R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Oltre ad aver avuto gli stessi natali di Alejandro Jodorowsky, Melissa Aldana ha in comune con il Maestro cileno un certo interesse per la lettura dei Tarocchi. Ma, come osservava Jung, non sono le carte a parlare, quanto le dinamiche emozionali di chi le interroga. In effetti il titolo 12 Stars del suo ultimo album si riferisce all’arcano maggiore dell’Imperatrice che possiede, nella sua raffigurazione, una corona sul capo con dodici stelle. Perché e percome la sassofonista Aldana abbia consultato queste carte rientra nell’intimo delle sue scelte personali. Quello che invece ci può riguardare è l’impressione all’ascolto di questo album, la sesta produzione discografica della musicista cilena ma la prima in assoluto per Blue Note. Diciamo subito che se non avessi saputo dell’origine sudamericana di quest’artista – che ora risiede a New York – mai avrei potuto intuire qualsivoglia traccia di latinità nella sua musica. Se qualche fugace frammento di tradizione poteva essere rimasto tra le righe, soprattutto nelle ritmiche percussive del suo importante lavoro uscito nel 2014 – Melissa Aldane & Crash Trio – la sua techne odiernaè totalmente ed integralmente statunitense. Ella dimostra così di aver assimilato completamente la lezione dei suoi maestri del Berklee di Boston e mi riferisco a personaggi come Joe Lovano, George Garzone e Greg Osby, mentre il suo mentore a New York è stato soprattutto George Coleman. Il jazz della Aldana è un distillato di essenze alcoliche che tende ad allontanarsi dai classicismi con cognizione di causa, in quanto la sua musica è frutto di una ricerca consapevole che mira a prendere le distanze dai comuni cliché compositivi tradizionali. Non che la sassofonista voglia far terra bruciata dietro di sé ma dopo aver assimilato la lezione di tutti i suoi maestri – ne ha avuti tanti e tutti buoni – all’età di 34 anni decide di percorrere la propria strada fino in fondo. A dire il vero le idee chiare, Aldana, le ha avute da subito e riuscendo a rintracciare qualche lavoro del passato ci si può rendere immediatamente conto della sua capacità di inseguire una certa complessità, senza alcuna compiacenza, che la rende però autonoma ed estranea ad ogni mainstream. Per esempio, il già citato lavoro in Crash Trio testimonia un coraggio ed un’abilità insolita per una giovane musicista, ricordando che quando un sax si esibisce con contrabbasso e batteria, senza altri strumenti in grado di creare verticalizzazioni armoniche, il solista si trova ad esporsi “senza rete”, e quindi al rischio di caduta. Il fatto che Aldana suoni il tenore non è da intendersi come scelta radicale, dato che inizialmente la sua preferenza era per il contralto e quindi l’opzione del cambiamento timbrico è frutto di un’esigenza progressiva ed espressiva di cui dobbiamo tener conto. Il suo suono è piuttosto dolce e ammorbidito, non ha bisogno delle usuali acidule e spigolose note che escono abitualmente da quei tenorsassofonisti più autoreferenziali.

Aldana dimostra invece un autocontrollo molto maturo dei suoi soffi, impegnata a tener le redini dell’oggetto del suo discorrere senza farsi mai – veramente mai – trascinare da alcuna euforia esibizionistica. Tuttavia, come fosse una sorta di marchio stilistico, ella ricerca spesso intervalli inusuali in cui le note del suo sax si distanziano provocatoriamente per poi ritrovarsi vicine, quasi miracolosamente, magari dopo aver compiuto una lunga e imprevedibile rivoluzione attorno a sé stesse. La formazione di 12 Stars che accompagna la leader ruota attorno alla fluida chitarra di Lage Lund, qui in duplice veste di produttore e musicista. È presente inoltre Sullivan Fortner, giovane pianista di New Orleans (che ha collaborato tra l’altro con Paul Simon) – suggerisco l’ascolto di Moments Preserved, un suo disco del 2018 – Kush Abadey alla batteria e il contrabbassista pure lui cileno Pablo Menares, già collaboratore di lunga data con la Aldana. Il discorso complessivo di questo lavoro è dunque da leggersi come un intreccio intimamente partecipativo tra i diversi elementi del gruppo, un profondo legame molecolare che è la caratteristica espressiva globale di 12 Stars.

