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Riccardo Talamazzi

Arild Andersen / Daniel Sommer / Rob Luft – As Time Passes (April Records, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Forse As Time Passes, creazione liquida del trio Andersen-Sommer-Luft, potrebbe non essere per tutti l’album da portarsi sull’isola deserta. Ma per quello che mi riguarda ce lo porterei comunque, non solo per la seducente bellezza della musica ma anche per quelle due importanti citazioni riportate sul retro di copertina. Si fa riferimento allo scorrere del Tempo, come s’intuisce dal titolo dell’opera. Da una parte la saggezza del filosofo Eraclito di Efeso, “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, perché l’acqua in cui ti sei immerso è già fluita via” e che suggerisce il continuo divenire della vita. D’altro canto, nell’esergo di T.S.Eliot tratto dai suoi Four Quartets, si dichiara che “il tempo presente e il tempo passato sono forse entrambi presenti nel futuro e il tempo futuro è contenuto nel passato…”. annullando con un semplice paradosso il significato dell’inevitabile decorso temporale. Comunque sia, questa di As Time Passes è musica che sembra voler travalicare tutte le categorie kantiane, tempo e spazio prima d’ogni cosa. Il fatto che i musicisti di questo trio provengano dall’Europa del Nord – Norvegia, Danimarca, Inghilterra – non è indicativo per definire nello specifico il loro lavoro. Prima di tutto perché il genere melodico e riflessivo in cui questi artisti s’impegnano non segue certo degli assoluti riferimenti geografici. Secondariamente per via del fatto che l’album è colmo di risonanze emotive e sentimentali che provano a tracciare un percorso originale, sfruttando le personalità espressive dei singoli e cercando di svincolarsi con naturalezza da influenze esterne di natura ambientale o sociale per seguire un’onda di pensieri per lo più pacatamente introvertita.

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Bruno Montrone – Unaware Beauty (A.Ma Records, 2024)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

In una video intervista che circola su YouTube, il pianista barese trentasettenne Bruno Montrone afferma candidamente di essere stato colpito già in età giovanile dal morbo del jazz. Questa patologia deve far parte certamente di quel raro gruppo di malattie che guariscono, anziché ammalare, pur condizionando per sempre la vita di un individuo. E quindi siamo ben felici che un musicista come Montrone sia stato travolto da questa affezione perché, se il risultato è un album come Unaware Beauty, potremmo tranquillamente aspettarci in futuro nuove, intriganti sorprese. Precisiamo che il lavoro di cui ci accingiamo a scrivere è l’esordio discografico dello stesso Montrone in veste di titolare. Ancora una volta la Puglia, sicuramente per merito di qualche ingrediente dietetico misterioso, si dimostra terra di musicisti, forse la più prolifica d’Italia. Ma anche regione di ormai storiche etichette discografiche tra le quali Dodicilune o, in questo caso specifico, A.Ma Records, vere e proprie benefattrici culturali per quello che riguarda la diffusione della musica e in modo particolare del jazz. Montrone ha studiato e si è diplomato al conservatorio Piccinni di Bari. Leggo tra le sue note biografiche alcune collaborazioni con importanti nomi italiani – Piero Odorici, Max Ionata, Fabrizio Bosso, Gianni Basso, Enrico Rava e molti altri – e anche con artisti stranieri di rilievo. In più, il pianista pugliese deve aver avuto anche un buon fiuto nello scegliere i propri collaboratori realizzando il suo album.

