A tre anni dal suo quarto disco, A Peaceful Place, il percussionista barese Pippo D’Ambrosio si ripresenta al pubblico con il concept album Beyond The Sky, edito dalla A.MA. Records di Antonio Martino. Beyond The Sky è un album tematico che esplora l’ordine imposto dall’universo accostandolo al caos provocato dagli umani sulla terra. Pippo D’Ambrosio ha creato un lavoro che fonde la sua batteria, le tastiere di Eugenio Macchia, il contrabbasso di Giorgio Vendola e il sassofono contralto di Gaetano Partipilo in un viaggio cosmologico in cui il jazz è alla base dei groove in tutte le sue dieci tracce.
Gli australiani Necks, dopo 35 anni dalla loro nascita come trio, giungono ora al diciannovesimo disco in studio, Travel, immersi come sempre nella misteriosa aura magnetica che emana dalla loro musica. Ci troviamo di fronte ad una band minimalista che presenta una buona dose di enigmatiche ossessioni risolte attraverso una strumentazione essenziale, magari con l’aggiunta di qualche sporadico intervento in fase post-produttiva. In termini psichiatrici potremmo definire l’agire di questo trio come una manifestazione collettiva di un disturbo ossessivo compulsivo, in cui ogni tema viene reiterato in un asintoto tendente all’infinito, servendosi di una scrittura che più essenziale non sarebbe possibile. C’è rischio di smarrirsi, ascoltando queste note, per via di una perdita progressiva del normale stato di coscienza dovuta ad un sopravvenuta e inaspettata condizione di trance. Da un certo punto di vista non c’è niente di così nuovo sotto il sole e infatti, anche se qualcuno evoca gli spettri nobili di La Monte Young o di Steve Reich, personalmente direi che i Necks si avvicinano di più a certi sciamanesimi dei Can – che però avevano un tocco più lieve – o dei tedeschissimi Neu. Tecnicamente si tratta di cellule improvvisative molto semplificate – ma non troppo! – su cui s’interviene con minimi scarti provocando un progressivo inabissamento dell’attenzione, non senza aver rescisso il cordone ombelicale con l’assetto psichico ordinario per entrare in uno stato alterato simil-ipnotico. Ancor più specificamente, i Necks lavorano seguendo uno sviluppo modale, cioè facendo musica su un’unica scala e in modo più esplicito, nel loro caso, su una sola tonica o quasi. Volendo fare gli avvocati del diavolo potremmo dire che questo è senz’altro il metodo più semplice per improvvisare, in quanto viene meno l’obbligo di tener dietro ai cambi di tonalità che normalmente si susseguono in quasi ogni tipo di musica, in particolar modo nel jazz. Ma non vorremmo essere troppo riduzionisti semplificando eccessivamente il lavoro dei Necks che sembra, in apparenza, più facile di quanto effettivamente non sia.
Gli appassionati del genere conosceranno sicuramente Ralph Alessi ma, a mio avviso, il ruolo di una recensione è anche quello di fare divulgazione. A tal proposito è quanto mai doveroso ricordare che Alessi (classe 1963) è figlio del trombettista classico Joe Alessi e della cantante lirica Maria Leone. È nato a San Francisco e dopo essersi diplomato in tromba e basso jazz ha continuato i suoi studi con il leggendario Charlie Haden al CalArts, prima di sbarcare a New York ed imporsi sulla scena downtown. Alessi è noto anche per il suo lavoro di educatore: ha insegnato in diverse scuole di musica americane, europee ed in Italia collabora con l’amico chitarrista Simone Guiducci. It’s Always Now è il suo quarto album per ECM e per l’occasione Alessi si presenta con una nuova formazione composta dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. L’album, composto da dodici brani, è prodotto da Manfred Eicher, è stato registrato a giugno 2021 negli studi di Artesuono di Stefano Amerio e mixato a dicembre 2022 a Lugano.
