R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Mi hanno sempre affascinato i polistrumentisti. Da ragazzi – erano gli anni’60 –  quando tutti più o meno suonavamo uno strumento musicale, i più ammirati erano quelli che potevano mollare la chitarra e sedersi al posto di un batterista o di un tastierista o viceversa. Jorge Rossy è appunto un polistrumentista di alto livello, che può passare con una certa leggerezza dalla batteria al pianoforte, dal vibrafono alla tromba e fare sempre la sua bella figura. In effetti Rossy, cinquantasettenne nato a Barcellona, comincia la sua carriera di musicista proprio come batterista e come tale, non ancora trentenne, lavora a New York dove viene conteso da gente come Mark Turner, Brad Mehldau, Avishai Cohen e altri musicisti di pari livello. Nel contempo, compiuti da poco i trent’anni, Rossy inizia a costituire gruppi accentrati sul piano, lasciando ad altri l’incombenza della batteria. Il vibrafono sorge all’orizzonte dei suoi interessi una decina d’anni fa ma sarà solo nel 2015 che questo strumento entrerà  in prima linea quando, a capo di un quintetto che vedeva tra gli altri Mark Turneral sax e Al Foster alla batteria, viene pubblicato Stay There. Questo Puerta riconferma Rossy al vibrafono e alla marimba e lo vede organizzare un trio insieme a Jeff Ballard alla batteria – anch’egli con un’illustre militanza a fianco di Brad Mehldau e Chick Corea, guarda caso due artisti con cui ha spesso lavorato lo stesso Rossy. Il terzo musicista che partecipa a Puerta è Robert Landfermann, contrabbassista di chiara fama avendo avuto musicalmente a che fare con grossi calibri come Lee Konitz, John Scofield, Joachim Kuhn, John Taylor, ecc. Ma il 2021 è stato anche l’anno in cui è uscito Uma Elmo – recensito qui su Off Topic – insieme a Jakob Bro ed Arve Henricksen. Così come il suono della sua batteria in quel disco era misurato e rarefatto, altrettanto si può affermare per ciò che riguarda il vibrafono in quest’ultimo Puerta.

Sembra che il modo di suonare di Rossy – qualsiasi strumento manipoli – sia caratterizzato da uno stilema riconoscibile e in questo album ECM si evidenzia con poche note, frequenti ampi spazi tra le frasi musicali, nessuna fretta esecutiva. Le pause si fanno pensose e un senso di misteriosa presenza s’insinua tra le vibrazioni metalliche – o lignee, a seconda dei casi. Tra decine di musiche spesso urlate e scartavetrate con furori incomprensibili ecco che invece il trio di Puerta s’avanza misurando ogni espressione sonora, lavorando sulla musica come un alchimista sulla materia vile. In effetti, a tratti, si ha proprio l’impressione di un lavorio tra alambicchi e atanor, con la musica che sobbolle lentamente sul fondo dei recipienti e da cui potrebbe scaturire, prima o poi, la Trasmutazione Aurea. Del resto la motivazione che sta dietro alla scelta del titolo dell’album – Puerta è giustificata dalla ponderata esigenza di Rossy, avvertita durante una tournee londinese con Brad Mehldau, di aprire una nuova “porta” verso altre direzioni e di affrontare un paesaggio inusuale muovendosi da leader, proprio utilizzando vibrafono e marimba come principali mezzi espressivi.

