R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Dato che viviamo in una società incoerente, anziché razionale, oggi dobbiamo stare attenti persino nel compilare una semplice recensione musicale. Spesso i metalinguaggi si sovrappongono, s’incrociano e si confondono l’un l’altro aumentando la babele interpretativa. Se infatti di questi tempi parlando di un autore russo si rischia di essere definiti filo-putiniani, cosa potrebbe succedere commentando l’album di un pianista israeliano? E ovviamente il discorso può essere girato dall’altro capo, qualora il musicista in questione fosse palestinese o ucraino. L’esempio interculturale della West Eastern Divan Orchestra del maestro Barenboim avrebbe dovuto pur insegnare qualcosa… Nitai Hershkovits, pianista israeliano trentacinquenne, figlio di madre marocchina e padre polacco, è già, di per sé, geneticamente parlando, un ponte tra culture diverse. Il suo percorso formativo è stato differente da quello della maggior parte dei suoi colleghi. Solitamente, soprattutto nel caso dei pianisti, s’inizia con studi classici per poi orientarsi verso sonorità più contemporanee, come ad esempio il jazz. Invece, con Hershkovits, il cammino si è realizzato al contrario in quanto l’approdo alla musica classica è avvenuto in un secondo tempo rispetto all’interesse per il jazz. In questo ultimo Call on the Old Wise pubblicato da ECM – nonostante l’esordio per questa etichetta, il pianista israeliano ha già quattro album da titolare alle spalle – la componente più evidente, direi anche in modo preponderante, è proprio quella della matrice classica. A dire il vero Hershkovits si era già scoperto, da questo punto di vista, come un musicista assai vicino alla tradizione così detta colta della musica occidentale tipicamente europea e a questo proposito basta ascoltare Lemon the Moon del 2019 ma ancor più New Places Always, opera splendida del 2018 che suggeriva un cambio direzionale rispetto ai lavori precedenti, più orientati verso formule jazz-fusion o addirittura nu-jazz come si può ascoltare ad esempio in I Asked You a Question (2016).

Ma non dobbiamo dimenticare che la gavetta di questo artista si è formata soprattutto con l’esperienza nell’Avishai Cohen Trio, partecipando a tre album dal 2012 al 2015, e attraverso anche la collaborazione con Oded Tzur, del quale, dall’ultimo lavoro Isabela, potete recuperare la recensione leggendola qui. Il titolo dell’album e inoltre almeno tre brani in scaletta sono dedicati all’insegnante di piano di Hershkovits, Suzan Cohen, che evidentemente deve avere ben forgiato le chiarezze armoniche del suo allievo, dato che trasparenza e liquidità sono caratteristiche preponderanti di questo album per piano solo. Il musicista israeliano lavora con un tocco pianistico raffinato, facendo dell’improvvisazione tonale quasi un manifesto strutturale, muovendosi soprattutto tra le ombre rimarchevoli di Debussy, Ravel, Rachmaninov, Scriabin. Ma Hershkovits non è un imitatore passatista, non dobbiamo pensare che vi siano capziosi nessi tra gli illustri riferimenti ispirativi e il prodotto della sua musica. La modalità espressiva, per lo meno come si ascolta in questo ultimo lavoro, non solo viaggia su canali legati al mondo classico, almeno per quello che riguarda le sue composizioni – sedici su diciotto – ma racconta la misterica fragranza di un Altrove meditato, compenetrato nel sentimento puro e lirico dell’Autore dai contorni spontaneamente impressionisti. Hershkovits non si cala tanto nel Profondo ma danza elegantemente sulla superficie, riuscendo a mantenere una certa flessibilità espressiva e dando uno sguardo interessato ma fuggevole a ciò che scorre sotto il pelo dell’acqua. Le sue forme sonore, infatti, appaiono talora melodicamente essenziali, sconfinando in toni velatamente fiabeschi ma altre volte sembrano maggiormente dirette alla ricerca di una sostanzialità oltre l’immediato livello percepibile della realtà. E in effetti, al di là del velo dell’apparenza, di fronte a Hershkovits sembrano spalancarsi visioni contemporanee di luoghi e tempi diversi, in un continuo pendolarismo tra vecchio e nuovo, tra dentro e fuori, notte e giorno. Volendo fare un raffronto con un pianista italiano, il primo nome che mi viene in mente è quello di Dino Rubino, con il quale – vedi le recensioni di Off Topic qui e qui – personalmente vi trovo molte affinità elettive.

