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Jazz

Sun Ra – At The Showcase: Live in Chicago 1976-1977 (Elemental Music, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Alessandro Tacconi

Tempo di celebrazioni per il padre del cosmic jazz e della sua orchestra interplanetaria: Herman Poole Blount aka Sun Ra. Nel mese di maggio ricorre infatti la nascita, il 22 del 1914, e la dipartita verso dimensioni altre, il 30 del 1993, del nostro. Le stesse di cui ha sempre suonato e declamato nelle numerosissime registrazioni dal vivo e in studio. Di questo gigante del jazz è stato scritto e discettato in lungo e in largo, come se le latitudini musicali oltre le quali si è spinto avessero bisogno di alcuni confini entro cui poterlo circoscrivere. Nella sua lunghissima carriera ha attraversato vari generi: dallo swing al bebop, dall’hard bop al free jazz fino al cosmic jazz di cui fu il vero e proprio iniziatore (a detta di diversi critici musicali). Lo stile pianistico è in parte debitore a due colossi dello strumento: Thelonious Monk e Cecil Taylor. Fu uno dei primi jazzisti a sperimentare dalla fine degli anni Sessanta nelle sue composizioni il sintetizzatore, le tastiere elettroniche e il mini moog. La discografia è praticamente sconfinata sia in studio ma soprattutto dal vivo: oltre una sessantina le uscite ma in aumento, come dimostra questa novità discografica: Sun Ra At the Showcase: Live in Chicago.

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Arild Andersen / Daniel Sommer / Rob Luft – As Time Passes (April Records, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Forse As Time Passes, creazione liquida del trio Andersen-Sommer-Luft, potrebbe non essere per tutti l’album da portarsi sull’isola deserta. Ma per quello che mi riguarda ce lo porterei comunque, non solo per la seducente bellezza della musica ma anche per quelle due importanti citazioni riportate sul retro di copertina. Si fa riferimento allo scorrere del Tempo, come s’intuisce dal titolo dell’opera. Da una parte la saggezza del filosofo Eraclito di Efeso, “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, perché l’acqua in cui ti sei immerso è già fluita via” e che suggerisce il continuo divenire della vita. D’altro canto, nell’esergo di T.S.Eliot tratto dai suoi Four Quartets, si dichiara che “il tempo presente e il tempo passato sono forse entrambi presenti nel futuro e il tempo futuro è contenuto nel passato…”. annullando con un semplice paradosso il significato dell’inevitabile decorso temporale. Comunque sia, questa di As Time Passes è musica che sembra voler travalicare tutte le categorie kantiane, tempo e spazio prima d’ogni cosa. Il fatto che i musicisti di questo trio provengano dall’Europa del Nord – Norvegia, Danimarca, Inghilterra – non è indicativo per definire nello specifico il loro lavoro. Prima di tutto perché il genere melodico e riflessivo in cui questi artisti s’impegnano non segue certo degli assoluti riferimenti geografici. Secondariamente per via del fatto che l’album è colmo di risonanze emotive e sentimentali che provano a tracciare un percorso originale, sfruttando le personalità espressive dei singoli e cercando di svincolarsi con naturalezza da influenze esterne di natura ambientale o sociale per seguire un’onda di pensieri per lo più pacatamente introvertita.

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Chet Baker & Jack Sheldon – In Perfect Harmony: The Lost Album (Elemental Music, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Aldo Pedron

Chesney Henry “Chet” Baker, Jr. aka Chet Baker, per chi non lo sapesse è stato uno dei più grandi artisti, musicisti, trombettista, flicornista, cantante e compositore statunitense. Tra i principali esponenti del genere conosciuto come “cool jazz”. Noto per il suo stile lirico e intimista, nasce a Yale, Oklahoma il 23 dicembre 1929. Una vita travagliata, impossibile, genio e sregolatezza, musica e droga, prigioni, droga e ancora musica. Quando la famiglia emigra in California, Chet ha appena 10 anni. Il padre é un suonatore di banjo dilettante ma ammiratore di Jack Teagarden e gli regala un trombone. Chet, affascinato all’epoca da Harry James, si affretta a scambiarlo con una tromba. Ancora assai giovane è nell’orchestra della scuola, a Glendale, California. Diventerà uno dei trombettisti, più importanti, più influenti di tutti i tempi. Un trombettista dalla delicatezza, dalla fragilità, dal soffio e dall’incrinatura originale e unica. Le sue esecuzioni sono imperniate sulla ricchezza melodica e dalla ricerca dell’effetto e lo sfoggio di citazioni e improvvisazioni al tempo stesso. La sua voce, struttura evanescente che avvolge la melodia, si dispiega fino al limite estremo. Fortissimo nell’improvvisazione, nello scat che diventa complemento della sua stessa tromba.  

