccardo Barba & soci sembrano consapevoli di questi cambiamenti e sono convinto pensino al jazz non come ad un insieme di canoni collaudati ma ad una forma mutevole, una creta malleabile a cui dare ogni volta un aspetto diverso. A partire dal fatto che l’equilibrio tra le parti musicali scritte ed improvvisate, all’ascolto, appare a favore delle prime – che è già piuttosto insolito per dei jazzisti – i linguaggi utilizzati si sovrappongono, si mescolano in un’interessante babele di significati che in fondo rispecchiano la struttura della società contemporanea dove tradizioni e modernità si mescolano in un abbraccio ambiguo, dai fini non sempre prevedibili. Un po’ come l’inclassificabile musica di questo Orpheus, il personaggio del mito greco, in grado sia d’incantare le sirene – moderne – ma anche di smarrirsi nell‘underground londinese piuttosto che nell’Ade della tradizione classica. La ripartizione strumentale vede Barba al piano, alle tastiere a al synth, Ziliani al contrabbasso e Federico Negri alla batteria. In un brano è presente anche un organico di dieci elementi – i loro nomi, come sempre, li elencherò alla fine della recensione – più la tromba di Flavio Sigurtà.

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Unscientific Italians – Play The Music of Bill Frisell Vol. 1 (Hora Records, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Lo dico subito, così mi tolgo il pensiero: quando mi trovo davanti ad un “Omaggio a…” oppure a un “Tributo a…” divento sempre sospettoso, preoccupato e anche un po’ svogliato. Gli omaggi e i tributi sono ormai troppi. Sono spesso inutili, altri sono ripetitivi, qualche volta stucchevoli e, solitamente, tutti lasciano in me il desiderio dell’originale. Naturalmente ci sono delle eccezioni, rare, ma ci sono, come è il caso di Unscientific Italians play the music of Bill Frisell. Istruzioni per l’uso: prendete pezzi noti e meno noti del grande musicista statunitense, dateli in mano a cinque grandi musicisti italiani, trasformate “Unscientific americans” in “Unscientific italians” ed il gioco è fatto. Scherzi a parte, il disco edito dalla nuova etichetta Hora Records, uscito il 21 maggio, ha in sé qualcosa di nuovo, di fresco e un pizzico di genio e (s)regolatezza. Si tratta di una “riscrittura intelligente” se così possiamo dire, frutto di un gioco di equilibrio e calibrature sulle partiture originali di Bill Frisell che, se da un lato ne modificano combinazioni strumentali, sfumature, colorazioni, dall’altro non stravolgono il contesto musicale friselliano, lasciandone immutato il fascino e l’ambientazione. Se per omaggiare un grande musicista, spesso occorre estro e coraggio, per fare un lavoro di questo genere occorrono due doti che, sia in campo musicale che artistico in senso lato, non sono poi così frequenti: l’intuizione e l’umiltà.

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