L’ombra benevola di Charlie Parker, ancor più che quella di altri grandi del sax, influenza la sonorità di Chris Potter in quello che è il suo terzo disco in carriera registrato live al Village Vanguard di New York e cioè Got The Keys to The Kingdom. Non è solo una confessione personale quando Potter afferma che “..la mia estetica come sassofonista è sempre stata basata su Bird, Lester Young e Rollins..”. C’è anche la compartecipazione del destino intervenuto sotto le sembianze del trombettista Red Rodney che fu, nel 1949, membro del quintetto di Parker, insieme a Gillespie. Rodney ha officiato il battesimo musicale di Potter in quel di New York, dato che proprio nella Grande Mela si è completata la formazione dell’allora poco più che ventenne sassofonista proveniente dalla South-Carolina. Qualcosa di quel glorioso periodo di fioritura be-bop sotto la stirpe parkeriana è rimasto impigliato tra le chiavi del sax di Potter anche se è altrettanto indubbio che un ulteriore numero di spiriti benevoli abbiano visitato la tecnica e l’ispirazione di questo sassofonista, non ultimo quello di Coltrane. Nonostante Potter sia relativamente giovane – nato nel 1971 – è giunto ora al suo ventiquattresimo album da titolare ma possiamo contare oltre un centinaio di collaborazioni con il fior fiore del jazz contemporaneo. Qualche nome? David Binney, Dave Douglas, Dave Holland, Pat Metheny, Paul Motian, John Patitucci, Steely Dan, Wayne Shorter, Enrico Pieranunzi e qui mi fermo perché l’elenco è lunghissimo e volentieri vi rimando a Wikipedia per ulteriori ragguagli. In questo ultimo album, ritroviamo Scott Colley al contrabbasso – già con Potter in Lift, prima esperienza live al Vanguard nel 2004 – Craig Taborn al piano – partner del sassofonista in Follow the Red Line, seconda esperienza sempre nello stesso prestigioso locale newyorkese avvenuta nel 2007 – e infine il terzo elemento del gruppo, l’esuberante batterista Marcus Gilmore, nipote del grande Roy Hanes.
La musica di Joe Locke, in questa sua ultima fatica Makram, è costituita da una serie di brani euforizzanti che fin dal primo ascolto dimostrano la loro immediatezza e spontaneità, come fossero stati realizzati in un unico flusso continuo d’ispirazione. Ovviamente tutto non è così semplice come appare. Dietro a ciò che sembra facile, soprattutto nel jazz, ci sono ore di studio, prove su prove, ripensamenti e riscritture delle parti, insomma una dura gavetta percorsa spesso a costo di notevoli sacrifici personali. In effetti, al di là del subitaneo piacere che si prova ascoltando Makram – il titolo dell’album è un omaggio al contrabbassista libanese Makram Aboul Hosn, un amico di Locke e suo occasionale collaboratore – si comprende come questo lavoro sia stato, in fase progettuale, scomposto in profondità e quindi ricostruito nei suoi singoli tasselli per giungere a un’opera quadrata, materica, quasi fisica per la continua scossa nervosa e muscolare che trasmette a chi l’ascolta. L’autore principale di tutto questo è il sessantaquattrenne vibrafonista Joe Locke nato in California, con circa una trentina di uscite discografiche a partire dalla fine degli anni ’80 con il suo esordio Scenario (1987) pubblicato su vinile e credo mai stampato in formato digitale. In Makram si assiste a un bel ribollire di suoni che non illanguidiscono mai troppo, nemmeno durante l’esecuzione delle ballad. Vero è che in Locke arde il sacro fuoco del jazz, così come questo è stato tradizionalmente concepito, cioè ritmo, improvvisazione e gusto per l’impervietà di alcuni passaggi al limite della tonalità. Vitalità e assenza di pulsioni eccessivamente introverse fanno parte di queste sonorità smaliziate, con gli arrangiamenti fluorescenti di una ritmica tutta controbalzi ma sempre alfine allineata senza troppe stravaganze alla finalizzazione del progetto vibrafonistico di Locke.