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Enzo Favata – Os Caminhos de Garibaldi (Caligola Music, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Alessandro Tacconi

“È sempre la storia di Socrate, di Cristo e di Colombo!
Ed il mondo rimane sempre preda delle miserabili nullità che lo sanno ingannare.”
Giuseppe Garibaldi

Correva l’anno 2011. Anno di celebrazioni e di unitarietà. Anno in cui l’Italia tutta ricordava il proprio “eroico passato unitario” di 150 anni prima: stretti a coorte e pronti alla morte quando l’Italia chiamò. Così nell’anno del signore 2011 quanti spettacoli teatrali, reading, tavole rotonde e recital, concerti e rievocazioni storiche. Quanti di questi eventi dall’agro odor di marchetta, fatti apposta per… assemblati in fretta e furia con troppa poca anima.
Ma trai mazzi e ciuffi di eventi tricolore, una perla rara è stata riportata in superficie 13 anni dopo la sua registrazione: Os caminhos de Garibaldi. Il progetto ideato, musicato e arrangiato già nel 2010 da Enzo Favata con la collaborazione di Alfonso Santimone intorno alla figura, anche controversa, di Giuseppe Garibaldi.

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Bruno Montrone – Unaware Beauty (A.Ma Records, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

In una video intervista che circola su YouTube, il pianista barese trentasettenne Bruno Montrone afferma candidamente di essere stato colpito già in età giovanile dal morbo del jazz. Questa patologia deve far parte certamente di quel raro gruppo di malattie che guariscono, anziché ammalare, pur condizionando per sempre la vita di un individuo. E quindi siamo ben felici che un musicista come Montrone sia stato travolto da questa affezione perché, se il risultato è un album come Unaware Beauty, potremmo tranquillamente aspettarci in futuro nuove, intriganti sorprese. Precisiamo che il lavoro di cui ci accingiamo a scrivere è l’esordio discografico dello stesso Montrone in veste di titolare. Ancora una volta la Puglia, sicuramente per merito di qualche ingrediente dietetico misterioso, si dimostra terra di musicisti, forse la più prolifica d’Italia. Ma anche regione di ormai storiche etichette discografiche tra le quali Dodicilune o, in questo caso specifico, A.Ma Records, vere e proprie benefattrici culturali per quello che riguarda la diffusione della musica e in modo particolare del jazz. Montrone ha studiato e si è diplomato al conservatorio Piccinni di Bari. Leggo tra le sue note biografiche alcune collaborazioni con importanti nomi italiani – Piero Odorici, Max Ionata, Fabrizio Bosso, Gianni Basso, Enrico Rava e molti altri – e anche con artisti stranieri di rilievo. In più, il pianista pugliese deve aver avuto anche un buon fiuto nello scegliere i propri collaboratori realizzando il suo album.

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Melissa Aldana – Echoes Of The Inner Prophet (Blue Note Records, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Difficile tracciare la nosografia d’una passione, se consideriamo quest’ultima una sorta di malattia così come la descrivevano i filosofi antichi. Ma se invece la valutiamo come una scossa profonda innescata dal desiderio, una pulsione che arricchisca e scuota motivando l’individuo verso una direzione ambita, allora il concetto di pathos acquisisce un valore più profondo e positivo. La stessa importanza che in quest’ultimo Echoes of the Inner Prophet riguarda la tenor-sassofonista Melissa Aldana, avvolta, come lei stessa ammette, da una forma di trasporto devozionale verso la figura artistica di Wayne Shorter. Se nel precedente 12 Stars – leggi qui – l’Autrice cilena dimostrava la sua completa integrazione nel clima musicale newyorkese, in questo settimo album in carriera la presenza spirituale del maestro del New Jersey diventa l’occulta guida a condurne l’ispirazione, affidandole il testimone della propria continuità creativa. Raramente, almeno in questi ultimi tempi, ho avuto l’opportunità di ascoltare una musicista come l’Aldana che in questo album sembra realmente essere la naturale erede di Shorter. Pare quasi che il suo particolare modo di suonare, cercando spazi intervallati tra note spesso molto distanti, in un continuo sali-scendi di sonorità tese ma sempre piuttosto morbide e umorali, insomma lontane da ogni forma di manifesta aggressività, riveli un’atmosfera virata all’oscurità, una direzione interiore quasi auto-analitica finalizzata alla ricerca di Sè.

