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Blue Note Records

Kendrick Scott – Corridors (Blue Note Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Le avventurose progettualità delle formazioni triangolari costituite da contrabbasso, batteria e fiati, senza strumenti classicamente armonici come il piano e la chitarra, hanno sempre attratto la mia attenzione per due motivi fondamentali. Prima di tutto per il peso della buona riuscita dell’esperienza che gravita molto, com’è ovvio aspettarsi, sulle spalle dello strumento solista. Si va senza rete e il musicista che si trova al centro dell’attenzione deve essere super-bravo perché per ogni eventuale momento d’indecisione e di sbandamento si rischia la caduta. In seconda analisi sono attratto dai concetti sintetici che in questi casi specifici sottolineano una forma mai banale di intelligenza musicale, cioè la capacità di melodizzare e armonizzare con pochissime note, appoggiando il solista alle sole linee di contrabbasso. In questa circostanza l’ultima pubblicazione del batterista é Kendrick Scott, Corridors, presenta un’anomalia, se così possiamo chiamarla, perché le composizioni non sono a carico dello strumento a fiato ma sono frutto della creatività dello stesso batterista. Non è la prima volta, anzi, che assistiamo ad un’intensa attività compositiva dei percussionisti. Ad esempio, su Off Topic ci siamo recentemente occupati di Sebastian Rochford – trovate una sua recensione quied anche del nostro connazionale Marco Frattini – potete leggere qualcosa d’altro qui. In questo Corridors il sax suonato da Walter Smith III, quarantatreenne membro dell’Ambrose Akinmusire Quintet e dell’Eric Harland Voyager, attrae oviamente la maggior parte dell’attenzione ma non potrebbe farlo più di tanto se non avesse alle spalle il contrabbasso di Reuben Rogers – curriculum denso di compartecipazioni con gente del calibro di Charles Lloyd, Aaron Goldberg, Dianne Reeves, Joshua Redman, Phil Woods, Thomasz Stanko e qui mi fermo per respirare – e soprattutto la batteria, ovviamente, del titolare dell’album, Kendrick Scott. Quest’ultimo è nato a Houston, Texas, quarantatre anni fa, ed oltre al nutrito numero di collaborazioni che fin qui ha realizzato e agli importanti mentori che ha avuto come Joe Sample, Terence Blanchard e Charles Lloyd tra gli altri, ha alle spalle quattro dischi con il suo gruppo Oracle – due con l’etichetta Blue Note più questa terza nuova pubblicazione con una band diversa ed un lavoro uscito esclusivamente a suo nome pubblicato dalla Criss Cross nel 2009.

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Joe Chambers – Dance Kobina (Blue Note Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Arrivato agli ottant’anni sembra che Joe Chambers, anche a giudicare dalla posa un po’ guascona con la quale appare in copertina di questo nuovo Dance Kobina, mantenga un atteggiamento sufficientemente spavaldo senza avere alcuna intenzione di recedere dai suoi progetti creativi. Da questo punto di vista Chambers è un musicista che pare sempre sospeso in uno stato perdurante di grazia e tutto ciò lo dimostra annunciandosi in un nuovo album ricco di ritmi ma leggero come una nuvola. Questo suo procedere, pragmatico nel non disperdersi in superflue evoluzioni strutturali e costantemente vitalistico nelle linee espressive, viene giustamente premiato da un lavoro formalmente perfetto anche se non compare, in assoluto, niente di particolarmente nuovo. Ma da un batterista come lui, uno di quelli che hanno fatto la storia del jazz e se vogliamo pure della Blue Note – la recensione del suo precedente lavoro Samba de Maracatu e ulteriori informazioni sulla sua identità artistica potete rintracciarle qui – non ci si aspetta uno spavaldo orizzontismo di frontiera ma piuttosto proprio un album come questo, generoso nella sostanza, con un’identità locativa centrata sul jazz ma non fossilizzata in territori risaputi. Così com’era accaduto per il suo lavoro precedente, il titolo di quest’album può trarre in inganno, dato che il termine congolese Kobina significa “ballare”. Chi si aspetta quindi un lavoro dance infarcito di percussioni esotiche resterà ovviamente deluso. Non che in questo disco manchino aspetti ritmici e percussivi a suggerire l’influenza di matrici africane o latine – del resto la tecnica di Chambers, in questo album, coaudiuvata o meno da altri percussionisti, è in grado di assorbire e rielaborare qualsiasi stimolo poliritmico – ma l’impronta definitiva che si avverte è quella di un jazz che pare bastare quasi a sé stesso, focalizzato ma non sclerotizzato nella tradizione e inoltre alieno da qualsiasi nomadismo etnico.

