Intervista di Cinzia D’Agostino

Nella musica di oggi, nel mainstream ma non solo, le collaborazioni vengono decise dall’alto, si affiancano nomi noti diffusi a profusione sui network radiofonici, nomi che fanno numeri. In una nicchia della musica indipendente, chiamiamola pure underground o alternativa, le collaborazioni nascono dalle interconnessioni, da quella magia che collega le persone e fa nascere opere di stupefacente bellezza, proprio perché innescate da autenticità e genuinità. Come questo nuovo lavoro degli A Toys Orchestra, Midnight Again, uscito il 22 marzo, dopo sei anni di sonno, interrotto da una sveglia interiore che ha deciso che fosse giunto il momento di alzarsi e dare una forma alle emozioni e ai mutamenti maturati nel tempo. È quindi di nuovo mezzanotte, la loro mezzanotte ma anche la vostra, la mia che, dopo sei anni, con qualche capello bianco in più, ritorno a scambiare piacevolmente qualche chiacchiera con Enzo Moretto a parlare di quello che, secondo me, è l’album più completo, sincero e commovente della loro lunga produzione.

Io parto sempre dalla copertina perché è simbolicamente un po’ il manifesto del disco. La vostra rappresenta un uomo con un orologio al posto della testa che guarda il polso dove normalmente leggiamo l’ora. Quale rapporto hai col tempo e perché hai scelto questa copertina che rappresenta il tempo stesso? Contando che sono passati pure 6 anni…
Concettualmente ci sei andata molto vicina a quella che è la mia concezione del tempo, questo paradosso che si crea nella copertina tra l’uomo che ha la testa di orologio che guarda egli stesso il tempo. Soprattutto oggi, nel 2024, tutto quello che è successo nell’arco di sei anni, a noi e a tutto il mondo, ha creato un’altra forma di percezione. È tutto più veloce ma in altri momenti si è rallentato in modo drastico, motivo per cui, anche questo periodo di pausa lungo, a noi è sembrato un attimo. Questo essere così beffardo dello scorrere tempo, mi è sembrato eloquente per quello che poi il disco racconta.

Infatti ti chiedo com’è nata l’urgenza ad un certo punto di tornare a comporre dopo un lungo sonno? Che poi per sonno non mi riferisco a nulla di negativo, anzi… Il sonno della ragione genera “mostri”
Forse c’era bisogno di una pausa fisiologica, anche se io non ho mai smesso di scrivere musica. In quel momento non stavo pensando ai Toys Orchestra perché serviva tirare il fiato, serviva riarredare casa ai Toys. Era necessaria una pausa a cui si è aggiunta quella del covid e, per forza di cose, ci siamo anche allontanati ed a un certo momento è suonata la sveglia. Ci siamo rivisti e di tutte le cose che avevo scritto, mi ero accorto di avere un disco dei Toys Orchestra pronto che si è creato da solo, è stato lui a chiamare noi.

Quindi lo hai maturato durante il covid?
Assolutamente! Ho scritto centinaia di canzoni in quel periodo, ho continuato ininterrottamente a fare musica ma queste canzoni tra di loro avevano una parentela, una familiarità e si sono scelte come disco. Dal momento in cui ci siamo rivisti e abbiamo parlato di questa possibilità, ho manifestato la mia idea ai ragazzi di non rifinirla troppo in sala prove ma di andare in uno studio che non fosse troppo asettico, infatti siamo andati in un casolare di campagna. La mia idea, per arrangiare le canzoni, era di non utilizzare le cose che già conoscevamo a menadito come tastiere, tastierine… ma chiamare un ensemble di fiati, uno di archi e affiancarci a un coro gospel. Mentre stavamo sviluppando le idee, ci sono capitate una serie di coincidenze. Eravamo comunque all’ottavo disco per cui volevamo la totale libertà di rendere queste canzoni quanto più naturali possibile, senza trucchi e senza trucco.

