Gli appassionati del genere conosceranno sicuramente Ralph Alessi ma, a mio avviso, il ruolo di una recensione è anche quello di fare divulgazione. A tal proposito è quanto mai doveroso ricordare che Alessi (classe 1963) è figlio del trombettista classico Joe Alessi e della cantante lirica Maria Leone. È nato a San Francisco e dopo essersi diplomato in tromba e basso jazz ha continuato i suoi studi con il leggendario Charlie Haden al CalArts, prima di sbarcare a New York ed imporsi sulla scena downtown. Alessi è noto anche per il suo lavoro di educatore: ha insegnato in diverse scuole di musica americane, europee ed in Italia collabora con l’amico chitarrista Simone Guiducci. It’s Always Now è il suo quarto album per ECM e per l’occasione Alessi si presenta con una nuova formazione composta dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. L’album, composto da dodici brani, è prodotto da Manfred Eicher, è stato registrato a giugno 2021 negli studi di Artesuono di Stefano Amerio e mixato a dicembre 2022 a Lugano.
Dove Nasce la Musica è una nuova rubrica di Off Topic Magazine che vuole far conosce al grande pubblico le persone che lavorato dietro le quinte delle produzioni musicali e non solo. Con interviste dirette ai protagonisti vi porteremo là, Dove Nasce la Musica. Durante la prima puntata, siamo stati ospiti di Stefano Amerio, uno dei fonici e producer più richiesti a livello europeo per le produzioni jazz. Stefano ci ha raccontato come è nata Artesuono, che non è solamente uno studio di registrazione ma anche un’etichetta discografica con cui ha prodotto centinaia di dischi. Uno dei passaggi più interessanti dell’intervista è il racconto di come sia venuto in contatto con Manfred Eicher ed il mondo ECM con il quale collabora da vent’anni. Se siete appassionati del genere non potete perdervi questa puntata.
È un mondo insolito, quello abitato da Stephan Micus. Forse siamo noi a non accorgerci di quanto la realtà sia eterogenea e composita. Di certo, Micus, ”vecchio” hippy dalla pulsione errante mai sopita, mosso quasi da una genetica wanderlust che lo spinge a viaggiare nei posti più lontani, è da sempre alla ricerca soprattutto di suoni inusuali o comunque non cosi facilmente assimilabili e metabolizzabili dalla cultura occidentale. Dopo venticinque (25!!) album pubblicati a suo nome per ECM, il sessantanovenne musicista di Stoccarda è votato al suono della beatitudine, una musica ottenuta con strumentazione acustica, di tradizione antica, così radicata nei secoli in grado di condurre l’Autore al cospetto di un primitivo sapere, risultato forse d’un insieme di intuizioni che parte dalle radici dell’induismo per transitare attravero religioni e miti orientali, approdando poi, dopo un lungo e ricco viaggio, in Occidente. Micus viene a contatto non solo con le tradizioni e i miti dei paesi che visita, ma soprattutto con gli strumenti musicali che trova – quando non sono gli strumenti stessi a trovare lui! In questo suo ultimo lavoro, Thunder, dedicato alle minacciose divinità dei tuoni in cui hanno creduto – e credono ancora – molti popoli distribuiti dall’Asia all’Europa, Micus utilizza soprattutto tre strumenti particolari. Il primo, di provenienza himalayana, si chiama dung-chen, una sorta di tromba lunga circa quattro metri che viene usata nelle cerimonie buddhiste all’interno dei monasteri. Il secondo è il ki kun ki, uno strumento a fiato lungo un paio di metri, dal suono simile ad una tromba ottenuto soprattutto inalando aria più che soffiarla, costruito con un unico stelo ligneo che cresce in certe foreste siberiane – avrebbe mai potuto trovarsi dietro casa nostra? – ed il terzo è il nahkan, una specie di flauto di provenienza giapponese. Naturalmente questi non sono i soli mezzi che Micus padroneggia perché, oltre a servirsi di strumenti già collaudati, egli utilizza sovraincisioni della sua voce – e questa non è una novità nella sua discografia – riuscendo a creare effetti di canto ipnotici a richiamare a volte echi di formule sciamaniche e liturgiche. Certo Micus non è nuovo per Off Topic e se volete saperne di più potete consultare la recensione del suo disco dell’anno scorso, Winter’s end, che trovate qui. Tenete presente che comunque Micus suona tutto ciò che sia suonabile e gestisce in solitudine, attraverso opportune sovraincisioni, ogni strumento che potrete ascoltare in questo album.