Apparentemente, ma solo apparentemente, accingendosi ad ascoltare un concerto o un nuovo lavoro discografico di contrabbasso solo, ci si potrebbe spaventare. Naturalmente poi l’ascolto, se di ascolto vero si tratta, non solo risulterà gradevolissimo, ma potrebbe addirittura risultare indispensabile. Lo è perché l’ascolto del suono di uno strumento “in purezza” è, almeno per chi scrive, un’operazione mentale assolutamente necessaria per restituire equilibrio; una specie di pausa di riflessione, una volontaria clausura in un “hortus conclusus” che permette riflessione, introspezione, ma che soprattutto rieduca all’ascolto, quello vero. L’eccentricità e l’esclusività dello strumento riconduce l’attenzione sulla costituzione del suono nella sua origine e sulla intenzionalità della scrittura musicale. Tutto questo potrebbe risultare impossibile ascoltando una band, un ensemble, ma persino un’orchestra. Con queste predisposizioni d’animo e di mente mi sono accostato alle 7 composizioni improvvisate per contrabbasso solo di Mirco Ballabene, CD uscito nell’appena trascorso mese di febbraio per la brillante etichetta “Niafunken”.
Le avventurose progettualità delle formazioni triangolari costituite da contrabbasso, batteria e fiati, senza strumenti classicamente armonici come il piano e la chitarra, hanno sempre attratto la mia attenzione per due motivi fondamentali. Prima di tutto per il peso della buona riuscita dell’esperienza che gravita molto, com’è ovvio aspettarsi, sulle spalle dello strumento solista. Si va senza rete e il musicista che si trova al centro dell’attenzione deve essere super-bravo perché per ogni eventuale momento d’indecisione e di sbandamento si rischia la caduta. In seconda analisi sono attratto dai concetti sintetici che in questi casi specifici sottolineano una forma mai banale di intelligenza musicale, cioè la capacità di melodizzare e armonizzare con pochissime note, appoggiando il solista alle sole linee di contrabbasso. In questa circostanza l’ultima pubblicazione del batterista é Kendrick Scott, Corridors, presenta un’anomalia, se così possiamo chiamarla, perché le composizioni non sono a carico dello strumento a fiato ma sono frutto della creatività dello stesso batterista. Non è la prima volta, anzi, che assistiamo ad un’intensa attività compositiva dei percussionisti. Ad esempio, su Off Topic ci siamo recentemente occupati di Sebastian Rochford – trovate una sua recensione qui – ed anche del nostro connazionale Marco Frattini – potete leggere qualcosa d’altro qui. In questo Corridors il sax suonato da Walter Smith III, quarantatreenne membro dell’Ambrose Akinmusire Quintet e dell’Eric Harland Voyager, attrae oviamente la maggior parte dell’attenzione ma non potrebbe farlo più di tanto se non avesse alle spalle il contrabbasso di Reuben Rogers – curriculum denso di compartecipazioni con gente del calibro di Charles Lloyd, Aaron Goldberg, Dianne Reeves, Joshua Redman, Phil Woods, Thomasz Stanko e qui mi fermo per respirare – e soprattutto la batteria, ovviamente, del titolare dell’album, Kendrick Scott. Quest’ultimo è nato a Houston, Texas, quarantatre anni fa, ed oltre al nutrito numero di collaborazioni che fin qui ha realizzato e agli importanti mentori che ha avuto come Joe Sample, Terence Blanchard e Charles Lloyd tra gli altri, ha alle spalle quattro dischi con il suo gruppo Oracle – due con l’etichetta Blue Note più questa terza nuova pubblicazione con una band diversa – ed un lavoro uscito esclusivamente a suo nome pubblicato dalla Criss Cross nel 2009.