Dell’incontro col coro gospel hai già raccontato in un tuo post, invece dell’orchestra che mi racconti?
C’erano delle idee che mi frullavano nella testa e man mano che mi si presentava un’occasione cercavo di coglierla, così com’è successo con le ragazze del gospel con le quali condividevamo la sala. Attendendo che finissero la funzione religiosa ho sentito i loro canti e me ne sono invaghito e ho chiesto al pastore la possibilità di fare una collaborazione e da lì è nata una cosa bellissima. Lo stesso è accaduto anche per gli altri ragazzi. Non volevo chiamare musicisti di spicco, volevo che fosse fatto da persone assolutamente normali. Stavamo ripartendo anche noi e volevamo ripartire in maniera totalmente autentica. Girando per i localini bolognesi che ogni tanto frequento, come un posto dove si tengono delle jam session di musicisti legati all’ambiente del jazz e del soul, ho visto ragazzi suonare fiati che erano incredibili. Avevamo amicizie in comune per cui mi sono messo in contatto con loro e ho mandato le prime bozze, i primi provini, quello che erano le mie idee. Ne abbiamo discusso e provato insieme ed è andata così. Idem per gli archi. C’era una ragazza di Agropoli che ha un suo gruppo, “La camerata degli ammutinati”, che suona musica classica contemporanea. Sono andato a vedere un loro concerto e siccome cercavo sempre di coinvolgere tutte quelle cose che mi entusiasmavano, ha entusiasmato anche loro l’idea di farle insieme, ci siamo visti, abbiamo provato ed è nato così.

Certo, tutto torna. Siete l’orchestra dei giocattoli…
A questo proposito, quanto ha inciso l’ingresso di questi due nuovi membri? Dal vivo Maria Giulia mi ha stupito per la naturalezza sbarazzina con la quale ha portato suoni nuovi, freschi. La batteria di Alessandro ha dato invece vibrazioni più calde. Immagino che nello sviluppo dei brani ci sia stato un interscambio di idee ed improvvisazioni, conoscendo l’atmosfera che create, anche molto naturale…
È assolutamente andata così. Con Alessandro abbiamo incominciato prima perché io avevo creato dei provini dove avevo già comunque realizzato una bozza di quello che potevano essere le batterie. Poi ci siamo incontrati ed io e lui abbiamo cominciato a suonare e a sviluppare un po’ quello che si chiama tecnicamente l’interplay, la connessione tra noi musicisti, Abbiamo fatto una seconda sessione di provini con le sue batterie e abbiamo visto che quello che notavi tu era lampante. Rispetto ad Andrea (Perillo ndr) che conferiva quella fisicità che ha fatto per tanto tempo il suono dei Toys Orchestra, con Alessandro avevamo la possibilità di attingere ad un altro tipo di colore, che confaceva benissimo a quello che noi stavamo per realizzare. Mentre con Maria Giulia è nato tutto dalla complicità umana che si è creata. È la compagna di Bruno (Bruno Germano ndr), che è il proprietario dello studio, il fonico che ci segue dal vivo e che suona anche con noi. Quindi lei, assistendo spesso alle sessioni di registrazione, era sempre più presa bene quindi, come tu ben sai, vista la nostra apertura ad accogliere persone soprattutto in base all’umanità, alla personalità, alla forza di empatia e di amore che si crea, ho cominciato sempre più a coinvolgerla. All’inizio dicendole “dai metti due percussioni”, “dai fai due cori con le ragazze” e alla fine abbiamo registrato un po’ di cose insieme. Quando poi abbiamo cominciato a lavorare al tour, mi è venuto molto naturale dirle “Maria Giulia, a questo punto entra nei Toys” e subito lei si è impanicata perché, essendo una batterista, mi ha chiesto “cosa devo suonare?” “Devi suonare tutto”. Questo rapporto umano, l’amore per la condivisione, è stato fondamentale per la ripartenza dei Toys e ha fatto sì che ci fosse un nuovo entusiasmo che sgrossasse una parte di fardello che avevamo sulle spalle con il nostro passato. Era veramente un ricominciare, avendo anche due nuovi membri. E infatti credo abbia funzionato molto bene.

Molto bene direi, infatti mi hai fatto venire in mente il video di Goodbye Day che rappresenta quello che nel nostro immaginario può essere successo in quella sala di registrazione, dove peraltro il video è stato interamente girato. Ed è un po’ la sintesi della vostra esperienza di creazione del disco, di come le vostre anime si siano incontrate dando terreno fertile alle vostre creatività.
Fabio (Luongo ndr) è stato bravo, aveva già lavorato con noi. Ci eravamo sentiti ma non si era ancora parlato di fare un video. Gli avevo raccontato di come fossero andate le registrazioni finché non mi ha detto: “Sai che facciamo? Vengo un giorno a Bologna, rimettiamo i microfoni, risuonate, non mi cagate di striscio mentre io sono lì con la telecamera e risuonate quella canzone e fate una giornata in studio”. Ed è stato così, una sorta di docufilm.