Questo A Short Diary, pubblicato da Sebastian Rochford e Kit Downes, è un epicedio, un’elegia funebre dedicata al padre di Sebastian, Gerard Rochford, prestigioso poeta scozzese morto nel 2019. Si tratta di un lavoro così fragile che andrebbe maneggiato con cura, rimanendo consapevoli non solo della forte matrice sentimentale di cui l’album è impregnato ma anche dello sforzo dell’Autore stesso di metabolizzare, col tempo, la perdita del proprio affetto. I due artisti tracciano un reticolo di decriptazione abbozzato originariamente da Rochford – che non è in realtà un vero pianista ma un ottimo batterista – proprio sul pianoforte del padre, nella vecchia casa della sua infanzia ad Aberdeen. Lasciandosi trasportare dal ricordo, tracciando sulla tastiera solo pochi segni di un percorso melodico che verrà poi arrangiato da Downes, Rochford applica l’arte della sottrazione, quasi si fosse messo all’opera come un maestro zen, scarnificando il cuore della sua musica fino alla fibra primigenia. Le note scivolano sul piano goccia dopo goccia, gli accordi sono momenti di abbandono per costruire un percorso armonico dilatato basato sull’arte del respiro e – paradossalmente – del silenzio. Si ascoltano echi di canzoni infantili, discorsi rimasti catturati tra le mura della casa avita, odori, luci, passioni e sentimenti, tutto il rimescolio di memorie in grado di estrarre dalla trance rimembrante di Rochford un neorealistico codice miniato, un disegno in punta di pennello dove ogni traccia di colore è il risultato di una sintesi, un diario di souvenirs sfogliato con commozione pagina dopo pagina. Come tradizione vuole, Thanatos richiama Eros, la Morte evoca l’Amore in un eterno andamento ciclico che prosegue dall’inizio dei Tempi. Chi sono i due protagonisti coinvolti professionalmente in questo album? Di Kit Downes noi di Off Topic ci siamo occupati a lungo, sia per quello che riguarda una sua performance live all’organo chiesastico in quel di NovaraJazz nel corso di quest’anno – la recensione potete leggerla qui – e anche a proposito del suo album Vermillion, sempre del 2022, che potete invece rintracciate qui. Sebastian Rochford è un apprezzato batterista cinquantenne, scozzese, con alle spalle una cospicua selezione d’incisioni, sia come leader dei Polar Bear, una band di avant-jazz in attività dal 2004, sia come solista sotto lo pseudonimo auto-ironico di Kutcha Butcha, un nomignolo dispregiativo talvolta utilizzato per definire i nati da coppie anglo-indiane come lo stesso Rochfort. Ma è stato anche il batterista dei Sons of Kemet – nominati quia proposito del recente album di Tom Skinner – ed ha collaborato con il sassofonista Andy Sheppard, con Brian Eno & David Byrne, con il pianista Bojan Zulfikarpasic, Rokia Traorè, Patti Smith e molti altri ancora. Ai rispettivi strumenti, Rochford con la batteria e Downes al piano, i due artisti s’inseguono entrambi con comprensione ed empatia soffermandosi sull’idea di ciò che è transitorio, fuggevole e contingente, attraverso una lettura fatta di progressivi rispecchiamenti, immagini nelle immagini in un rincorrersi all’infinito di una vera e propria mise en abyme di figurazioni concatenate.