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Bill Frisell – Four (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Lucio Vecchio

Cercando i termini “long COVID” su un motore di ricerca trovo la definizione: “È una sindrome clinica caratterizzata dalla presenza di alcuni sintomi legati all’infezione da SARS-CoV-2, che insorgono o persistono anche per settimane o mesi dopo la guarigione da COVID-19”.
Tranquilli, non state per leggere un trattato di medicina e non mi interessa infilarmi in diatribe o dibattiti legati al Covid. Ho voluto usare il caso come metafora, come spunto di riflessione del fatto che molte delle attuali uscite discografiche sono produzioni che risalgono ai mesi in cui siamo stati costretti in casa e che, come una scia lunga e persistente, verranno rilasciate nei giorni a venire. Una di queste è appunto Four, ultima fatica del chitarrista americano Bill Frisell.

Four è il terzo album di Frisell per Blue Note Records. È composto da tredici tracce di cui quattro reinterpretazioni di brani originali mai registrati e nove brani inediti, scritti come appunti durante il lockdown.
“È stato traumatico non stare con le altre persone”, dice Frisell, “così ho preso la mia chitarra e lei mi ha salvato”. In quei mesi ha scritto un sacco di melodie ed idee, così quando ha programmato le sessioni di registrazione di Four, aveva accumulato pile di quaderni pieni di musica che egli definisce “frammentata”.

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Charles Lloyd – Trios: Ocean (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Lucio Vecchio

Sulla scena mondiale da più di sessant’anni, il sassofonista e flautista americano, primo pioniere della musica globale Charles Lloyd, non sembra interessato ad adagiarsi sugli allori ed all’età di ottantaquattro anni, ancora all’apice delle sue forze e prolifico come sempre, ha pubblicato una trilogia suonata in compagnia di grandi musicisti. Il 23 settembre ha rilasciato Trios: Ocean, il secondo album della serie Trio of Trios, un progetto che lo vede impegnato con tre diverse formazioni. In questo disco, di cui parleremo a breve, Lloyd viene affiancato da Gerald Clayton al pianoforte e da Anthony Wilson alla chitarra. Il primo album della trilogia, Trios: Chapel con il chitarrista Bill Frisell e il bassista Thomas Morgan, è stato pubblicato il 24 giugno, e il terzo, Trios: Sacred Thread con il chitarrista Julian Lage e il percussionista Zakir Hussain, uscirà il 18 novembre.

Ma veniamo all’oggetto del contendere, Trios: Ocean. L’album è la registrazione di un live che il terzetto ha tenuto il 9 settembre 2020 nel teatro Lobero, a Santa Barbara, città natale di Lloyd. Lo spettacolo, a causa della pandemia, si è tenuto senza pubblico ed è stato trasmesso in streaming. Il disco, stampato sia in formato CD che vinile per Blue Note, è composto da quattro lunghi brani in cui i musicisti si immergono nell’atmosfera straniante del teatro vuoto, riportandoci con profondo rispetto, per non dire devozione, alle radici del jazz.