Durante l’ascolto ho piacevolmente carpito qua e là frammenti di vostri pezzi del passato, come appunto in Good Bye Day. Poi, guardando il video, ho visto pure il teschio di Peter Pan Syndrome, oltre a catturare con l’orecchio qualche incursione di Mystical Mistake. Questi crossover sono nati da un flusso di creatività o è stata un’introduzione voluta ed anche ironica?
Un po’ tutt’e due. Quando abbiamo sentito che c’erano delle connessioni con il passato, come ad esempio l’andamento un po’ alla “Celentano”, il synth che fa Ilaria che ricorda un po’ Peter Pan Syndrome, abbiamo deciso di incalzare su questo, anche per il contrasto con il significato della canzone: i giorni dell’addio, il tema del tempo, dove ti attacchi, ti riallacci, lo abbandoni. Era qualcosa su cui giocare, avevamo a disposizione tanti contrasti che facevano da divertissement. E poi, il fatto che ci siamo rivisti con Fabio per il video dopo ben 17 anni dall’ultima volta che era in Powder on the Word! Quando abbiamo visto il teschio stavamo facendo il bianco e nero e abbiamo detto “mettiamo il cameo”.

Da dove è uscito questo teschio, era in sala di registrazione?
Era lì in casa di Maria Giulia e Bruno. Lei ha iniziato a prendere oggetti a caso, infilava la tromba in bocca al teschio, era come una bambina di 3 anni. C’è stata quindi questa voglia di giocare anche col nostro passato, di citarlo ma farlo senza riscaldare la minestra.

Nel disco ho percepito delle contaminazioni molto interessanti. Oltre ai i cori gospel, il blues, gli archi, i fiati di cui abbiamo parlato, ho sentito anche contaminazioni secondo me inevitabili, come i richiami a tutto ciò che abbiamo ascoltato nella vita. È più forte di me, il mio orecchio è andato subito a pescare nella mia memoria interna musicisti che non ti citerò ma che, vista la stessa età anagrafica, abbiamo ascoltato entrambi
È normale che ci siano dei riferimenti ed è anche giusto e bello che ci siano geni di qualcun’altro all’interno delle opere di oggi, fa parte dell’evoluzione. Come ci siamo evoluti noi esseri viventi, anche la musica è un essere vivente che si evolve. Oggi la vera arte è la trasformazione attraverso il filtro dell’onestà intellettuale, l’importante è non cercare di copiare in maniera becera. Lo diceva anche David Bowie che “rubacchiare” è un’arte, lui stesso lo ha sempre fatto partendo dalle copertine, dagli outfit, dalla musica. È qualcosa di fisiologicamente inevitabile per chi ha ascoltato tanta musica.

State presentando il nuovo disco e le prime date sono state un successo. Ho avuto l’immenso piacere di partecipare alla prima data di Bologna al Locomotiv e, come ti ho già detto, sembrava che il tempo non si fosse mai fermato. Avevate un’energia trascinante su quel palco, come se non ne foste mai scesi e i pezzi nuovi dal vivo spaccano. Come è stato per voi tornare on stage e, soprattutto, sentire questa forte risposta del pubblico? Vi ha dato carica? Ve lo aspettavate o era un’incognita per voi?
Anche questa volta, tutt’e due le sensazioni. Il fatto che ci vai sempre molto vicina a quella che è la verità è perché ci conosci benissimo e hai grande connessione con gli A Toys Orchestra. Quando siamo saliti sul palco, dopo dieci minuti sembrava davvero di non aver mai mollato dopo così tanto tempo e non sembrava nemmeno di essere una band alla prima data, tra di noi intendo. Ma c’era qualcosa di chimico che poi ha fatto sì che ci lasciassimo andare e ci godessimo quel momento. E torna anche questo fatto della distorsione del tempo perché sono passati tanti anni ma invece in quel momento il tempo ha incominciato a girare in una maniera differente. Sembrava che non ci fosse stata una lunga pausa, sembrava che non suonassimo da così poco insieme anche perché abbiamo fatto poco più di un mese e mezzo di prove e nemmeno tutti i giorni. Eravamo quindi un po’ preoccupati ma poi alcuni segnali cominciavano ad essere ottimistici, le prevendite andavano bene, la gente cominciava a scriverci e quindi siamo arrivati lì carichissimi, emozionati come dei ragazzini alla prima data. Non essendolo poi per motivi anagrafici, una volta che l’adrenalina è andata in circolo, il concerto è diventato un rituale mistico per noi, siamo andati in questa sorta di trance e lì siamo andati avanti.

