R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
È interessante notare come il contrabbassista danese Richard Andersson, nell’inventare questo nuovo progetto d’insieme, riesca a mettere in risalto non solo le proprie qualità – che sono molte e poste in evidenza attraverso i numerosi assoli qui proposti – ma soprattutto anche quelle degli altri musicisti raccolti intorno a lui. Nel nuovo album Inviting, ad esempio, vengono sottolineate abbondantemente le qualità dei suoi colleghi, come il conterraneo chitarrista Per Møllehøj – che Andersson già ben conosce per aver registrato con lui A Ghost of a Chance nel 2019 – e come il batterista spagnolo Jorge Rossy che collabora per la prima volta con Andersson – di Rossy potete trovare la recensione del suo disco Puerta (qui) e anche la sua collaborazione con Jakob Bro in Uma Elmo (qui). Andersson – che non va confuso col suo omonimo svedese, tastierista orientato al metal – ha pubblicato oltre una decina di album come titolare e in questo stesso anno è uscito anche con un disco di contrabbasso solo (U-Synlig). La sua educazione musicale non è prescindibile dallo studio accurato di colleghi come Larry Grenadier e dall’ammirazione appunto per Jorge – detto anche Jordi – Rossy, guardacaso due musicisti che ritroviamo nel tempo in compagnia di famosi pianisti come Brad Mehldau a costituirne l’ossatura ritmica. Ed è proprio attraverso l’ascolto e l’analisi dell’organizzazione del piano-trio che Andersson ha preso le proprie misure come contrabbassista, affascinato dall’interscambio di idee e dai numerosi e fluidi tempi dispari messi in gioco per sostenere lo strumento solista. In questo Inviting al centro delle invenzioni musicali c’è Per Møllehøj, chitarrista forse un po’ sottostimato nel clima jazzistico europeo, che si muove con rilassata eleganza tra le maglie ritmiche del contrabbasso e della batteria di Rossy, quest’ultimo probabilmente l’elemento, nel trio, con più larga esperienza sulle spalle. Il batterista spagnolo incrocia per la prima volta le sue bacchette sia con la chitarra di Møllehøj che con il contrabbasso di Andersson e ciò che ne vien fuori è questo lavoro piuttosto tradizionale, di granitica intelaiatura ritmica, che si muove attraverso godibili incroci tra spigliate idee melodiche ed armoniche. Certo, non si tratta di musica d’avanguardia e oserei definirla “parzialmente” contemporanea, dove però si ascolta del buon bebop sia negli standard che nei brani composti dal gruppo – due di Andersson ed un altro paio di Møllehøj. La musica si svolge in una scarna essenzialità, rifuggendo le ridondanze perché si tratta di pura, inaffondabile tradizione after eight. Non c’è nulla di misterioso da cercare, il trio non ha niente da nascondere e conseguentemente da svelare, ma elargisce una notevole sensazione di serenità offerta all’ascoltatore come pegno per la sua attenzione.