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Melissa Aldana – Echoes Of The Inner Prophet (Blue Note Records, 2024)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Difficile tracciare la nosografia d’una passione, se consideriamo quest’ultima una sorta di malattia così come la descrivevano i filosofi antichi. Ma se invece la valutiamo come una scossa profonda innescata dal desiderio, una pulsione che arricchisca e scuota motivando l’individuo verso una direzione ambita, allora il concetto di pathos acquisisce un valore più profondo e positivo. La stessa importanza che in quest’ultimo Echoes of the Inner Prophet riguarda la tenor-sassofonista Melissa Aldana, avvolta, come lei stessa ammette, da una forma di trasporto devozionale verso la figura artistica di Wayne Shorter. Se nel precedente 12 Stars – leggi qui – l’Autrice cilena dimostrava la sua completa integrazione nel clima musicale newyorkese, in questo settimo album in carriera la presenza spirituale del maestro del New Jersey diventa l’occulta guida a condurne l’ispirazione, affidandole il testimone della propria continuità creativa. Raramente, almeno in questi ultimi tempi, ho avuto l’opportunità di ascoltare una musicista come l’Aldana che in questo album sembra realmente essere la naturale erede di Shorter. Pare quasi che il suo particolare modo di suonare, cercando spazi intervallati tra note spesso molto distanti, in un continuo sali-scendi di sonorità tese ma sempre piuttosto morbide e umorali, insomma lontane da ogni forma di manifesta aggressività, riveli un’atmosfera virata all’oscurità, una direzione interiore quasi auto-analitica finalizzata alla ricerca di Sè.

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Shabaka – Perceive its Beauty, Acknowledge its Grace (Impulse!, 2024)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Il destino artistico di taluni musicisti evolve talvolta in modo insolito. Cominciano tutti con l’argento vivo addosso, caratteristica fisiologica connaturata all’età più giovanile ma col passare del tempo gli spigoli si ammorbidiscono, gli ideali si modificano e compaiono pensieri più metafisici, se non addirittura intrisi di misticismo. Con il sassofonista britannico Shabaka Hutchings, la situazione si è sviluppata in modo quasi analogo. Nonostante l’esortazione del titolo Perceive its Beauty, Acknowledge its Grace possa essere letta in molti modi, il fervore dell’Autore sembra non dirigersi tanto e non solo verso orizzonti trascendenti ma bensì all’interno della propria coscienza, ponendosi l’eterna domanda che abita gli esseri umani dagli albori dell’homo sapiens e cioè: Chi sono io? Hutchings, in un verso di Body to Inhabit – sesta traccia dell’albumdeclama che “… dietro questa maschera, dietro questa faccia (c’è) una faccia…” avendo quindi piuttosto chiaro come la ricerca di Sé – ovvero la nostra autenticità – alluda ad un necessario auto-smascheramento. Ma per arrivare a questo bisogna prima riaprire i canali del sentire ed ecco allora alcuni versi tra i migliori che affiorano in Managing my Breath, What Fear had Become, “…il fiore più luminoso, il colore più ricco, una totale eclissi proprio accanto a me e non ho più paura…”. Riorientarsi nel tempo e nello spazio, fuori e dentro di sé. Riprendere il legame con la propria natura, sgomberando il campo dai calcinacci psicologici dell’abitudine.

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Naviganti e Sognatori – Mare Aperto (Abeat Records, 2024)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

La misurata essenzialità del trio Falomi-Turchet-Trabucco è l’unica bussola che possa guidarci caso mai ci si trovi in Mare Aperto, titolo del loro ultimo lavoro per Abeat Records. Quando gli orizzonti del cielo e dell’acqua si uniscono tra loro e non si può più vedere la terraferma, compare una sensazione di sereno – o ansioso –  smarrimento che chi va per mare conosce bene, dove cadono le maschere ed emergono i tratti della nostra vera personalità. Credo che, anche senza far esperienza diretta in acque lontane, questi tre Naviganti e Sognatori riescano a metaforizzare lo stato d’animo di un musicista – o di un artista in genere – quando, nel proporre le proprie creazioni, si trovi a tu per tu prima di tutto con sé stesso e poi davanti ad un pubblico. Il giudizio della gente rappresenta l’orizzonte degli eventi soggettivi, oltre il quale c’è il Mondo con le sue critiche, i ridimensionamenti o le adulazioni che spesso illudono di aver toccato terra prima del tempo, quando invece il viaggio si dimostrerà ancora lungo e difficile. Mare Aperto è un gran bell’album, vorrei chiarirlo subito, ma eviterei di utilizzare eccessivi toni ridondanti nel parlarne. Troppo facile evocare sensazioni oniriche o incantatorie senza comprendere come alle spalle di questi musicisti, al di là della necessaria ispirazione, ci sia una preparazione tecnica e culturale che spazia in tre dimensioni, comprendendo melodie di derivazione tradizionale, elementi di jazz e di pop mescolati con qualche ingrediente aggiunto, come un pizzico di visione nostalgica e di daydreaming, perché no, se non altro per mantenere fede all’identità nominale del trio.