Sai, all’indomani dal lockdown, ho avuto la percezione di svegliarmi in un mondo cambiato per quanto riguarda la musica, soprattutto dal vivo, dove nasceva un’altra realtà, quella dei concerti nei palazzetti e dei sold out. Un po’ come in un film di fantascienza in cui il protagonista ibernato si sveglia dopo trent’anni e trova le auto che volano. Questa è la mia personalissima percezione e trovo in voi da sempre una nicchia di consolazione e di respiro. Non vi siete fatti mai scalfire, non avete mai tradito la vostra identità e questo disco ne è il frutto tangibile
Quello che stai dicendo è innegabile, il mondo è cambiato il covid è stato veramente un acceleratore del tempo ma ha anche tranciato in maniera netta con quella che era la storicizzazione della musica. Le due fasi storiche della musica ante covid e post covid non hanno mai trovato contatto ed è per questo poi che tante realtà sono scomparse, il modo di produrre musica e concerti è cambiato drasticamente. Quando eravamo costretti a stare in casa c’era da riadattare la fruizione e ha fatto sì che avvenisse per ovvi motivi attraverso i social, attraverso la tecnologia e quindi le nuove generazioni si sono abituate poi a prenderla così. Quello che preserva noi, e per noi intendo noi mondo Toys, tutti quelli che lavorano con noi ma anche tutto il nostro pubblico, è che c’è una nicchia di persone che ha bisogno invece di continuare a vivere la musica così. Io non mi sono mai preoccupato né ieri né oggi di dovermi affidare ad un periodo storico, non me n’è mai fregato niente. Il mio modo di intendere la musica, come probabilmente di chi mi segue, non è di appartenere al lasso temporale anzi, forse proprio grazie alla musica possiamo astrarci dalla concezione di tempo, spazio e anche di luogo. Noi siamo italiani, cantiamo in inglese, lo facciamo in Italia, lo facciamo all’estero e questo ci dà la possibilità di allontanarci da questi concetti. Ma noi non abbiamo mai fatto parte realmente di una scena in 25 anni di attività e questa cosa è utile non solo a noi, ma a una porzione di pubblico che poi ci segue e che, come tu stessa sei stata testimone, ci ha portato il suo calore ed è stato bellissimo.

Com’è essere musicisti in Italia negli anni 20 rispetto a qualche anno fa? Intendo, voi avete sicuramente mantenuto la stessa identità, ma le dinamiche sono cambiate…
Sicuramente di diverso c’è il contorno, dove dobbiamo agire. Una volta la fascia media come la nostra era molto florida, c’erano tantissimi locali, ad oggi dobbiamo fare i conti col fatto che molti di questi sono addirittura chiusi o soffrono. Oppure una volta c’era tanto cartaceo. Però l’imput per noi di continuare a fare musica resta lo stesso, è quella componente irrazionale di non curarsi troppo di quello che succede intorno, ma piuttosto pensare all’interno di quello che stiamo facendo. In qualche modo ci salva il culo perché arriva a qualcuno, alle persone che ci seguono, a chi crede in noi e tutto resta invariato e si riallaccia a quello che ti dicevo, che si crea questa questa bolla spazio temporale.

Ritornando al disco, è un lavoro corale, in ogni senso… Oltre alla forma e all’impatto nell’ascolto, un coro cattura anche per la solennità con la quale ti comunica un pensiero. Mi viene in mente il teatro greco, in cui la funzione del coro era importantissima, quasi un monito, un mantra. Nelle vostre canzoni spesso lo si trova, ma in quest’ultimo lavoro, l’ho percepito ancora più presente ed ammaliante...
È assolutamente così perché questo disco ha una necessità superiore di trovare la connessione con gli altri perché nasce dalla solitudine, da un periodo di stacco dagli altri componenti della band, dal lockdown. Per cui, quando poi ho ripensato a rimettere in piedi gli A Toys Orchestra, alla necessità di ritrovare gli altri in una coralità – e non parlo solo della band, parlo di trovare le persone, l’umanità in qualche modo, vista come coralità attraverso anche i sentimenti più bui come possono essere la solitudine, la perdizione – c’era questa necessità di tendere le braccia verso gli altri. Ed è per questo che si percepisce di più, perchè è andata esattamente così.