Musicalmente sospeso tra chiarori e oscurità, il pianismo melodico ed elegante di Claudio Cojaniz riappare in questo suo ultimo lavoro, sinteticamente intitolato Black. L’impasto percettivo che arriva all’ascoltatore è una miscellanea di molti profumi, alcuni decisamente latini, altri in cui emergono fragranze classiche di tradizione europea ed infine note aromatizzate di blues con punte di suggestioni afro-americane. In questi ultimi anni, dopo la summa esperienziale dei suoi numerosi coinvolgimenti professionali in campi diversi – composizioni per tv e cinema, lavori per piano solo, in trio, in quartetto, in big bands, partiture per organo chiesastico ecc…- lo stile pianistico di Cojaniz si è arricchito di note più malinconiche e riflessive, tanto da assumere a tratti la forma di un’intima colloquialità, arricchendosi ancor più di quella compostezza formale che ha sempre caratterizzato il suo modo di esprimersi musicalmente. Cojaniz, in questo suo Black, sembra non utilizzare formule armoniche all’avanguardia, eppure in alcuni brani, dal mio punto di vista i migliori, come ad esempio Ola de Fuerza, il suono si smagrisce creando interessanti legami molecolari tra le note, soluzioni e passaggi che si fanno apprezzare non solo per lo sviluppo melodico ma anche per la non scontata relazione tra i singoli elementi. Si resta sempre in un ambito tonale, profondamente poetico, all’interno di un ampio e trasparente calice armonico che dimostra l’intensa partecipazione emotiva dell’Autore – tutti i brani della selezione sono di sua composizione – senza che si trovi posto per lambiccamenti estetizzanti né asfittiche torsioni melodiche. Il linguaggio di cui Cojaniz si serve nel delineare i suoi quadri emozionali è chiaro e limpido ed anche nei momenti più riflessivi in cui la luce sembra attenuarsi, non s’inabissa in tortuosità dissonanti. Insomma, si percepisce, dietro e dentro la musica, l’intensa educazione sentimentale formatasi tra musica classica, Monk – uno dei suoi grandi ispiratori – e il blues che emerge anche in questo album in isole lussureggianti mescolato a ricordi latino-africani.
Il Jazz è un atto immediato di espressione emozionale. Una sintesi tra il qui ed ora e la sua memoria storica. Uno sviluppo continuo da non leggersi secondo una logica lineare ma come espressione circolare, una musica che torna spesso a verificare sé stessa, come per cercare sicurezza ed accertarsi delle sue fondamenta. Prendiamo ad esempio l’ultimo lavoro del contrabbassista americano Ben Wolfe, Unjust, più precisamente il suo decimo disco da titolare. Questo musicista si è creato un curriculum di tutto rispetto avendo lavorato con Wynton Marsalis – ed anche, in parte, col fratello Brandford – entrando poi nell’orchestra di Harry Connick jr. e partecipando ad una tournee con Diana Krall, oltre alle collaborazioni con due nomi dell’eccellenza pianistica statunitense come lo scomparso Frank Kimbrough e Marcus Roberts. In questa incisione, tra l’altro, in aggiunta allo stesso Wolfe, trovano spazio alcuni musicisti a cui Off Topic ha dedicato spesso una particolare attenzione, come Immanuel Wilkins al sax contralto – trovate una sua recensione qui – e il vibrafonista Joel Ross – se cercate quie quidi recensioni ne trovate addirittura due. Partecipano inoltre all’impresa il trombettista Nicholas Payton, i pianisti Addison Frei e Orrin Evans, Aaron Kimmel alla batteria e la tenor-sassofonista Nicole Glover. Ebbene, questo album, dimostrando un evidente bifrontismo concettuale, paga un importante tributo alle radici swinganti del jazz, al bebop, alle classiche ballad con tanto di sax fuligginoso ma aggiungendo a queste atmosfere urbane quell’oncia di modernità che fa di questa musica non solo il racconto di una storia dai lontani natali ma anche il riflesso di una effervescente contemporaneità. L’incedere notturno del contrabbasso e il suo loquace dialogo con la batteria, le sonorità spesso voluttuose dei fiati, gli interventi misurati dei pianisti e l’impronta brillante del vibrafono sono tra gli elementi che soddisferanno ampiamente tutti i jazz-addicted, nessuno escluso. Unjust mostra quindi un certo piglio old-fashioned all’interno di cui possiamo intravedere le ombre di Monk, di Mingus, del Modern Jazz Quartet fino alle visioni più cool di un Gerry Mulligan. Il rischio è che da un certo punto di vista possano venire evocate alcune fascinose immagini di luoghi comuni ormai appartenenti più alla mitologia del jazz che non all’attualità, cioè le strade congestionate di traffico frenetico, panoramiche di notturni boulevard sotto la pioggia con le immancabili luci artificiali riflesse sull’asfalto. Eppure, al di là di ogni banale interpretazione retorica, queste immagini rimangono, nonostante tutto, indelebilmente tatuate nella memoria comune. In fondo anche nel jazz sussiste un certo romanticismo che alle volte si ha persino paura di nominare – per non essere tacciati di passatismo – che sopravvive tra le radici di questa musica, anzi, ne costituisce un supporto irrinunciabile.