Un inatteso intreccio di emozioni ci attende al varco quando ci disponiamo all’ascolto di questo Drifting, seconda uscita discografica per ECM di Mette Henriette, trentaduenne sassofonista norvegese. Non ricordo un titolo di album così appropriato, in quanto ‘“andare alladeriva” si è rivelata la sensazione più calzante per descrivere lo stato d’animo globalmente percepito in questo disco. Come quell’emozione di smarrimento appagante che si avverte trovandosi al cospetto di un paesaggio disabitato con lo sguardo che si perde nell’orizzonte della Natura. La prima domanda che un recensore si pone, più per acquietare le proprie ansie tassonomiche che altro, è capire che tipo di musica si troverà ad ascoltare. Sappiamo già in partenza che con le produzioni ECM non è quasi mai facile rispondere a una domanda come questa, talmente tante possono essere le derivazioni e le influenze che s’incrociano nell’operato degli artisti messi sotto contratto per questa etichetta. Diciamo subito che Drifting non s’inquadra certo in una dimensione jazz, nemmeno in quella classica cameristica. Non potremmo parlare di minimalismo e tantomeno di ambient. Insomma, questa musica, evidentemente nuova, lambisce diversi territori senza mai fisicamente accostarne alcuno. La Henriette, come una driade dei boschi, è un’incantatrice di anime, un autentico spirito silvano che crea fugaci illusioni, esperienze ectoplasmiche ed approssimazioni al silenzio, annullando la dimensione incipiente del Tempo. Contrariamente alla maggior parte dei compositori, l’elegiaca stimolazione emozionale di questa Autrice mi sempra che vada oltre la sua biografia personale, al di là della propria esperienza soggettiva. Come uno specchio che raccolga luce ed immagini e le ritorni agli osservatori, così questa musica racconta la profondità di ognuno di noi, stimolandoci ad un viaggio interiore e alla comprensione delle nostre zone d’ombra. I momenti assorti che Drifting propone sono un vero e proprio viatico verso una placida discesa nel nostro Ade personale, alla ricerca di qualcosa che potrebbe trascendere le nostre convinzioni e gli inesorabili limiti che le accompagnano.
La coppia Jakob Bro e Joe Lovano si avventura in questo Once Around The Room-A Tribute to Paul Motian con l’intenzione evidente di omaggiare un compagno di viaggio di lungo corso – specialmente per Lovano che suonò continuativamente con lo stesso Motian insieme a Bill Frisell per almeno dieci anni – facendosi aiutare da altri cinque musicisti, due contrabbassisti come Larry Grenadier e Thomas Morgan e in più Anders Christensen al basso elettrico e i due batteristi Joey Baron e Jorge Rossi. Di quest’ultimo, Off Topic si occupò del suo lavoro Puerta del 2021, se siete interessati potete recuperarlo qui… Questi artisti suonano quasi sempre sovrapponendosi ma senza creare confusioni di sorta, anzi, la sonorità che si ottiene da quest’album pare in complesso tutt’altro che ridondante. Non c’è bisogno che vi ricordi chi era Paul Motian, grandissimo batterista e compositore spentosi nel 2011 a ottant’anni, ma se per caso qualcuno se ne fosse in parte dimenticato vi posso fare tre nomi di pianisti che hanno scritto la Storia del jazz, cioè Bill Evans, Paul Bley e Keith Jarrett. Ebbene, Motian suonò a lungo con questi tre musicisti e fu scelto perchè era un batterista intelligente, che non solo si sapeva integrare perfettamente con loro ma produceva musica a tutti gli effetti, scivolando sui ritmi e rendendo duttile e fluido il suono delle sue percussioni. Il tributo organizzato da Bro e Lovano, non lo nascondo, mi ha in parte sorpreso. A parte i due brani composti da Bro, secondo me i migliori di tutto l’album, molto sentiti e densi di malinconia, gli altri contributi precisamente i primi tre della selezione, vivono di una forma decomposta, spettrale, dove sembra che i sentimenti nostalgici vengano messi volutamente da parte. Sia nel brano iniziale, un’improvvisazione collettiva, sia nelle altre due composizioni a seguire riferite a Lovano, pare che l’oggetto di ricerca debba transitare attraverso un particolare stato psichico, una dimensione medianica della coscienza come se i musicisti cercassero un tramite vibratorio con l’artista scomparso. Più che un vero e proprio tributo sembra una simbolica discesa nell’Ade, almeno nella prima parte dell’album, un girovagare alla ricerca di un’ombra per il bisogno di un vero e proprio contatto mentale con il ricordo di Motian.
