R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Ai tempi fastosi del bebop i maestri del jazz abbondavano di note straripanti ed esplosive, spesso inventandosi frasi così complesse da rendere molto difficile per gli altri poterle copiare e riprodurre. Il bagaglio tecnico era considerato, forse allora più di oggi, un biglietto da visita essenziale se ci si voleva qualificare come musicisti jazz. Poi le cose sono cambiate, si sono evolute, si è cercato di dare un diverso peso alla musica che non fosse limitatamente identificabile solo con la velocità di esecuzione e con la funambolica capacità di combinare tra loro le diverse scale musicali. Dopo la comparsa di Kind of blue si rivoluzionò tutto il jazz a seguire. Era tracciato, in quel capolavoro assoluto di Miles Davis & C, un nuovo paradigma che sanciva una maggior attenzione ai modi, alle pause, alle sfumature, ovviamente non abdicando mai alla preparazione tecnica individuale dei singoli musicisti. Poi venne il free jazz e i modelli precedenti furono modificati a loro volta. L’armolodia di Ornette Coleman resettava addirittura tutte le regole armoniche precostituite, via tutti i legami tradizionali, via il rispetto tonale, strada aperta alla libertà esecutiva più radicale. La rabbia, la consapevolezza politica della negritudine, l’urlo di quella generazione tra gli anni ’60 e 70 premeva con urgenza verso il superamento della tradizione facendo di questa dinamica la propria Bibbia espressiva. 

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