I brani che riempiono l’album, come sopra detto, sono diciotto, alcuni piuttosto brevi tanto da sembrare note appuntate in cerca di futuro sviluppo, ma in realtà l’ascolto globale di tutti i brani può regalare l’impressione di una certa omogeneità e unità d’intenti, quasi come se l’idea basilare fosse quella di una sola, lunga improvvisazione tematica, un unico boquet di fiori dai diversi profumi. Si inizia con The Old Wise, un arpeggio colorato di note con qualche tinta brunita. Sembra in un primo momento di essere di fronte ad un impianto modale ma ben presto ci si allontana dalla base fondamentale per avventurarsi in una serie cangiante di cerchi tonali sorretti da sottili tensioni centrifughe. Le dissonanze vengono disseminate con accortezza in una congerie di elementi distribuiti tra accordi gravi e squillanti sfarfallii di note acute. Il brano dimostra più che altro il desiderio di esprimersi in termini di un pianismo contemporaneo, difficilmente etichettabile. Enough to Say I Will è uno tra i pezzi più dichiaratamente francesi, in cui si coglie l’idea dell’impressionismo degli autori fin de siecle. Accordi pescati in un labirinto sedimentato di immagini mentre alcune frasi sembrano quelle di Nino Rota a commento di inedite opere felliniane. Il brano si sviluppa zampillando note dove la mano destra indugia su passaggi in tonalità maggiore dal sapore quasi giapponese e la sinistra rimanda, con le sue note più basse, al silenzio e all’oscurità. In Mode Antigona ritorna protagonista l’arpeggio, questa volta più incalzante, con scale che si muovono saltando di tono in tono. L’aspetto rilevante è che Hershkovits dà sempre l’impressione di avere un certo controllo ottimale della tastiera, pur consentendo nelle sue dita una duttile tendenza escapista, nonostante il finale che mi sembra chiuda in modo un po’ approssimativo. Of Trust and Remorse rimanda maggiormente ad Erik Satie o anche alle creazioni suggerite da Gurdjieff. Il brano possiede una dolcezza evanescente, tutta lavorata in un insieme di note raccolte che sembrano distendersi in un’atmosfera medio-orientale, per poi tornare a racchiudersi nel complesso finale emotivamente denso di rimpianto. Intermezzo n.3 è uno di quei brevi appunti che spesso ritornano sotto le mani dell’Autore, con un andamento più eclettico ed estroverso, animato da improvvise scale ravvicinate e da un tono generico che pare prendere le distanze dai climi francesi fin qui sperimentati. Majestic Steps Glow Far si sviluppa in larga parte in forma modale con un bordone di note gravi in Re maggiore che sostengono un’improvvisazione questa volta a mezza strada tra jazz e riferimenti classici. Una melodia dall’incedere rachmaninoviano sembra potersi concedere a lungo l’improvvisazione ancorata alla tonalità di base, fino a quando l’imprevedibile pianista non sposta l’asse verso un approccio sonoro alla Tigran Hamasayan. Più jazz, quindi, in questo brano? Direi 50 e 50. Dream Your Dreams è una composizione di Molly Drake, madre del più noto e celebrato autore inglese Nick. Il brano si snoda attraverso una melodia dal sapore popolare, un motivo sgusciante che sembra quasi la rivisitazione di un tema ottocentesco dalla filigrana molto casalinga ma che sotto l’inventiva di Hershkovits si trasforma in una rispettosa divagazione di carattere jazzy.