Mi hanno veramente colpito i repentini cambi di registro di ogni singola canzone, l’ondeggiare di differenti sfumature dalla malinconia ai suoi antipodi dell’euforia che vira poi verso slanci inaspettati. Lo sai che ad un certo punto, ascoltando “Take me home” in cuffia, l’ho immaginata in una scena madre di un film di Tarantino?
Non sei la prima a dirlo, Ilaria lo ha sempre detto “procuriamoci l’e-mail di Tarantino e facciamogli ascoltare i nostri pezzi” La difficoltà è procurarsela… (ridiamo). Questo è il frutto di quello che ti stavo raccontando. Quando vivi la solitudine, hai più modo di sperimentare quelli che sono i tuoi contrasti interiori quindi le grosse differenze umorali che si provano quando hai tanto tempo per stare con te stesso, puoi sprofondare nel baratro e poi cercare di rialzarti, vivere momenti di entusiasmo, di rabbia, momenti di dolcezza. Purtroppo, bisogna tornare a parlare di quello che è stato il lockdown, anche se a me non piace molto nominarlo. In quei momenti, alle volte ci si sentiva vicini e alle volte si aveva paura del tuo prossimo e ciò ci ha reso sempre più soli, a contatto con noi stessi e i contrasti interiori io li ho metabolizzati nella scrittura. Inevitabilmente ci sono cambi repentini, era quello che mi stava succedendo. In Take me home all’inizio c’è quasi un’atmosfera conciliante, da focolare, però la verità è che nasconde una grande paura e la paura la esprime soprattutto nell’ultima parte. Prima stai cercando il contatto con le persone, con Dio attraverso il gospel (che poi Dio può essere chiunque, qualsiasi entità superiore), così come poi sentirsi completamente soli, persi nella tempesta che arriva dalle tue mura casalinghe che alle volte non puoi arginare. Quella canzone, per trovare veramente senso, doveva avere un finale del genere. Si perdeva quel senso di sicurezza e di ricerca di sicurezza e ci si lasciava trasportare dai demoni.

Nella cartella stampa si legge ”Una voce fatta di fumo e vino rosso che racconta storie che non vorrebbe mai raccontare o che muore dalla voglia di farlo”. Praticamente sei tu in composizione?
Sì, devo confessare che l’ho scritta io.

Questa scelta di registrare in analogico la trovo molto coerente con la vostra autenticità che sempre vi contraddistingue e nel contempo valorizza molto il disco, lo rende più diretto ai sensi, caldo, emozionante. È stata una scelta simbolica o stilistica?
Entrambe le cose perché sono funzionali l’una all’altra. In analogico hai meno possibilità di edulcorare, di andare a rifinire e ritoccare mille volte le cose, a levigarle. Che poi le cose… più le tocchi più diventano artificio. Questo disco non ne aveva bisogno perché nasceva da una verità, da un’urgenza e tutto quanto doveva essere raccontato in quel modo e l’unico modo per esprimerlo davvero nella maniera più realistica possibile, era quella di andare a lavorare con l’analogico che ha tutto un altro modo di far percepire il sonoro e di raccontare la fascia emotiva dell’intersezione degli strumenti e delle voci. Ti dirò che oltre all’analogico abbiamo cercato anche di non stratificare troppo le cose e questo è stato merito alle intuizioni di Bruno che quando ha visto che c’era l’utilizzo di archi, fiati e cori ha detto “non li faremo uno alla volta, li facciamo tutti insieme. Deve succedere come fosse un live e deve essere percepibile quella che è l’intera azione tra esseri umani, tra musicisti che stanno usando delle braccia, dei muscoli…” e questo è stato funzionale a quello che è stato l’aspetto emotivo.

Infatti è dedicato a chi di mezzanotte non se n’è persa una, come diceva qualcuno… Non ti chiederò cos’è la mezzanotte…
Tanto lo sai benissimo… (ridiamo)

Sulla tua chitarra storica si leggeva “la speranza è un trappola”, ora invece campeggia la scritta “Love is Love
Perché è un sentimento che per certi versi è stucchevole, l’amore è stato troppo rimodellato in questi anni, ha perso troppo senso. Invece quello che c’è di bello in un sentimento come l’amore è proprio la semplicità totale, senza andarlo a spiegare troppo, L’amore è amore, non deve essere come nel mondo di oggi in cui tutto deve essere per forza catalogato, dove tutti vogliono dire e riscrivere i significati delle cose. Penso che l’unico che resti invariato dall’alba dei tempi è l’amore perché racchiude tutto, è il concetto della vita. Il modo più semplice di esprimerlo è attraverso una non spiegazione, “love is love”, nelle sue forme e nei suoi colori.

Photo © Beatrice Belletti.