Sono sempre un po’ sulle mie quando approccio un disco come questo Affirmation di Arild Andersen Group, lavoro quasi totalmente improvvisato. D’accordo che la stessa improvvisazione è l’anima del jazz e nella Storia della musica saper creare una struttura melodico-armonica estemporanea col proprio strumento è divenuta una pratica assodata attraverso gli anni. Ma non c’è dubbio che applicare questa metodica ad un tema scritto, occupandosi del suo sviluppo e veicolandone spunti ed invenzioni partendo da una partitura data, è cosa ben diversa che impostare l’improvvisazione ex novo, fidandosi delle sola ispirazione del momento e dell’abilità tecnica del musicista. Alle volte, infatti, l’idea si consuma presto trasformandosi in una deriva di senso e di suono. Un lavoro come questo, invece, sfugge ad ogni critica negativa perché la musica che ne risulta mantiene un significato melodico, istintivo ma anche costruttivo ed è una delle rare occasioni in cui il “gioco” dei musicisti non diverte solo chi suona ma coinvolge l’ascoltatore che si sente così partecipato, avvolto in una sorta di magico involucro emotivo. L’oggetto sonoro non è un feticcio a cui aggrapparsi ma si trasforma in un moto dinamico, un’elegia condivisibile dotata di una solida coerenza strutturale e poetica. Ovviamente non tutti i momenti improvvisati hanno le stesso peso, alle volte ci si smarrisce momentaneamente, l’umore talora segue un clinamen poco prevedibile ma quel che resta di valido è la constatazione che l’idea e il pensiero precedano l’azione e che la comprensione delle intenzioni tra i musicisti anticipi il prodotto sonoro. In questo disco del contrabbassista norvegese Andersen, beniamino dell’ECM – ha inciso come leader e co-leader per questa etichetta almeno una quindicina di dischi – l’interplay è quindi conseguente ad una comunicazione empatica, non lo si acquisisce solamente ascoltando suonare gli altri ma quasi entrando in contatto telepatico con ognuno dei componenti, addirittura prima che il loro strumento cominci a cantare. Arild Andersen, nei suoi settantasette anni di vita, si è fatto inizialmente le ossa nello Jan Garbarek Quartet per più di un quinquennio ed il suo primo disco da titolare risale al 1975, Clouds In My Hand, guardacaso pubblicato sempre da ECM. I musicisti che lo accompagnano in questa esperienza sono tutti molto più giovani ed appartengono addirittura a due generazioni successive. Si tratta del pianista quarantasettenne Helge Lien, del coetaneo Hakon Mjaset Johansen alla batteria e il trentaseienne Marius Neset al sax. La sequenza dei brani è suddivisa in due parti, ciascuna delle quali comprende alcuni momenti numerati – quattro per la Part I e tre per la Part II – a cui segue l’ultima traccia, l’unica composizione “scritta” dallo stesso Andersen, Short Story.