Iniziamo l’ascolto con Falling, primo estratto dell’album. Nonostante il brano si riferisca ad una dolorosa separazione sentimentale, aggravata dall’isolamento forzato dovuto alla pandemia, la musica mantiene un magmatico senso di tensione, pur avvertendo il disagio del momento nella voce quasi recitativa del sax. Vi sono comunque ampi spazi di manovra soprattutto per il piano. Fortner, infatti, s’impegna in una sintesi tra memoria e raffinate proiezioni armoniche contemporanee, molto libere e senza schemi convenzionali. La chitarra di Lund funge quasi da rampa di lancio e scivola al di sotto dell’introduzione del brano, accompagnandone il decollo e l’atterraggio finale. Il sax si muove raggomitolandosi tra le spire di un misterioso senso simbolico, alternandosi tra cieli grigi e momenti di maggior limpidezza. Intuition potrebbe apparire quasi come un tango sui generis con quell’iniziale unisono tra sax e chitarra. Ma gli spazi tra le frasi musicali tendono a dilatarsi per cui questa ipotesi di base si trasforma continuamente con cambi di tempo. Da rimarcare l’aspetto ritmico di contrabbasso e batteria che procedono guidando le melodie degli altri strumenti con grande discrezione senza mai essere troppo appariscenti. Mike Jurkovic, dalle pagine di All About Jazz, paragona il lavoro percussivo di Abadey a quello di un Jack DeJohnette e credo che non sia andato troppo lontano dalla verità. La Aldana, dal canto suo, in questo brano tende all’esplorazione delle altezze sonore più acute, mentre possiamo anche ascoltare un bell’assolo di Lund nella seconda metà della traccia. Emilia, preceduta da una breve, amniotica introduzione dai toni sognanti, è una soffusa melodia, quasi una materna ninna-nanna che suggerisce l’idea di un abbandonarsi malinconico alle proprie riflessioni. Contrariamente al brano precedente, questa volta l’altezza dei suoni del sassofono segue un andamento di ricerca sui toni medio-bassi, a sancire l’intimo lucore diffuso che si esprime da questo brano. La chitarra dai toni morbidi di Lund si ripropone in assolo e precede un momento di altrettanta, relativa solitudine per il contrabbasso che si esprime accentando le note e sottolineando così i passaggi armonici del naturale andamento di questa ballad. Interessanti i giochi percussivi sui piatti della batteria, poco prima che compaia all’ascolto un estratto sonoro di una qualche vecchia cantilena infantile.

The Bluest Eye prende il titolo da un omonimo romanzo della scrittrice Toni Morrison – premio Nobel per la letteratura nel 1993 – che racconta una storia drammatica di isolamento, violenze e tensioni razziali. Il brano, però, si tiene lontano emotivamente dallo stigma tragico del romanzo, assomigliando più ad una riflessione intellettuale sullo stesso. Il tema viene introdotto con delicatezza, mentre lo stesso verrà riproposto verso il finale, addirittura con un accenno di swing. Il sax si fa più intraprendente, paradossalmente più disteso. Gli assoli di piano e di chitarra sembrano più luminosi, molto discorsivi, e si finisce con una moderata tensione caotica a spegnersi in lontananza. The Fool si riferisce, come le dodici stelle dell’Imperatrice, ad un’altra carta dei Tarocchi, quella del Matto. L’inizio è affidato al suono acquatico della chitarra di Lund e sembra preludere ad uno di quei bei dischi alla Jim Hall del passato. I toni sono moderati, così pure i tempi. Il sax intona una melodia rilassata che prevede ampi spazi espressivi per gli altri strumenti e così, in effetti, accade. Il piano sembra addirittura suonato da un musicista diverso, cambia il mood e l’approccio al senso del pezzo e Fortner rinuncia a molte delle sue calibrate dissonanze per ambientarsi in un clima più tradizionalmente armonizzato. Poi la chitarra, mai come in questo frangente, è assai vicina agli antichi maestri del jazz ed anche a certe inflessioni alla Pat Metheny. Forse, questo The Fool, dimostra una maggior attenzione verso un repertorio velatamente più tradizionale rispetto al resto dell’album. Los Ojos de Chile pare riferirsi ad una serie di manifestazioni e rivendicazioni per i diritti civili avvenute in Cile nel 2019. Nonostante l’argomento ribollente, il gruppo affronta il tema politico con un certo distacco almeno fino ai tre quarti della lunghezza del brano, quando il sax spinge sulle note e sul fiato rivendicando un autonomo spazio di compartecipazione emotiva. La trama armonica di base è piuttosto complessa, intricata di soluzioni ritmiche e continui slittamenti negli accompagnamenti, con il pianoforte e la chitarra che si alternano negli assoli scambiandosi il ruolo di sostegno l’un l’altro nelle loro rispettive esposizioni soliste. In 12 Stars l’atmosfera vira dalle parti shorteriane, con momenti quasi spettrali ma terminando in un tono più carezzevole nel finale. Mi sembra qui di percepire una sovra incisione di sax in sottofondo e la compartecipazione di un piano elettrico.

Aldana è una strumentista potente che tuttavia non nasconde le proprie fragilità personali. Nello stesso tempo cerca di livellare i propri altalenanti stati emotivi per offrire una musica molto equilibrata, contemporanea, senza estremi espressivi e sonori né identità locative, se non le rimarcabili impronte acquisite nella sua esperienza newyorkese.

Tracklist:
01. Falling
02. Intuition
03. Intro To Emilia
04. Emilia
05. The Bluest Eye
06. The Fool
07. Los Ojos de Chile
08. 12 Stars

Photo © Eduardo Pavez Goye