Primo marzo, la primavera alle porte (nonostante il freddo invernale sia tornato a irrigidire le nostre giornate) e le solite, comode, poltrone del cinema Arcobaleno ci assistono mentre le luci si spengono e viene proiettato L’Ombra di Goya, docu-film diretto da José Luis López-Linares e scritto da Jean-Claude Carrière e Cristina Otero Roth. Dodici esperti, un corale e multidisciplinare cast cercano di trovare una risposta ad apparentemente semplice quesito: com’è possibile che un artista come Francisco Goya abituato a realizzare ritratti dolci, luminosi, sensuali e curati, fosse lo stesso in grado di realizzare opere così oscure e grottesche come l’affresco Crono che divora i suoi figli? Quanto doveva essere spiccata e significativa la sua sensibilità per cogliere tutto questo male nel mondo?
Al solito, coccolati dalle poltroncine tra le mura ormai note del Palazzo del Cinema Anteo, abbiamo avuto la possibilità, il 23 di gennaio, di assistere ad un momento di ascolto del nuovo album di Franco Mussida, leggendario chitarrista fondatore della PFM, vera e propria pietra miliare della storia musicale milanese, italiana ed europea. Sviluppato da Moondays, Il pianeta della musica e il viaggio di Iòtu (CPM Music Factory/Self Distribuzione) ha la caratteristica di essere disponibile in Pure Audio Blu-Ray, oltre ad avere tracce rilasciate Hi Res, ovvero col master originale. In veste di compositore e guida dell’intervento, il maestro Mussida vuole indicarci il percorso che lo ha portato a questa nuova avventura, verso il futuro, come ha sempre fatto. Accanto a lui Lorenzo Cazzaniga, “padre e figlio del progetto musicale” come ci tiene a sottolineare il chitarrista (in termini più precisi, curatore e produttore del progetto).
Cosmic Res dei C+C=Maxigross, in uscita il 20 gennaio, è pronto a portarci in cunicoli astrali psichedelici, proprio come tutti i loro ultimi lavori. La formazione rimane la medesima: il collettivo, nato nel 2011, vede come autori principali di musiche e testi Tobjah (Tobia Poltronieri) e Cru (Niccolò Cruciani) aiutati nell’arrangiamento e nelle produzioni da Duck Chagall, co-fondatore. Sebbene siano passati solo due anni dall’ultimo sforzo discografico del collettivo (SALE/ELAS è uscito nel 2020), sono stati un periodo sufficientemente pregnante e impattante sulla storia, anche personale, dei due artisti: in primo luogo ovviamente l’isolamento forzato causato dalla Pandemia da Covid-19, in secondo luogo la prematura scomparsa di Miles Cooper Seaton, fondatore del gruppo indie/folk Akron/Family, grande amico personale dei C+C=Maxigross dopo il suo trasferimento a Verona. Si può dire che l’album sia sostanzialmente dedicato alla sua memoria e, soprattutto, frutto della sua eredità: nonostante siano sicuramente presenti riferimenti testuali all’intero delle composizioni, tutta la musica presente nell’album risente delle atmosfere synth folk (psichedeliche al punto giusto) tipiche dell’arte di Seaton. Ad anticipare l’uscita dell’album sono stati rilasciati come singoli Ooh, and it makes me wonder (eh sì, sono proprio i Led Zeppelin) a novembre e Io me ne sto fermo ad aspettare il mese successivo.
Tardo autunno, quasi inverno. Una Milano fredda, appannata da una luce offuscata dai vapori gelati. Eppure, si sentono in lontananza grida di lotta, gladiatori, creature infernali, dei ed eroi, e tutto d’un tratto siamo catapultati in un passato glorioso, nel mito. Un sapore di salsedine, una ventata d’aria calda mediterranea sembra colpirci, mentre all’orizzonte sembrano scorgersi paesaggi incantati, tra villaggi bianchi, navi da commercio, legionari e stregoni. Tutte queste sensazioni nascono dopo un ascolto di Mondo Peplum, secondo capitolo del side project del cantautore Alessandro Grazian, Torso Virile Colossale uscito l’11 novembre di quest’anno. Oltre ad aver ascoltato questo piccolo capolavoro della musica strumentale, ho avuto il piacere di poter incontrare Alessandro e farci due chiacchiere, in un grazioso bar sul Naviglio Grande, per parlare dell’origine, della realizzazione e dei segreti di questo lavoro.
Botticelli e Firenze. La nascita della bellezza, è un documentario realizzato magistralmente, in cui l’arte di Sandro Botticelli, stella eterna del Rinascimento italiano, si fonde con l’arte cinematografica e recitativa moderna, espressamente legata alle forme espressive dell’arte performativa, grazie alla maestria del regista Marco Pianigiani. Ci viene presentato un Botticelli differente dallo sguardo accademico classico, come un uomo ambizioso seppur sensibile, strettamente legato tanto alla filosofia quanto all’ambiente politico fiorentino, interessato alla vita, alla morte e alla bellezza. Ci viene presentato soprattutto in una veste quasi inedita, quella di grandissimo narratore. L’opera si struttura in diversi capitoli, accompagnati dalla voce di Jessica Trinca, atti a completare una panoramica sui segreti della città di Firenze nel pieno della sua epoca d’oro, il Rinascimento, sulla figura del suo leader indiscusso, Lorenzo de’ Medici detto “il Magnifico”, del suo lato oscuro, il frate domenicano Girolamo Savonarola e infine del suo cuore, l’artista (in questo lavoro, “estremamente contemporaneo”) Sandro Botticelli.
