C I N E M A
Articolo di Barbara Guidotti
La stanza è in penombra, disordinata. Se avesse un odore sarebbe di aria viziata, satura di sentori di cibo e di sudore. Sul divano siede un uomo enorme, una montagna di carne dagli occhi azzurri, che lì trascorre la maggior parte della propria esistenza, immobilizzato dalla propria mole. Respira a fatica, e per calmarsi nei momenti di panico legge o si fa leggere una tesina su “Moby Dick”. La messa in scena è teatrale, come teatrale è la pièce di Samuel D. Hunter da cui la pellicola è tratta, che ci fa percorrere gli ultimi giorni di vita di Charlie – un professore d’inglese che insegna online -, la cui obesità rappresenta l’approdo di un’esistenza vissuta nell’irrimediabile segno della perdita. Una perdita così lacerante da necessitare una compensazione bulimica che faccia tacere il dolore, la mancanza, il vuoto incolmabile lasciato da un lutto mai elaborato, in nome del quale è stata sacrificata anche la famiglia, e con essa il rapporto con la figlia (Sadie Sink, che dopo la prova in “Stranger Things” si riconferma come una delle più promettenti giovani attrici del panorama cinematografico contemporaneo).

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