I registri narrativi di quest’opera con cui il pianista tedesco Benjamin Lackner esordisce in quartetto per ECM – Lackner è sulla scena da diversi anni con un suo trio fin dal 2002 – sono estremamente lirici, meditati e talora decisamente sognanti. I brani di Last Decade sembrano muoversi in un acquario, fluttuando con i loro colori per trasmettere una sensazione di muta quiete a concentrare il loro focus estetico sugli aspetti più fuggevoli della realtà. Un jazz di struttura dichiaratamente melodica, fatto di sospensioni temporali e di misurati silenzi. Nessun minimalismo in questa musica, ma un’organizzazione strutturale rigorosamente acustica ed espressa con una delicatezza quasi insolita, in questi tempi in cui la ricerca di nuovi suoni, di meticciati stilistici e di supporti strumentali elettronici sembra essere il testo ispirativo di gran parte del jazz odierno. Lackner, nato in Germania e residente attualmente a Berlino, si è trasferito temporaneamente negli Stati Uniti all’età di tredici anni, seguendo importanti studi musicali con maestri del calibro di Charlie Haden e Brad Mehldau. Per la stesura di questo album sono stati chiamati supercollaboratori come il trombettista Mathias Eick, – trovate la recensione del suo ultimo album qui – con Manu Katché alla batteria e il fidato Jérôme Regard, già presente nel trio di Lackner dal 2006. Eick e Katché sono veterani ECM e affiancano il pianista con molta dedizione, contribuendo alla creazione dell’opus elegiaco che caratterizza l’intero album. Lackner è un musicista molto pulito nel suono che potrei accomunare idealmente a Bobo Stenson, accurato e delicato nel tocco, parco nelle dissonanze e molto attento all’equilibrio melodico delle sue composizioni. Non ama le fughe in avanti e in molte parti di questo disco resta volutamente in secondo piano, lasciando ampio spazio alla sonorità suadente della tromba di Eick, qui impegnato anche in alcuni sporadici interventi vocali. Ma questa tendenza alla morbidità si estende un po’ a tutto il quartetto che si muove con passo felpato, alla ricerca di una levigatezza che non è solo di superficie in quanto si avverte come abbia lievitato a lungo nel progetto compositivo basato sulla costante stabilità dell’equilibrio tra le parti. Tutti i brani, ad eccezione di uno solo di Regard, sono composizioni di Lackner.
Non credo esista, attualmente, un altro musicista del calibro di Keith Jarrett capace di un channeling così efficace con il proprio inconscio. Il pianista americano si è sempre raccontato, in solitaria o in formazione, attraverso il suo daimonion fatto di note, anziché di parole. Lo ritroviamo in questo concerto live mai così asciutto, rigoroso, assoluto nel suo sapersi muovere come nessun altro – e ribadisco nessuno – tra brani atonali, melodici, illuminanti ideogrammi sonori, echi di tradizioni lontane, inaspettati romanticismi ed ectoplasmici blues. Jarrett non è solo un jazzista, è un pensatore laterale dal tocco pianistico fatato, cioè un artista che arrivato a questi livelli può permettersi di lavorare sulle armonie aggirandone le logiche pre-costituite per riordinarle, adattandole alle sue umane tensioni interiori, in una forma così elegante e perfetta da ridimensionare fortemente ogni altro suo emulo – e sono parecchi… Ad un compositore come lui possiamo perdonare molte cose, soprattutto quella certa proverbiale bizzosità caratteriale – dato peraltro comune anche ad altri leggendari pianisti come A.B.Michelangeli e G.Gould, ad esempio. E dobbiamo anche saper considerare le dolorose traversie personali dovute ad uno stato di salute spesso precario, non ultime le conseguenze di un ictus recidivo che attualmente gli impedisce di suonare. Questa registrazione ECM, Bordeaux Concert, riporta l’esibizione finale della sequenza di apparizioni compiute in Europa nel 2016. Off Topicsi era già occupata del precedente lavoro, il Budapest Concert uscito nel 2020 – troverete la recensionequi – che a sua volta avevaseguito Munich 2016, altra tappa del tour europeo dello stesso anno. Chissà se ECM pubblicherà, prima o poi, le altre due serate di quella medesima avventura che si svolsero a Vienna e a Roma.