In una romantica e storica bocciofila di Turro, zona nella periferia nord di Milano, ho assistito ad uno dei momenti più formativi ed intriganti della mia vita: una conferenza stampa di Francesco Guccini. Classe 1940, dischi e successi a non finire, fan di ogni generazione, tanta poesia, ironia e umanità sono la carta d’identità di questo gigante della musica italiana, che il 18 novembre ha pubblicato il suo ultimo lavoro, inaspettato e attesissimo allo stesso tempo, Canzoni da Intorto, di cui ci racconta le origini e le caratteristiche. Non si può parlare del disco senza prima valutare cosa sia stato e cosa sia diventato Guccini nell’ultimo periodo. L’ultimo lavoro discografico risaliva al 2012, anno in cui ha salutato i palchi e la musica (fino ad oggi), dopo una carriera di oltre cinquant’anni in cui ha saputo viziare cuori e orecchie degli ascoltatori con testi indimenticabili, a tratti irriverenti e un tantino coloriti, in grado di raccontare in egual misura la dimensione interiore sia dell’autore che dell’Italia, osservata tramite lenti da “filo-anarchico”, come lui stesso ci ha tenuto a precisare in sala stampa. E ora, a distanza di pochi metri e separati solo da un palchetto su una pista di bocce, come si mostra Francesco Guccini? Vediamo un uomo innegabilmente stanco e anziano, che ha bisogno di aiuto a muoversi e che si sente in parte lontano da questo mondo moderno (in sala stampa passa il microfono all’accompagnatore a seguito di una domanda poiché non sa cosa sia lo streaming), ma tuttavia ancora in grado di incantare con risposte sempre adeguate, quasi mai retoriche e ben motivate, a dimostrazione che il cuore e la mente invecchiano a velocità sensibilmente diverse rispetto al corpo. In poche parole, è ancora maledettamente bravo a raccontare, raccontarsi, essere magnetico, essere un cantautore, anche se di musica e brani non ne scrive più.
Ieri ci siamo trovati alla periferia sud di Milano, precisamente alla Santeria Toscana, tempio della musica live della città, per assistere alla rassegna stampa introduttiva della sesta edizione della Milano Music Week. Pensata per la settimana tra il 21 e il 27 novembre, vedrà Milano autoincoronarsi “capitale italiana della musica”, colorando l’intera città e invadendola di note ed emozioni in grado di attrarre appassionati da tutta Italia.
Il sindaco Giuseppe Sala ha introdotto coloro che hanno direttamente lavorato alla realizzazione di questo progetto: Nur Al Habash, direttrice generale dell’iniziativa, accompagnata sotto il profilo dell’ideazione dai cantautori Colapesce e Dimartino, piacevolmente sfidati ad uscire dal mero ruolo di artisti e porsi dall’altro lato, quello dell’organizzazione. Numerosi e di notevole importanza sono i promotori dell’iniziativa, una rete di imprese e soggetti cardine nel mondo della musica, come la Fimi, Assomusica, Nuovoimaie e la SIAE, a loro volta organizzatori e moderatori di alcune delle iniziative e dei talk presenti durante l’intera settimana.
Jean-Michel Jarre presenta in anteprima, in una fin troppo calda giornata di metà ottobre, il suo ultimo lavoro, Oxymore, album figlio della pandemia e dedicato a Pierre Henry, grande amico e fonte di ispirazione del compositore, purtroppo scomparso pochi anni fa, e spesso ricordato con commozione durante l’intervento in sala, successivo all’ascolto, moderato da Luca De Gennaro. Raccontare la carriera di Jarre significa narrare una serie di successi e soddisfazioni senza fine, partendo dal 1976, anno in cui pubblica Oxygène, opera che totalizza dodici milioni di copie vendute e apre all’artista le porte dell’Olimpo della musica elettronica, rendendolo il punto di riferimento di musicisti e sperimentatori di tutto il mondo. Per non parlare del grandioso concerto del 1997 a Mosca, classificato dal Guinness dei primati come il più grande della storia, e del celeberrimo concerto di Capodanno in una Notre Dame virtuale. Cos’altro si dovrebbe dire per mostrare quanto sia un onore assistere ad un’esperienza del genere?
John Legend è senza ombra di dubbio uno dei simboli dell’industria musicale degli anni duemila, radicato negli anni ’90, ma sempre attento ad ogni novità ed influenza. Otto album all’attivo, miliardi di streaming, valanghe di premi, ruoli da protagonista in musical di successo e riconoscimenti di ogni genere hanno forse influenzato le aspettative su Legend, progetto ambizioso composto da due dischi e ventiquattro tracce (ma ventitré nuovi brani, essendo presenti due versioni di uno stesso pezzo) che non ha conquistato il cuore di pubblico e critica. Si può dire che la grande problematica dell’intero lavoro, sia innanzitutto l’eccessivo numero di brani in generale, non sempre ispirati e sostanzialmente ripetitivi, sia dal punto di vista di atmosfera e sonorità, sia sotto il profilo dell’arrangiamento e della produzione. Il lavoro risulta sicuramente compatto e coeso, ma forse a tal punto da non permettere ad alcun brano di spiccare e differenziarsi dagli altri, generando una sensazione continua di deja vù e noia. Una decina di brani in meno non avrebbe guastato probabilmente, rendendo sicuramente il lavoro di una portata differente, ma forse più convincente.