R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
L’ombra benevola di Charlie Parker, ancor più che quella di altri grandi del sax, influenza la sonorità di Chris Potter in quello che è il suo terzo disco in carriera registrato live al Village Vanguard di New York e cioè Got The Keys to The Kingdom. Non è solo una confessione personale quando Potter afferma che “..la mia estetica come sassofonista è sempre stata basata su Bird, Lester Young e Rollins..”. C’è anche la compartecipazione del destino intervenuto sotto le sembianze del trombettista Red Rodney che fu, nel 1949, membro del quintetto di Parker, insieme a Gillespie. Rodney ha officiato il battesimo musicale di Potter in quel di New York, dato che proprio nella Grande Mela si è completata la formazione dell’allora poco più che ventenne sassofonista proveniente dalla South-Carolina. Qualcosa di quel glorioso periodo di fioritura be-bop sotto la stirpe parkeriana è rimasto impigliato tra le chiavi del sax di Potter anche se è altrettanto indubbio che un ulteriore numero di spiriti benevoli abbiano visitato la tecnica e l’ispirazione di questo sassofonista, non ultimo quello di Coltrane. Nonostante Potter sia relativamente giovane – nato nel 1971 – è giunto ora al suo ventiquattresimo album da titolare ma possiamo contare oltre un centinaio di collaborazioni con il fior fiore del jazz contemporaneo. Qualche nome? David Binney, Dave Douglas, Dave Holland, Pat Metheny, Paul Motian, John Patitucci, Steely Dan, Wayne Shorter, Enrico Pieranunzi e qui mi fermo perché l’elenco è lunghissimo e volentieri vi rimando a Wikipedia per ulteriori ragguagli. In questo ultimo album, ritroviamo Scott Colley al contrabbasso – già con Potter in Lift, prima esperienza live al Vanguard nel 2004 – Craig Taborn al piano – partner del sassofonista in Follow the Red Line, seconda esperienza sempre nello stesso prestigioso locale newyorkese avvenuta nel 2007 – e infine il terzo elemento del gruppo, l’esuberante batterista Marcus Gilmore, nipote del grande Roy Hanes.

L’esperienza d’assieme di questo ensemble tende a ridurre gli aspetti più intimisti della musica – che tuttavia non mancano di certo – per sottolineare i picchi d’energia, talora attraverso gli ubriacanti fraseggi di Potter e il beat ritmicamente urgente su cui spesso s’avventa il piano di Taborn. L’Autore si concentra qui esclusivamente sul suo sax tenore, dotato di un’appassionata carnalità che in alcuni passaggi, quelli più vicini al modello be-bop, ricorda l’impeto di Sonny Rollins. Il sax tende ad occupare la maggior parte dello spazio sonoro a disposizione, insieme al pianoforte, ma questo atteggiamento non è da interpretare come atto cannibalesco nei confronti degli altri componenti del gruppo. Si tratta invece di una naturale, debordante tensione improvvisativa, caratterizzata dalla tendenza al riempimento dei vuoti, riducendo la dimensione del silenzio ma anche salvaguardandola laddove proprio non potrebbe mancare, come avviene in Blood Count. Tutti i brani presenti in questa selezione sono composizioni altrui, tracce già note che definire standard veri e proprio richiederebbe un deciso atto di coraggio, data la loro relativa poca frequenza esecutiva. Si tratta di un insieme piuttosto eterogeneo di pezzi, alcuni di provenienza colta – Billy Strayhorn, Charlie Parker, Heitor-Villa Lobos, Jobim – mentre altri sono rifacimenti di musiche religiose e popolari. Il clima fondamentale è piuttosto divampante, le geometrie sonore alle volte diventano convulse, altre volte oscillano verso un atteggiamento più moderato e meditativo.
You gotta move inizia con qualche nota solitaria di sax che prelude all’entrata degli altri strumenti in una dimensione inizialmente piuttosto tranquilla, velata di blues così come voleva uno dei principali esecutori di questo spiritual tradizionale, il bluesman Fred Mc Dowell, detto “Mississipi”. Il cantato “originale” viene esposto in seconda battuta ma poi l’intraprendenza jazzistica di Potter comincia a lavorarci sopra trasformandolo in qualcosa d’altro, molto simile a certi inserti coltraniani che non facciamo fatica a riconoscere. Il fraseggio di Potter si fa più serrato mentre l’assetto ritmico resta conforme alle aspettative. Parte l’inserto pianistico che non tradisce la matrice blues anche se risulta evidente il desiderio di libertà espressiva, al di fuori dei canoni ristretti delle dodici battute. Quando il pianismo di Taborn si concede una maggior libertà, riappare il sax che ricuce le fila della sintassi originale. Da qui in poi entra in scena la batteria di Gilmore che alza il punto di ebollizione con un assolo totalizzante, a mezza strada tra un tribalismo ancestrale e una festa di percussioni variopinte. Ritorna il sax a mettere ordine e il groove dell’insieme si ricompatta prima delle battute finali. Nozani Na è un brano popolare di origine amazzonica, trascritto dal medico antropologo brasiliano Edgar Roquette-Pinto, riveduto e riadattato da Heitor Villa-Lobos, uno dei massimi compositori brasiliani tra fine ‘800 e prima metà del ‘900. Il trattamento proposto da Potter tiene parzialmente conto della melodia con un intro che ricorda vagamente la coltraniana A Love Supreme, almeno nella battute iniziali. Il sax gira intorno allo svolgersi melodico con ripetute frasi fino alla comparsa dell’assolo di piano che va in cerca di pacchetti dissonanti e decostruiti. Non si può far a meno di percepire, sul fondo, l’intenso partecipare del contrabbasso e della batteria. La ripresa del sax la si avverte dopo gli applausi che la sortita di Taborn ha innescato nel pubblico. Per un lungo tratto, al silenzio sopravvenuto del pianoforte, la musica si evolve in trio sax, batteria e contrabbasso. Tutto si asciuga mentre Potter svisa alla Parker e la ritmica mantiene una sfolgorante varietà di sostegno fino alle note conclusive del sax cercate nella parte più grave delle chiavi.