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Julian Lage – View With A Room (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Una specie di pactio secreta dev’essere stata stipulata tra Julian Lage – quattordicesimo disco da titolare, escludendo l’Ep Live in Los Angeles del 2017 – e il leggendario Bill Frisell. Entrambi chitarristi eccellenti, i due hanno già tracciato un percorso comune, non tanto e non solo per alcune esibizioni live ma soprattutto per essere stati entrambi alla corte di John Zorn contribuendo alla realizzazione del suo Virtue (2020). In effetti Lage e Frisell mi sembrano a tratti perfino intercambiabili e se non fossi quasi certo che per ragioni di psicoacustica, in questo ultimo disco View With A Room, la chitarra di Lage sia stata posizionata nel canale centro-sinistro dell’immagine stereo, potrei avere qualche difficoltà nel reciproco discernimento dei due strumentisti. Ma chi è Julian Lage e come è arrivato fin qui? La sua storia artistica non è certo tra le più comuni perchè è quella di un ragazzino-prodigio nato in California 35 anni fa, che all’età di otto (8!!) si esibisce con Carlos Santana, Pat Metheny, Toots Thielemans e quando compie quindici anni si trova a far l’insegnante di jazz alla Stanford University, venendo reclutato l’anno dopo da Gary Barton per collaborare giustappunto con il grande vibrafonista. Tra i suoi riferimenti musicali alcuni sono abbastanza ovvi, ad esempio il suono “volatile” – è una definizione dello stesso Lage – di Charlie Christian, il rimarchevole e duttile fraseggio di Jim Hall e lo stesso Frisell da cui è stato, secondo me, parecchio influenzato – ascoltate il suo precedente lavoro Squint del 2021 per averne conferma. Ma inaspettatamente Lage ammette anche di avere subito il fascino di un grande chitarrista classico come Julian Bream – e talora ne ha lasciato testimonianza per esempio in 40’s su World’s Fair del 2015 – e di essere stato pure influenzato da pianisti come Hersch e Jarrett. Comunque sia Lage si trova sullo stesso pianeta abitato anche da Frisell e questo album ne è la prova lampante. Nè l’uno né l’altro potrebbero essere definiti dei “puri” chitarristi jazz ,essendo stati attratti in parecchie circostanze dal blues, da qualche assonante simpatia con Chet Atkins o ancora da evidenti riflessi country-rock. Ma ognuna di queste circostanze diversificanti non lavora come limite bensì come innesco per ulteriori mulinanti fantasie, arricchendo questa musica di magnetiche discorsività che si spingono un passo innanzi – o indietro? – al jazz. Senza troppe cerimonie Lage insegue la sua idea di allargare il trio già collaudato nel precedente Squint formato da Jorge Roeder al contrabbasso e Dave King alla batteria – già membro fondatore dei Bad Plus – includendo una seconda chitarra come quella appunto di Frisell. L’intreccio che ne risulta è avvincente e si rende piacevole attraverso una scrittura essenziale, ben calibrata, riuscendo ad esprimere una sensualità avvolgente, un verbo elettrico molto “aereo” e rigorosamente consonante.

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Charles Lloyd – Trios: Chapel (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Charles Lloyd mi fa venire in mente una di quelle erbe tenaci che crescono ai margini delle strade asfaltate. Basta un briciolo di terra libera ed ecco spuntare una forma di vita indomabile, che cerca d’imporre la sua energia nonostante tutti e tutto. Eh sì, perché l’ultraottantenne saxofonista di Memphis esce in questi giorni con un disco in trio, anzi, sarebbe meglio dire con un progetto di tre album, Trio of Trios, ciascuno dei quali suonato appunto in formazione ternaria ma con musicisti sempre differenti. Il primo prodotto in uscita di questa serie s’intitola Trios: Chapel perché registrato live alla Coates Chapel nel campus della Southwest School Of Arts di SanAntonio, nel 2018, giusto un attimo prima della pandemia. Con Lloyd suonano Bill Frisell alla chitarra – già con il maestro di Memphis nel gruppo dei Marvels – e il contrabbassista Thomas Morgan che ricordiamo a fianco del chitarrista in due album registrati dal vivo al Village Vanguard, usciti entrambi per ECM – Small Town (2017) ed Epistrophy (2019). La risonanza acustica del luogo di registrazione, tipica di molti edifici religiosi, non avrebbe sopportato una batteria o comunque un qualsivoglia sistema percussivo d‘accompagnamento. La scelta di un trio drumless èdiventata quindi una motivazione necessaria che in questo caso si è dimostrata oltremodo azzeccata per meglio evidenziare il lavoro dei singoli musicisti, nonché i loro momenti d’insieme. La musica che ne risulta non fa concessioni, è interpretata con rigore ed equilibrio e l’ultima cosa che dobbiamo pensare è quella di ascoltare un intrattenimento disimpegnato di un anziano sassofonista – e anche flautista in questa circostanza – coadiuvato da altri musicisti che lo vogliano omaggiare. Invece, tra cover e riproposte di vecchie composizioni, tra il pubblico che si avverte raramente con qualche applauso – insolita scelta quella di cancellare e sfumare il consenso del pubblico non appena possibile – il concerto si snoda con eleganza e suoni asciutti, seguendo un preciso percorso creativo ed improvvisativo dove scrittura ed estemporaneità s’integrano con naturalezza. Conosciamo bene Lloyd, sappiamo che non è un devastatore di melodie quando approccia materiale non suo ma un meraviglioso re-interprete e in questo caso, accanto a lui c’è Frisell che ha in comune con Lloyd lo stesso atteggiamento di creativo rispetto per la tradizione e per i brani altrui. Il contrabbassista Morgan è un monumento di discrezione, un musicista attualmente richiestissimo impegnato in una continua trama di note febbricitanti per tenere insieme la musica senza lasciare troppi vuoti. A margine, una nota positiva anche per l’ingegnere del suono, che ha saputo ottenere un’ottimale messa a fuoco degli strumenti.

