R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
La musica di Joe Locke, in questa sua ultima fatica Makram, è costituita da una serie di brani euforizzanti che fin dal primo ascolto dimostrano la loro immediatezza e spontaneità, come fossero stati realizzati in un unico flusso continuo d’ispirazione. Ovviamente tutto non è così semplice come appare. Dietro a ciò che sembra facile, soprattutto nel jazz, ci sono ore di studio, prove su prove, ripensamenti e riscritture delle parti, insomma una dura gavetta percorsa spesso a costo di notevoli sacrifici personali. In effetti, al di là del subitaneo piacere che si prova ascoltando Makram – il titolo dell’album è un omaggio al contrabbassista libanese Makram Aboul Hosn, un amico di Locke e suo occasionale collaboratore – si comprende come questo lavoro sia stato, in fase progettuale, scomposto in profondità e quindi ricostruito nei suoi singoli tasselli per giungere a un’opera quadrata, materica, quasi fisica per la continua scossa nervosa e muscolare che trasmette a chi l’ascolta. L’autore principale di tutto questo è il sessantaquattrenne vibrafonista Joe Locke nato in California, con circa una trentina di uscite discografiche a partire dalla fine degli anni ’80 con il suo esordio Scenario (1987) pubblicato su vinile e credo mai stampato in formato digitale. In Makram si assiste a un bel ribollire di suoni che non illanguidiscono mai troppo, nemmeno durante l’esecuzione delle ballad. Vero è che in Locke arde il sacro fuoco del jazz, così come questo è stato tradizionalmente concepito, cioè ritmo, improvvisazione e gusto per l’impervietà di alcuni passaggi al limite della tonalità. Vitalità e assenza di pulsioni eccessivamente introverse fanno parte di queste sonorità smaliziate, con gli arrangiamenti fluorescenti di una ritmica tutta controbalzi ma sempre alfine allineata senza troppe stravaganze alla finalizzazione del progetto vibrafonistico di Locke.

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