R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Le note stampa che accompagnano questo Isabel, seconda uscita ECM per il tenorsassofonista Oded Tzur (e quarto disco finora pubblicato a suo nome), insistono molto sul concetto di “raga”, cioè quella struttura melodica della tradizione classica indiana basata su note ulteriori rispetto a quelle presenti in una usuale scala cromatica. Se in Occidente l’intervallo minimo tra due note è un semitono, il raga introduce il senso del “microtono”, cioè un intervallo musicale ancora più piccolo da cui originano quelle note che come diceva il compositore americano Charles Ives, stanno ”tra le fessure dei tasti del pianoforte”. Va da sé che intonare una scala che comprenda anche i microtoni diventa un’impresa piuttosto complessa. Ascoltando il suono del sitar o i melismi del canto tradizionale indiano, si ascoltano questi “scivolamenti” tra una nota e l’altra, come fosse un ondeggiare continuo dello strumento o della voce che dir si voglia. Per la verità anche in Occidente si è lavorato coi microtoni, seppur in modo meno eclatante. Riferendoci ad esempi semplici possiamo pensare al “bending” usato dai chitarristi, o ai suoni elettronici di un oscillatore Moog o ancora di un Theremin. Ma quello che per noi occidentali è poco più che una scelta occasionale, nella musica indiana è la norma. Lo sa bene Oded Tzur, nato a Tel Aviv ma residente a New York che imparò i segreti microtonali a Rotterdam, direttamente dal maestro indiano Hariprasad Chaurasia, virtuoso del bansuri, il flauto traverso della tradizione orientale suonato dalle divinità Krishna e Ganesh. Un esempio di queste “strane” note intermedie – quarti ed ottavi di tono – Tzur lo offre soprattutto nel breve pezzo in apertura di questo album, Invocation, dove il sax tenore sembra talora perdere le sue caratteristiche sonore per assumere quasi quelle di uno stesso bansuri. In realtà Tzur non abusa affatto di questi microtoni e nel contesto generale dell’album tende ad esprimersi come un musicista di jazz-blues che danzi tra le note, mescolandosi alla costruzione melodica del raga così come a certi riferimenti più classicheggianti di stampo occidentale. Si realizza, quindi, una soddisfacente sintesi tra due modelli culturali, senza che uno prevalga sull’altro e bisogna sicuramente affermare come tale operazione realizzata in Isabel sia molto ben riuscita, tanto che mi sento di posizionare questo disco tra le migliori uscite discografiche dei primi cinque mesi dell’anno. Non ci sono istanze intellettualistiche, non ci sono forzature. La musica scorre piacevole, ben fruibile in una suggestiva, magica foschia contestualizzata a questa trama musicale dai toni bruno-dorati. Tzur suona il suo strumento con grazia, le sue scale appaiono circonfuse di velate malinconie ma anche ricche di tranquille passioni, come se Isabel fosse l’oggetto di una continua, sentimentale dedica amorosa.

Assieme al sassofono di Tzur suonano il contrabbasso di Petros Klampanis, il pianoforte dell’israeliano Nitai Hershkovits e la batteria del grande Jonathan Blake. Un ensemble magnificamente affiatato che scioglie le sue note attraverso una sequenza limitata di cinque brani.
Invocation apre l’album e come già introdotto poco sopra, Tzur ci regala un piccolo, breve saggio del lavoro sui microtoni. Una tensione controllata, poche note di sax e un brontolio temporalesco sul finale operato da Blake e dai suoi tamburi. Noam s’adagia su una semplice e suggestiva melodia di grande respiro impostata dal sax che più che un canto di per sé pare un salmodiare lento ed espressivo. Il piano accompagna il tutto con qualche nota delicata e poi, lentamente, il brano aumenta la sua dinamica, il sax prende quota fino ad evocare il ricordo dell’ultimo John Coltrane, dando l’impressione di poter deviare verso il free da un momento all’altro. Ma accade, a questo punto, l’inaspettato. Siamo circa a metà brano e quando ci sembra di poter prevederne l’intero rimanente sviluppo succede che la musica si scioglie, si apre, si vaporizza, diventa qualcosa d’altro. Pare quasi che le note sfuggano le une rispetto alle altre con un senso di sollievo reciproco, come delle farfalle liberatesi improvvisamente da una rete. Il ritmo incespica su sé stesso, gli strumenti si allontanano tra loro e resta il piano che dopo un po’ lentamente ritorna sui suoi passi e riprende la melodia iniziale, seguito dal sax fino alla chiusura. Un brano di grande bellezza quindi, ma altrettanta, ne riscontriamo in The Lion Turtle. Anche in questo caso è il sax che disegna la melodia, un poco più sommessa rispetto a quella del brano precedente, con il piano che contrappunta in scala misolidia mostrando il discreto incedere che lo caratterizza, mai sopra le righe. Un soffuso accompagnamento di batteria e contrabbasso partecipa a colorare la musica di suggestioni più occidentali, diciamo medio-orientali, rispetto ai riferimenti originari della cultura indiana. L’assolo significativo di contrabbasso, giocato su toni quasi bisbigliati, precede un susseguente momento pianistico molto rasserenante, colmo di tranquillità interiore tra brevi scale ed arpeggi eterei come venissero suonati da un’arpa. Quando riprende, il sax si manifesta con tono quasi flautato e solo nel finale tende ad inasprire leggermente la propria timbrica.

Il clima si fa ancora più morbido, al limite della trance ipnagogica, con Isabel, che trasmette una sensazione di abbandono sensuale, intimo, come in un gioco di sguardi e di confidenze interiori che pian piano vengono liberate con pudore tra un sussurro e l’altro. L’andamento è lentissimo ma la musica cola lentamente come un magma denso dalle pendici d’un vulcano, si sente che tutto questo proviene da un fuoco che arde ancora nell’interno. Grande incrocio tra sax e piano ma bisogna dire che tutto il gruppo si muove come un corpo unico, un passo dopo l’altro ma attento a camminare in punta di piedi. Il piano si fa più debussyano, ci si allontana dalle pregresse influenze orientali per trovar casa in un contesto di rarefazione sonora che arriva fino quasi all’inudibile. Da qui in poi tocca al sax aumentare le dinamiche e trascinare con sé gli altri strumentisti in un finale struggente, prima di chiudere ritornando al modo flebile e toccante che avevamo ascoltato all’inizio del brano. Un po’ più di movimento e di frizzantezza nell’ultimo pezzo in sequenza dal titolo poetico, Love Song For the Rainy Season. Nonostante il sax esordisca sempre con quel suo tono ovattato, il tambureggiare sui piatti della batteria prelude ad una visione più vivace, dove sembra di avvertire piano e batteria simulare pioggia e tuoni. Il piano si avventura in un assolo interessante condotto sulla ripetizione di grappoli di note ravvicinate. È il momento dei commiati, contrabbasso prima e batteria poi sfogano le loro dinamiche eventualmente represse con momenti intensi, prima che il sax – più bluesy che raga – si prenda le ultime battute planando sul potente drumming di Blake.
Un esempio di compostezza formale, questo album, oscillante tra Occidente ed Oriente e che racconta quindi meditazioni solitarie e ruminazioni jazz, dove la tradizione del raga viene presa a prestito ma non in modo sfacciato né provocatorio. Una musica che lascia una scia di serenità e compostezza, carezzevole nel suo modo di porsi, inebriante nei suoi momenti di appagato abbandono.
Tracklist:
01. Invocation
02. Noam
03. The Lion Turtle
04. Isabela
05. Love Song for the Rainy Season
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