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Melissa Aldana – 12 Stars (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Oltre ad aver avuto gli stessi natali di Alejandro Jodorowsky, Melissa Aldana ha in comune con il Maestro cileno un certo interesse per la lettura dei Tarocchi. Ma, come osservava Jung, non sono le carte a parlare, quanto le dinamiche emozionali di chi le interroga. In effetti il titolo 12 Stars del suo ultimo album si riferisce all’arcano maggiore dell’Imperatrice che possiede, nella sua raffigurazione, una corona sul capo con dodici stelle. Perché e percome la sassofonista Aldana abbia consultato queste carte rientra nell’intimo delle sue scelte personali. Quello che invece ci può riguardare è l’impressione all’ascolto di questo album, la sesta produzione discografica della musicista cilena ma la prima in assoluto per Blue Note. Diciamo subito che se non avessi saputo dell’origine sudamericana di quest’artista – che ora risiede a New York – mai avrei potuto intuire qualsivoglia traccia di latinità nella sua musica. Se qualche fugace frammento di tradizione poteva essere rimasto tra le righe, soprattutto nelle ritmiche percussive del suo importante lavoro uscito nel 2014 – Melissa Aldane & Crash Trio – la sua techne odiernaè totalmente ed integralmente statunitense. Ella dimostra così di aver assimilato completamente la lezione dei suoi maestri del Berklee di Boston e mi riferisco a personaggi come Joe Lovano, George Garzone e Greg Osby, mentre il suo mentore a New York è stato soprattutto George Coleman. Il jazz della Aldana è un distillato di essenze alcoliche che tende ad allontanarsi dai classicismi con cognizione di causa, in quanto la sua musica è frutto di una ricerca consapevole che mira a prendere le distanze dai comuni cliché compositivi tradizionali. Non che la sassofonista voglia far terra bruciata dietro di sé ma dopo aver assimilato la lezione di tutti i suoi maestri – ne ha avuti tanti e tutti buoni – all’età di 34 anni decide di percorrere la propria strada fino in fondo. A dire il vero le idee chiare, Aldana, le ha avute da subito e riuscendo a rintracciare qualche lavoro del passato ci si può rendere immediatamente conto della sua capacità di inseguire una certa complessità, senza alcuna compiacenza, che la rende però autonoma ed estranea ad ogni mainstream. Per esempio, il già citato lavoro in Crash Trio testimonia un coraggio ed un’abilità insolita per una giovane musicista, ricordando che quando un sax si esibisce con contrabbasso e batteria, senza altri strumenti in grado di creare verticalizzazioni armoniche, il solista si trova ad esporsi “senza rete”, e quindi al rischio di caduta. Il fatto che Aldana suoni il tenore non è da intendersi come scelta radicale, dato che inizialmente la sua preferenza era per il contralto e quindi l’opzione del cambiamento timbrico è frutto di un’esigenza progressiva ed espressiva di cui dobbiamo tener conto. Il suo suono è piuttosto dolce e ammorbidito, non ha bisogno delle usuali acidule e spigolose note che escono abitualmente da quei tenorsassofonisti più autoreferenziali.

