R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Difficile tracciare la nosografia d’una passione, se consideriamo quest’ultima una sorta di malattia così come la descrivevano i filosofi antichi. Ma se invece la valutiamo come una scossa profonda innescata dal desiderio, una pulsione che arricchisca e scuota motivando l’individuo verso una direzione ambita, allora il concetto di pathos acquisisce un valore più profondo e positivo. La stessa importanza che in quest’ultimo Echoes of the Inner Prophet riguarda la tenor-sassofonista Melissa Aldana, avvolta, come lei stessa ammette, da una forma di trasporto devozionale verso la figura artistica di Wayne Shorter. Se nel precedente 12 Stars – leggi qui – l’Autrice cilena dimostrava la sua completa integrazione nel clima musicale newyorkese, in questo settimo album in carriera la presenza spirituale del maestro del New Jersey diventa l’occulta guida a condurne l’ispirazione, affidandole il testimone della propria continuità creativa. Raramente, almeno in questi ultimi tempi, ho avuto l’opportunità di ascoltare una musicista come l’Aldana che in questo album sembra realmente essere la naturale erede di Shorter. Pare quasi che il suo particolare modo di suonare, cercando spazi intervallati tra note spesso molto distanti, in un continuo sali-scendi di sonorità tese ma sempre piuttosto morbide e umorali, insomma lontane da ogni forma di manifesta aggressività, riveli un’atmosfera virata all’oscurità, una direzione interiore quasi auto-analitica finalizzata alla ricerca di Sè.

Una penombra enigmatica che si rappresenta anche dalla copertina dell’album, la splendida fotografia in b/n dove mi sembra di cogliere anche qualche somiglianza fisica con un’altra artista che ha avuto anch’ella non poche influenze dal jazz, come Rickie Lee Jones. Ma questa di Echoes... non è una musica facile, così come mi è capitato occasionalmente di leggere in qualche giudizio affrettato. Essa si spinge in avanti molto al di là delle aspettative legate a criteri tradizionali o al desiderio di un ascolto lineare. Infatti, più o meno allo stesso modo di Shorter, Aldana segue un percorso cerebrale di strane melodie, nitide e con pochi temi ben percepibili pur rimanendo in ambito tonale. Sequenze di rigorosa eleganza s’incuneano in una sezione ritmica che pare sorvegliare con passo assorto le sinuose contorsioni dinamiche del sax. Sbaglieremmo però nel ritenere che l’Inner Prophet si esaurisca nella figura dell’influenza shorteriana, riducendo così il valore autonomo della creatività di Aldana. Questa interiore voce profetica emblematicamente enfatizzata nel titolo dell’album, assomiglia piuttosto ad un daìmonion socratico, che come asserisce la stessa Autrice nell’inserto stampa della Blue Note “… rivela cose su di me, comprese quelle che non mi piacciono”. In definitiva sembra attuarsi un discorso sincretico in cui gli aspetti in ombra della sua personalità si fondano con la suggestione e l’influenza di un luminoso Maestro com’è stato lo stesso Shorter. La formazione di musicisti che accompagna Aldana è quasi la stessa presente in 12 Stars con l’eccezione del pianista cubano Fabian Almazan che sostituisce Sullivan Fortner. Ritroviamo infatti il norvegese Lage Lund alla chitarra – figura importante per l’equilibrio compositivo dei brani dell’album – il cileno Pablo Menares al contrabbasso e lo statunitense Kush Abadey alla batteria. Il gruppo così organizzato, forte di un’esperienza comune nata nei diversi tour e nei numerosi concerti, riesce empaticamente a seguire istante per istante il cammino ermetico del sax di Aldana, riconoscendo a lei la giusta leadership, impegnata com’è nella sua costante ricerca di colloquio interiore. E in effetti sei composizioni su otto sono firmate dalla stessa Autrice.

Proprio la title track Echoes of the Inner Project ha il compito d’introdurci all’interno della struttura dell’album. Il primo passo si fa tenue e delicato tra suoni acustici ed interventi elettronici. La luce rosata che sembra ricoprire la musica ricorda le ondose, tremolanti apparizioni delle ninfee di Monet. Il tenore della Aldana aromatizza il brano con corte tentazioni melodiche quasi flautate sulle note alte. Unconscious Whispers si sviluppa su una sottile trama di chitarra, mentre il sax cerca un’angolazione espressiva ideale, muovendosi tra interessanti cambi tonali e inserti timbrici caldi, soprattutto quando si suggerisce qualche ricordo latino. Almazan si dedica ad una tessitura complessa di note, ma nel contempo riesce a mantenere una componente di ariosa trasparenza. Ma è sempre il sax di Aldana la vera sorpresa, alla ricerca di melodie insolite, a tratti evanescenti ed instabili, misteriosamente irrisolte, con la ritmica che accompagna attenta a non stravolgere questo clima decisamente laconico ed in altri momenti più denso di materia musicale.