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Chris Potter – Eagle’s Point (Edition Records, 2024)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

La scomparsa di Wayne Shorter ha lasciato, oltre a un’indiscussa eredità spirituale, anche un’indiretta donazione…più pragmatica. Mi riferisco ai due musicisti che hanno avuto l’avventura di accompagnare il grande sassofonista, soprattutto nelle esibizioni live dall’inizio degli anni duemila, cioè il contrabbassista John Patitucci e il batterista Brian Blade. Chris Potter, contattando questa coppia di artisti e aggiungendo il tocco di Brad Mehldau come pianista, si è creato un quartetto da sogno per il suo ultimo album, Eagle’s Point. Facendo seguito al precedente Got the Keys to the Kingdom uscito l’anno scorso – vedi recensione qui, dove rimandiamo anche per altre notizie biografiche Potter sembra aver realizzato un desiderio che teneva nell’animo da molto tempo, cioè quello di ritrovarsi a tu per tu con dei musicisti da sempre ammirati e coi quali ha in precedenza anche collaborato – ad esempio nel Live in Italy del John Patitucci Trio (2022) –  per dare adito ad un nuovo proposito, un album tutto di composizioni nuove e firmate dal sassofonista. Nei termini di paragone con l’album del ’23, realizzato tra l’altro live al Village Vanguard e beninteso con una diversa formazione, si avverte come in questo disco registrato in studio, la musica fluisca con più calma e ponderazione. Non c’è il pubblico presente, non c’è trance da prestazione, l’energia fluisce con leggerezza e una certa postura rilassata pare costituire l’essenza più o meno di tutti i brani presenti. Coloro che volessero provare sensazioni particolarmente euforiche dovranno o riorientarsi al live del Vanguard oppure rassegnarsi ad un amalgama equilibrato, soppesato in ogni sua parte in cui un eccessivo ruolo del singolo viene parzialmente sfavorito rispetto all’esigenza dell’insieme, anche se non mancano, ovviamente, alcuni momenti più spinti con una sollecitazione improntata allo swing e all’hard-bop, soprattutto da parte dello stesso Potter.

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Little North – While You Wait (ACT Music, 2024)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Mi sono chiesto in più occasioni quale sia il pubblico che segue Little North e ciò che viene abitualmente chiamato jazz nordico. Se cioè il jazzofilo-tipo – chissà se poi veramente esistesia attratto da una musica come questa, oppure ne venga in qualche modo respinto, alla ricerca di ritmi e tempi di ben altro tenore. Ma il discorso, ormai annoso, ruota sempre attorno al medesimo concetto. Non c’è più il jazz di una volta, mi verrebbe da parafrasare con una punta d’ironia. Al suo posto c’è qualcosa di nuovo e diverso, stimoli che provengono da ambienti tradizionalmente poco affini al jazz ma che ora mandano interessanti segnali da decriptare e da godere per quello che sono, senza necessariamente porsi altre domande. Del resto c’è da prender atto come i Little North formino un gruppo che certo non cessa di stupire. Con una media di recenti pubblicazioni a cadenza annuale, si è arrivati oggi al loro sesto album, dopo un esordio avvenuto nel 2016, quattro dischi per la April e adesso la prima volta per l’ACT di Siegfried Loch con While You Wait. Tre ragazzi danesi sulla trentina che in occasione di questa ultima pubblicazione vengono accompagnati da un trombettista norvegese, Oscar Andreas Haug, il cui strumento sposta il baricentro del trio verso una momentanea, vellutata revisione degli equilibri interni. Off Topic si è già occupata in passato di questo gruppo e per le informazioni di base vi rimandiamo qui e qui.