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Cannonball Adderley – Burnin’ In Bordeaux Live in France 1969 & Poppin’ In Paris Live At L’Olympia 1972 – (Elemental Music, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Aldo Pedron

Julian Edwin “Cannonball” Adderley è un’importante e fondamentale sassofonista (contralto e soprano) nato a Tampa, Florida il 15 settembre 1928.

Nato da padre cornettista, studia musica presso il liceo di Tallahassee dal 1944 al 1948 e apprende a suonare il flauto, la tromba, il clarinetto e la viola prima di dirigere un’orchestra alla Dillard High School di Fort Lauderdale dal 1948 al 1950 e dove un suo compagno, il batterista Lonnie Haynes, gli affibbia, a causa della sua mole e del suo appetito, il soprannome di “Cannibal” (cannibale), che diventerà “Cannonball” (palla di cannone). Nel 1955 parte per New York dove arriva dopo pochi mesi dalla morte di Charlie Parker e prendendone in un certo modo la sua eredità artistica nonché una certa influenza. Cannonball ottiene presto un contratto discografico con la EmArcy. Nel 1956 fonda con il fratello Nat un quintetto che nel 1959 si trasformerà in un sestetto. Nel frattempo, lavora e suona con Miles Davis e accanto a John Coltrane. Incide l’album The Cannonbal Adderley Quintet in San Francisco featuring Nat Adderley (Riverside Records, 1960) che gli assicurerà il grande successo. Le formazioni di Cannonbal Adderley vedranno sfilare alcuni dei migliori musicisti del momento: Hank Jones (nel 1958), Bill Evans (1958 e 1961), Wynton Kelly (1959-1961), Victor Feldman (1960-1961) e molti altri.

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Avishai Cohen Quartet @ Spazio Le Rotative, Piacenza 05.04.24

L I V E – R E P O R T


Articolo di Paola Tieppo, immagini sonore di Claudio Chimento

Per la terza volta quest’anno sono stata presente, con grande piacere, alla XXI edizione del Piacenza Jazz Fest e l’occasione è stata l’ultima serata del cartellone principale, ma ricordo che sono in corso altri eventi interessanti fino al 30 aprile, non a caso, essendo la Giornata Internazionale del Jazz. Anche quest’ultimo appuntamento, come il mio precedente, riguardava un quartetto molto ‘quotato’ e molto atteso: fin dal 2020 quando, già programmato, fu annullato tutto causa pandemia. Come in tante situazioni, questo ha generato ‘pro e contro’: il ‘contro’ è chiaro, ma il ‘pro’ è che in questi quattro anni altra musica è stata creata, scaturita anche da consapevolezze diverse, ed è diventata ulteriore sorgente per la performance a cui ho avuto la fortuna di assistere. Quindi: il Quartetto era quello del trombettista Avishai Cohen, israeliano di nascita e newyorkese di adozione, come lo sono anche il contrabbassista Barak Mori ed il batterista Ziv Ravitz, mentre il pianista Yonathan Avishai, conterraneo ma stabilitosi da molti anni in Francia, è definito “il più francese dei virtuosi israeliani”.

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Fred Hersch – Silent, Listening (ECM Records, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Nicola Barin

C’è una frase che può riassumere meglio di altre il nuovo progetto del pianista americano Fred Hersch, ed è il titolo della sua biografia: Good Things Happen Slowly. Il pianista di Cincinnati all’età di 68 anni ci regala un altro progetto in piano solo, un album che esalta le atmosfere notturne e umbratili. Ognuno di noi incontra musicisti con i quali trova, per motivi oscuri, una sorta di sintonia particolare, una costante empatia, una folgorazione. La mia con Fred Hersch è avvenuta con l’album The Fred Hersch Trio +2 del 2004. Con un amore verso la lezione di Bill Evans l’artista ha saputo far confluire e distillare un timbro unico e irripetibile creando il miglior piano trio attualmente in circolazione (insieme a John Hébert al contrabbasso e Eric McPherson alla batteria). Il pianismo di questo artista si insinua lentamente, si fa strada con garbo senza stravolgimenti, ad un primo ascolto, successivamente le sensazioni mutano, ascoltate la versione di Bemsha Swing di Thelonious Monk tratta dal Live al Village Vanguard del 2003: la pulsazione ritmica è possente, lo swing scorre con ferocia.

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