A Story ha una genesi tutta sua. La racconta la stessa compositrice in un video su YT dove risponde ad un’intervista condotta da Don Was, l’attuale guida della Blue Note. Ispirata durante una passeggiata a Coney Island dal ricordo di un brano di Kurt Rosenwinkel, The Remedy – tratto da un album del 2008, il Live at the Village Vanguard – Aldana sviluppa uno tra i brani più melodici e addolciti dell’intero lavoro. Anche per merito di un assolo misurato di Lund, si viene a creare un pezzo che si snoda tra vaporose atmosfere latine, condotto con una serie di cromatismi che non ne intaccano la cantabilità intrinseca, ben coadiuvata dalla cosmesi ritmica apportata dalla coppia Menares-Abadey. The Solitary Seekers, già nell’esplicito titolo, testimonia la volontà di ricerca interiore dell’autrice, qui evidenziata da una linea melodica piena di sussulti, di andamenti curvilinei e di mobili confini tra Sonny Rollins e il sempiterno Shorter. Il commentario ritmico si mantiene sempre efficace ed elastico, soprattutto per quel che riguarda l’utilizzo della batteria colta in qualche stacco più deciso del solito. L’assolo di chitarra questa volta sconfina nei modi alla Metheny. Non così invece l’esibizione del piano, veramente sui generis, a mezza strada tra be-bop e tentazioni free. Sul finale si avverte anche qualche sporadico effetto elettronico, quasi completamente inglobato nell’architettura sonora complessiva. Ritual è un brano di Pablo Menares, introdotto da un incipit di accordi pianistici. Si tratta di una ballata dai toni scuri, introvertiti, dalle intenzioni elusive sintetizzate dal bel dialogo sax-chitarra. Di prammatica l’assolo del compositore al contrabbasso in un divenire melodico ripreso poi da Aldana con i suoi soffi che paiono a volte appena accennarsi. A Purpose s’allinea tra le tracce più tradizionali e cantabili, se vogliamo, con un inizio che ricorda certi interluoghi musicali alla Steps Ahead. Un continuo susseguirsi di un ciclo tematico ripetuto dal sax – ho contato sei ripetizioni – in mezzo al quale Aldana imposta quelle sue divagazioni tremule, dei glissati che oscillano tra le note e quando sembrano esaurirsi per mancanza di fiato invece cadono fermamente puntuali tra un ciclo e l’altro. Spiccano gli assoli, quello morbido alla chitarra di Lund e quello tranquillo ma senza vincoli puristici di Almazan, spinto dal desiderio di costeggiare all’estremo la tonalità d’impianto. Cone of Silence porta una dedica a James Farber, stimato ingegnere del suono, ed è probabilmente il brano più shorteriano dell’intera selezione. A metà tra una classica ballad e una meditazione dai toni un po’ spettrali, il pezzo si avvale, oltre che dal suono carezzevole del sax – si rischia di scivolare però a volte in toni un po’ lamentosi – anche da un prezioso affresco musicale in cui gli strumentisti s’intercalano con adeguato senso della misura, in modo da supportarsi l’un l’altro formando un bersò impressionista di colori sfumati. Da rimarcare il melodico e tenue assolo di contrabbasso e la postilla dialogica finale tra sax e chitarra. Si chiude con I Know, You Know firmato da Lund che emerge in uno dei suoi assoli, stavolta di stampo molto classico, spiccando tra insoliti effetti di tastiera elettronica e i fraseggi della Aldana, in quest’ambito molto puliti e angolosi. Il brano si sviluppa con una certa ironica bonomia e conclude l’album in tono defaticante.

Non è certo un sax convenzionale, questo di Melissa Aldana. Sottraendolo a tutti i riferimenti a cui abbiamo accennato riguardo la figura di Shorter, rimane comunque un personalissimo suono che ama scivolare continuamente sugli accenti, creando un’illusoria sensazione instabile e stimolando, proprio per questo tratteggio, una continua impressione di mutevolezza. Ma sono proprio queste sembianze provvisorie, queste movenze precarie tra le note che ne sottolineano l’aspetto caratteristico e oserei dire unico.

Tracklist:
01. Echoes of the Inner Prophet (2:58)
02. Unconscious Whispers (6:50)
03. A Story (6:08)
04. The Solitary Seeker (6:08)
05. Ritual (4:02)
06. A Purpose (5:00)
07. Cone of Silence (5:18)
08. I Know You Know (6:26)