Post-Catholic Waltz inizia sommessamente con un 4/4 molto tranquillo che funge da introduzione verso un’apertura swingante in tre su quattro, classico tema ritmico del valzer come suggerito dal titolo. Contrabbasso e batteria lavorano in sottovoce per dare il massimo respiro al vibrafono che opera su frammenti brevi, melodici, dove la regia di Rossy si evidenzia in una sorta di clima “sospeso”, un vero e proprio cammino in punta di piedi, fino a ritornare nel 4/4 di apertura per terminare allo stesso modo in cui si era cominciato. Taínos è il nome di un’antica popolazione indigena che abitava le Antille e forse fu proprio la prima del Nuovo Continente ad entrare in contatto con gli europei. Qui Rossy introduce la marimba che si muove circospetta su uno sfregamento percussivo che ricorda quello di una danza tribale. Siamo portati ad alzare il volume del brano per decifrare le sfumature del trio – il contrabbasso entra in simbiosi solo dopo circa un minuto dall’inizio. A volte il suono della marimba sembra un vero e proprio sgocciolio di note, ci si muove con delicatezza, il contrabbasso accenna ad un breve solo subito ricondotto nell’alveo del senso del mistero indecifrabile che sembra alitare lungo tutto il percorso del brano. Con Adagio la dimensione intima e rarefatta raggiunge forse il picco massimo. Si apprezzano una serie di eventi microscopici, piccoli suoni, frasi sempre melodiche ma un po’ timorose di esporsi in lunghezze più decise. Prevale l’aspetto metonimico del suono che diventa così quasi l’allegoria di un insieme intuibile ma realizzato, al momento, solo nelle sue singole parti. Maybe Tuesday si riabbraccia allo swing con un walking bass insistente che insieme alla quasi impalpabile batteria sorregge il brano nel suo essere moderatamente mainstream. Ma questi due strumenti hanno da dialogare abbastanza a lungo verso la metà del percorso dove si combattono la prima fila con assoli brevi, precisi nel loro appuntarsi, attenti a non esagerare col protagonismo. Sembra quasi, non so se sia un particolare voluto, che si cerchi in fase di registrazione una dinamica il più morbida possibile, come fosse una specie di sordina psicologica alla sonorità naturale della strumentazione. Cargols (in spagnolo “lumache”), è una composizione di Chris Cheek, sassofonista americano vecchia conoscenza di Rossy per averci suonato insieme sin dagli anni ’90 in diverse formazioni. Anche questo brano non presenta particolari scarti ideologici con quelli precedenti, l’andamento è lento e molto gradevole, persistono le atmosfere con ampie vacuità che permettono all’ascoltatore di concentrarsi sui singoli passaggi ben individuabili e sui ruoli dei musicisti che appaiono facilmente definiti.

Scilla e Cariddi emergono avvolte dalla nebbia raccontata dalle note enigmatiche del contrabbasso mentre la marimba e il vibrafono si concedono un’opzione di simultaneità. Il tema ha una vaga rimembranza con My funny Valentine, accennoche si ascolta sia nell’incipit di contrabbasso che nella ripresa di Rossy. Puerta si affida all’ipnotico suono della marimba prima e del vibrafono poi, sovrapponendosi a tratti mentre in sottofondo si avverte l’archetto di Landfermann che inizialmente sfrega le corde del contrabbasso molto vicino al ponte, simulando quasi la sonorità di un theremin. S.T. è un brano lento dalle movenze vagamente orientaleggianti scandito da una batteria assai regolare che ricorda il battito di un rock lento dove anche il contrabbasso semplifica la sua linea d’accompagnamento, salvo poi prendere quota in un piccolo assolo appena oltre la metà della traccia. Ventana riallaccia le radici swinganti e mainstream in un classico pezzo a trio dove il vibrafono assurge a vero e proprio strumento leader, particolare abbastanza raro nel corso dell’intero album. Una sorta di liberazione strutturale per il trio, che pare sintonizzarsi sul ruolo ipotetico di un “vero e proprio gruppo jazz”. Adiós si commiata dall’ascoltatore con un’insinuante linea ritmica e con una marimba che ripropone tutti i punti programmatici dichiarati ed esposti nell’album.

Non possiamo certo definire Puerta come un disco anomalo nel panorama jazz odierno ma dobbiamo sottolineare l’assenza di ogni ridondanza e il desiderio, ben avvertibile, di tenersi distanti da ogni feticcio narcisistico che pare comunque non interessare né Rossy né i suoi sodali. Uno scorcio acustico come questo ci permette di accorgerci di come i suoni vengano spartiti senza ingombranti sovrapposizioni, distanziati ad arte e fatti respirare con i loro colori, lasciando all’ascoltatore la facile dinamica di riavvicinarli e ricomporli attraverso l’immaginazione.

Tracklist:
01. Post-Catholic Waltz
02. Taínos
03. Adagio
04. Maybe Tuesday
05. Cargols
06. Scilla e Cariddi
07. Puerta
08. S.T.
09. Ventana
10. Adiós