Con Placid in Africansque si esce dall’umore classicista, o almeno si tenta di farlo, mostrando una fodera più contemporanea e personale al di sotto dell’abito ufficiale. I temi si fanno più instabili e misteriosi e la struttura melodica segue una strada meno prevedibile. Con la delicatezza d’una farfalla, Hershkovits insegue i suoi voluttuosi dettagli sonori creando un’intima cronaca emozionalmente comunicativa. Mode Brillante sembra una meditazione su Debussy, bell’appunto en passant ma che muore lì dov’è, anche perché piuttosto breve. Single Petal of a Rose è di Duke Ellington e ne conserva in pieno tutta la sua bellezza ma Hershkovits sembra volervi aggiungere una sensibilità quasi femminea alla Billy Srayhorne, con i tasti appena sfiorati che testimoniano la qualità, non così scontata nel pianismo jazz, del suo tocco. Il brano faceva parte di The Queen Suite, un gruppo di sei canzoni scritte con l’aiuto proprio di Strayhorn nel 1958 in onore della Regina Elisabetta. Questa suite fu stampata in un’unica copia e donata direttamente alla sovrana ma la si può ascoltare nell’album The Ellington Suites del 1976. La mano del Duca è più sbrigativa ma la versione di Hershkovits è piena di interrogazioni nascoste e di vibranti ideogrammi sonori. Gran brano! A Rooftop Minuet è inizialmente un valzer di vetro che poi si muove secondariamente con passo volutamente più pesante, ben reso dalla mano sinistra che lavora sulla tastiera grave. Sembra di assistere a un ballo condotto tra un’elegante e leggiadra dama e uno sgraziato cavaliere che le calpesti i piedi. Late Blossom è una gioiosa esperienza di colore, uno tra i brani più belli dell’album. Anche in questo caso, come nel brano precedente, ad un certo punto la tastiera del piano pare dissociarsi in due metà, con note basse più pesanti e altre più acute e cristalline che sembrano cercarsi, sfuggirsi e infine ritrovarsi nel finale. L’Intermezzo n.4 è una breve rincorsa con un po’ di fiatone dove linea di bassi e mano destra continuano nel loro gioco a rimpiattino. In Satin è come fosse un altro intermezzo più rarefatto segnato da un’antifonia tra due linee melodiche appena accennate ed un po’ spettrali. This You Mean to Me si libra con un’eleganza esangue, come un discorso timido, una confessione amorosa. L’Autore si gioca ora le sue carte lavorando su un’estrema rarefazione sonora, centellinando le note con parsimonia e con pochi accordi ma funzionali al senso discreto della composizione. Of Mentorship s’allinea più smaccatamente, pur nella sua brevità, a una forma di jazz be-bop quasi inaspettato nel clima globale di questo album. For Suzan, dedicato alla sua insegnante e mentore, è poco più di un frammento appuntato con grazia, calato quasi in un’atmosfera new-age e costruito su un accompagnamento ostinato sgranando le singole note di un cluster. River Wash Me è uno splendido blues, non così canonico nel suo accompagnamento come potrebbe apparire dalle prime battute.

L’affascinante excursus timbrico di Hershkovits si muove attraverso una serie di armonizzazioni che spaziano lungo un arco d’ispirazione temporale molto vasto, in modo particolare partendo dal periodo tra fine ‘800 e inizio ‘900 fino ai giorni nostri. l’Autore si propone con una scrittura a tratti piuttosto derivativa ma che s’indirizza comunque verso uno stile personale, temerario nell’andare controcorrente con sonorità garbate e morbide, utilizzando il jazz senza diventarne troppo dipendente. Il talento di questo pianista, in definitiva, si allontana dalle trappole del tecnicismo e da quelle peggiori del sentimentalismo, riuscendo a mantenersi sempre versatile e padrone di un profilo melodico-armonico delicatamente inconsueto.

Tracklist:
01. The Old Wise (2:48)
02. Enough To Say I Will (3:14)
03. Mode Antigona (2:17)
04. Of Trust and Remorse (2:47)
05. Intermezzo No.3 (2:27)
06. Majestic Steps Glow Far (4:12)
07. Dream Your Dreams (3:59)
08. Placid In Africansque (3:52)
09. Mode Brilliante (1:16)
10. Single Petal Of A Rose (3:29)
11. A Rooftop Minuet (3:48)
12. Late Blossom (3:26)
13. Intermezzo No.4 (1:46)
14. In Satin (1:23)
15. This You Mean To Me (2:56)
16. Of Mentorship (1:53)
17. For Suzan (1:52)
18. River Wash Me (2:42)