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Joel Ross – The Parable of the Poet (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il modo migliore per affrontare la nostra epoca, fortemente ripiegata su sé stessa, sembra essere quello di superare il progressivo nichilismo che ci avvolge come un velenoso rampicante. Per ogni verità che appaia tale se ne profila un’altra antitetica e la Musica, come l’arte in genere, avverte questo conflitto esprimendosi come può, suggerendo la speranza di qualche soluzione positiva. Su questa linea costruttiva si dimostra il vibrafonista Joel Ross, uno tra i riferimenti più luminosi dell’attuale, variegata scena jazzistica statunitense. Insieme ad altri nomi altrettanto risonanti, tra cui Immanuel Wilkins e Marquis Hill, Ross è protagonista di questa ultima prova dal titolo suggestivo, The Parable of The Poet. Un album complesso, a tratti scorrevole e tranquillo, in altri più turbinoso e agitato. Acque trasparenti e torbide che si alternano a testimonianza di come lo spirito del nostro Tempo sia tribolato e mutevole, con grande difficoltà nel reperire punti fermi, con avvenimenti che sembrano sempre sfuggire di mano da un momento all’altro. Ross ha l’idea che il limite tra musica scritta e improvvisata, una volta facilmente rintracciabile nel jazz come espressione di momenti separati – esposizione del tema, giro d’improvvisazioni, recupero del tema iniziale ecc – debba essere rivisto e riproposto in altra forma. Riascoltando le proprie improvvisazioni, Ross recupera da queste alcune frasi sonore su cui elabora una nuova scrittura per proporre poi il tutto in questa attuale veste, se vogliamo, di “recupero”. Una volta realizzato ciò, la musica viene proposta agli strumentisti – che hanno con lo stesso vibrafonista forti legami d’amicizia – su cui ciascuno elaborerà, al di là della lettura obbligata delle parti tematiche, una propria creazione estemporanea. Si ottiene così una dinamica ciclica dalle forti connotazioni emotive che teoricamente potrebbe continuare all’infinito. Al di là delle osservazioni tecniche, questo lavoro di Ross può essere visto in forma di suite, collegando idealmente i vari brani tra loro con quel substrato di corrente spirituale che scorre come un fiume sotterraneo tra i solchi del disco. Perché una delle vere ragioni di una musica come questa è il sentimento quasi religioso che si libera dalle note, come si trattasse di una preghiera, con le sue umanissime scorie di risentimento e di accesa speranza, di devozione e di pentimenti. Insomma, un unico, lungo gospel contemporaneo in cui il Poeta traccia la sua parabola con i mezzi a disposizione, in questo caso una musica che a tratti diventa bellissima e coinvolgente ed in altri momenti sembra annegare in stati di temporaneo smarrimento.

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Immanuel Wilkins – 7th Hand (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

C’è stato indubbiamente qualche importante cambiamento nel modo di pensare di Immanuel Wilkins. Niente di drammatico, per carità. Anzi, la musica di questo The 7th Hand è ancora più bella, se possibile, del precedente Omega, opera prima di grande spessore già considerata, a ragione, una delle più belle pagine esordienti nel jazz degli ultimi vent’anni. Ma se in Omega l’intenzione alla base dei brani era dichiaratamente un po’ polemica e critica nei confronti dell’allora situazione sociale della comunità nera – ricordiamo tutti i disordini e le violenze subite sotto la presidenza Trump – in The 7th hand si affaccia un aspetto nuovo, una tensione alla trascendenza che tende verosimilmente verso le geografie coltraniane. Il riferimento biblico già velatamente presente nel titolo dell’album, la copertina in b/n a metà tra l’ironico surrealismo felliniano e il ritualismo evangelico, sottolineano una flessione politica a favore di una crescita di coscienza religiosa, rimarcata dall’atteggiamento free che tramuta il finale in un’ “ascensione” psico-sonora che ricorda la fine degli anni ’60 e gli inturgidimenti spirituali del periodo. Sappiamo che Wilkins, come del resto aveva già operato nell’album precedente, ha progettato 7th hand come fosse una suite in cui i brani si continuano, almeno idealmente, uno con l’altro ma più pragmaticamente possiamo suddividere per comodità l’intero disco in due parti. La prima contiene sei brani di altissima qualità con il sax contralto di Wilkins che saetta come un lampo accecante, fraseggi stretti e allargati a secondo delle esigenze e con la stessa band essenziale di Omega che lo segue costruendo una ritmica ben tornita e avvolgente come raramente se ne ascoltano. La seconda parte, invece, è consacrata – lasciatemelo dire – all’ascetismo sull’impronta del Coltrane ultimo periodo. Ma l’intenzione di Wilkins, pare evidente, è la ricerca di un equilibrio tra l’Amore necessario a muovere il Mondo e la consapevolezza della difficoltà nel realizzarlo. Per questo la dimensione marcatamente free di Lift, quasi mezz’ora di improvvisazione che si prolunga nell’ultimo brano live Lighthouse, non è fine a sé stessa ma risuona come uno struggimento, un tentativo anche rabbioso di costruire un rapporto con una dimensione interiore sempre insidiato dalle circostanze contingenti, rapporto avvertito come una tensione irrinunciabile e che come tale viene raccontato da Wilkins e dalla sua band. Il fine di questa vertiginosa conflittualità è superare ogni opposizione e raggiungere così una dimensione nirvanica, uno stato di assenza dell’Io che permetta allo Spirito la sua discesa in una sorta di channelling illuminante. Ricordiamo i musicisti che accompagnano il leader che sono Daryl Jones al basso, Micah Thomas al piano e alle tastiere elettroniche, e Kweku Sumbry alla batteria. Completano l’ensemble Elena Pinderhughes al flauto e le percussioni del Farafina Kan Pecussione Ensemble.

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