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Julian Lage – Speak To Me (Blue Note Records, 2024)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

A distanza di poco più di un anno da View With a Room realizzato con Bill Frisell (qui la recensione), il chitarrista californiano Julian Lage torna con grande coraggio a proporre il suo ultimo lavoro, Speak to Me, con la stessa versatile formazione ritmica alle spalle, cioè Jorge Roeder al contrabbasso e Dave King alla batteria. Ma la scelta programmatica, questa volta, non si ferma qui. Con la produzione di Joe Henry, storicamente più in linea con altri generi musicali, Lage si concede un azzardo ampiamente ripagato in termini qualitativi. Questo perché il jazz del chitarrista, pur diluendosi in altre forme musicali, tende qui a cambiar pelle e ciò che ne consegue travalica ampiamente la categoria estetica della semplice carineria. Vale a dire che Lage si è costruito uno tra i suoi più interessanti album in carriera, se non addirittura il migliore, animato da una linfa creativa ed eclettica a 360°. Evidentemente l’approccio elastico della produzione, nonché l’aver voluto accanto a sé, oltre i suoi due musicisti responsabili della ritmica, anche altre personalità di spicco – la pianista Kris Davis e il tastierista Patrick Warren, con l’aggiunta Levon Henry, figlio di Joe ai fiati –  ha apportato un’originale combinazione strumentale che sembra voler allontanare lo stesso Lage dagli ingombranti richiami tradizionali tipici della chitarra jazz.

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Martha J. and Chebat Quartet – Amelia (Clessidra Records, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non appare ancora nessuna ruga sulla musica di Joni Mitchell. Per quella che è stata forse la più importante tra le autrici statunitensi dagli anni ’60 fino ad oggi – l’artista canadese ha da poco compiuto ottant’anni – si sta costruendo un mito trasversale abbondantemente meritato. Non c’è musicista importante, a qualsiasi genere si faccia riferimento, che non annoveri la Mitchell tra le sue influenze. E in effetti, passando attraverso gli inizi acustici cantautoriali sul finire degli anni ’60, filtrando tra le maglie del sognante rock californiano dei primi ’70 e accostandosi rispettosamente al jazz in zona Hejira (1976) e poi con Mingus (1979), la Mitchell ha rafforzato il suo legame molecolare con l’essenza del patrimonio musicale americano, esprimendo il suo genio – perché di questo si deve parlare – con tutto il vitalismo e la poliedricità possibili. Tra i molti tributi che le sono stati dedicati mi è rimasto impresso l’album di Maria Pia De Vito, So Right (2005), a mio parere imprescindibile quando si tratta, nell’ambito del jazz italico, di utilizzare riferimenti certi per questo tipo di omaggi musicali. Ma se l’album della De Vito vantava una super-formazione che includeva, oltre alla cantante, le personalità indiscusse di Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Aldo Romano, nel lavoro di cui ci stiamo occupando, il non meno interessante Amelia di Martha J. & Chebat Quartet, ci troviamo a confronto con musicisti non conosciutissimi al di fuori dell’ambiente strettamente jazzistico. Eppure sia la cantante milanese Martha J. che Francesco Chebat, pianista e responsabile degli arrangiamenti di Amelia, hanno alle spalle una lunga gavetta di concerti e una buona produzione di album – questo è il loro sesto lavoro dopo il primo Dance Your Way to Heaven del 2010.

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