Arriviamo quindi a quello che ritengo sia la punta di diamante dell’album, un rifacimento straordinario di Blood Count, opera del braccio destro di Ellington, cioè Billy Strayorne, composto nel 1967. Una lunga, soffusa introduzione in solitidine del piano di Taborn – che non si discosta molto, in nuce, dalla traccia melodica originale – prepara un sottofondo atmosferico di rarefatta bellezza dentro le cui astrazioni comincia a muoversi il sax di Potter. Potremmo definire questo brano come un classico contemporaneizzato dove il duetto piano e sassofono cerca una via trasversale, sfidando la tonalità fino al momento in cui riemerge la melodia portante. Le zone ombrose riempiono la musica di momentanee parentesi, nonostante la traccia riproponga spesso la linea principale del brano, caratterizzata da ampi spazi intervallari – questa composizone, proprio per questo aspetto, mi ha sempre ricordato l’Harlem Nocturne di Earle Hagen… Il sax si fa a volte mellifluo, altre volte ruggisce come un leone in gabbia ma quella certa, dolente inafferrabilità che è poi l’anima profonda del brano, resta intatta sotto la lirica revisione di Potter & C. Con Klactoveedsestene è quasi impossibile non accorgersi della mano di Charlie Parker, che compose e pubblicò questo brano inizialmente in un singolo targato 1947. L’esecuzione del gruppo non cerca di raccontar di taglio l’aspetto convulso e dinamico della creazione parkeriana ma questa viene affrontata di petto laddove Potter e Gilmore dimostrano gran parte del loro investimento tecnico. E se il sassofonista non sorprende di certo, qualche parola in più va spesa per i notevoli, incalzanti stacchi del batterista. Ma è tutto il gruppo ad esprimere una esuberante vitalità, in un clima che procede oltre il senso di un devoto omaggio, con i suoi tuoni e lampi di felice improvvisazione. Olha Maria è di Jobim (1970), laddove i testi originali furono scritti da Chico Buarque e De Moraes. Parte l’introduzione solitaria di contrabbasso ad imitazione quasi di una chitarra. Anche se Colley non ha niente da dimostrare a nessuno, fa sempre piacere ascoltare le sue note piene e misurate costruire una fantastica trama tissutale sotto le escursioni del sax. La combinazione prosegue con l’entrata in gioco sia di Gilmore che del piano di Taborn, con quest’ultimo che va a colorare d’iridescenze luminose il già ricco tappeto sonoro preparato dal contrabbasso. L’ultimo brano dell’album, Got the Keys to the Kingdom, è uno spiritual ovviamente riarrangiato da Potter che tende a preservare la linea del canto, ben percepibile fino al minuto 01’20”, da dove poi inizia il lungo flash improvvisativo che potremmo collocare idealmente a mezza strada tra Parker e Rollins. Addirittura la ritmica prende una piega latina inaspettata dal minuto 05’00” e il piano di Tabor ha tutto l’agio di lanciarsi in picchiata sulla tastiera, aprofittando della larga disponibilità armonica che il ritmo afro-cubano sembra offrire. Buon lavoro d’indipendenza delle due mani del pianista verso il finale dell’assolo, dove contemporaneamente alla velocità esecutiva della mano destra la sinistra imposta una robusta cellula di note d’accompagnamento. Grande momento di Gilmore che entusiasma il pubblico in un martellante corpo a corpo con i suoi tamburi.
Siamo al cospetto di un disco ben acceso di dinamismo, quasi roccioso, soprattutto per l’impegno live al Vanguard che obbliga psicologicamente gli esecutori a premere più forte sul tasto della performance. La band scruta autopticamente le viscere storiche del jazz rifacendosi evidentemente ai periodi più densi e fermentativi del be-bop, turbinando ritmicamente e melodicamente sulle ali di quei modelli improvvisativi che hanno benedetto l’origine più recente del jazz moderno. Ma quando lo spirito diventa più intimo e il gruppo si ritrae dalla vorticosa velocità esecutiva quasi per riordinare le proprie idee come avviene nel brano di Strayhorne, l’abbandono malinconico che affiora riflette un sentimento privo di annotazioni spurie e fa emergere un insieme di risonanze emotive, sorprendenti quanto inattese.
Tracklist:
01. You Gotta Move (14:02)
02. Nozani Na (10:53)
03. Blood Count (9:01)
04. Klactoveedsedstene (7:27)
05. Olha Maria (6:22)
06. Got the Keys to the Kingdom (13:36)
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