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Chris Potter – Got the Keys to the Kingdom Live at the Village Vanguard (Edition Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

L’ombra benevola di Charlie Parker, ancor più che quella di altri grandi del sax, influenza la sonorità di Chris Potter in quello che è il suo terzo disco in carriera registrato live al Village Vanguard di New York e cioè Got The Keys to The Kingdom. Non è solo una confessione personale quando Potter afferma che “..la mia estetica come sassofonista è sempre stata basata su Bird, Lester Young e Rollins..”. C’è anche la compartecipazione del destino intervenuto sotto le sembianze del trombettista Red Rodney che fu, nel 1949, membro del quintetto di Parker, insieme a Gillespie. Rodney ha officiato il battesimo musicale di Potter in quel di New York, dato che proprio nella Grande Mela si è completata la formazione dell’allora poco più che ventenne sassofonista proveniente dalla South-Carolina. Qualcosa di quel glorioso periodo di fioritura be-bop sotto la stirpe parkeriana è rimasto impigliato tra le chiavi del sax di Potter anche se è altrettanto indubbio che un ulteriore numero di spiriti benevoli abbiano visitato la tecnica e l’ispirazione di questo sassofonista, non ultimo quello di Coltrane. Nonostante Potter sia relativamente giovane – nato nel 1971 – è giunto ora al suo ventiquattresimo album da titolare ma possiamo contare oltre un centinaio di collaborazioni con il fior fiore del jazz contemporaneo. Qualche nome? David Binney, Dave Douglas, Dave Holland, Pat Metheny, Paul Motian, John Patitucci, Steely Dan, Wayne Shorter, Enrico Pieranunzi e qui mi fermo perché l’elenco è lunghissimo e volentieri vi rimando a Wikipedia per ulteriori ragguagli. In questo ultimo album, ritroviamo Scott Colley al contrabbasso – già con Potter in Lift, prima esperienza live al Vanguard nel 2004 – Craig Taborn al piano – partner del sassofonista in Follow the Red Line, seconda esperienza sempre nello stesso prestigioso locale newyorkese avvenuta nel 2007 – e infine il terzo elemento del gruppo, l’esuberante batterista Marcus Gilmore, nipote del grande Roy Hanes.

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John Bailey – Time Bandits (Freedom Road Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

C’è una nicchia anche per gli amanti del jazz mainstream, pure se questo termine, che viene utilizzato per comodità, in realtà non mi piace affatto. Suona un po’ come un riferimento denigratorio anche se invece si allude prevalentemente alla modalità di genere in auge negli anni’50 e ’60. Come afferma lo stesso trombettista John Bailey, riguardo questo suo nuovo lavoro Time Bandits che potrebbe benissimo inquadrarsi in quest’ottica stilistica, “…la sensazione ritmica è ciò che si definisce come jazz”. Che si possa concordare oppure no, con questa dichiarazione c’è comunque una regola di fondo non scritta, al di là della valenza ritmica, che è alla base di ogni tipo di jazz, anche e soprattutto di quello definito mainstream. Mi riferisco alla indubbia abilità tecnica e, per mezzo di questo assoluto tramite, alla conseguente capacità espressiva che ne possa originare. Tutto questo non lo si acquisisce per puro dono divino – e i musicisti lo sanno bene – ma solo con anni di studio e direi soprattutto di confronto con altri strumentisti. E così è andata per lo stesso Bailey, cinquantasettenne trombettista newyorkese, con una gavetta professionale estremamente eclettica che l’ha guidato a testarsi tra molti generi e varianti musicali, dalla Buddy Rich Band a Ray Barretto, da Ray Charles a Frank Sinatra, da Woody Hermann a Kenny Burrell e altri ancora. Una carriera quarantennale che l’ha attualmente portato alla pubblicazione del suo terzo disco da titolare. Per la preparazione di questo Time Bandits, Bailey s’è scelto un trio di musicisti che chiamare iconici è dir poco. Ladies & gentlemen, potete ammirare George Cables al pianoforte, 79 anni di vita e di esperienze con i migliori jazzisti in assoluto della Storia e passando un po’ di tempo su WP al riguardo ci si può aggiornare sulle sue collaborazioni, avendone voglia. Alla batteria c’è Victor Lewis, anni 72, e anche per lui è una bella lotta tra compartecipazioni e lavori solistici. Last but not least Scott Colley al contrabbasso, che con i suoi 59 anni di età è il più giovane tra i musicisti arruolati da Bailey ma non per questo quello con meno esperienza. Insomma, un trio che definirlo stellare è fin poco e che garantisce al leader, com’è facile immaginare, ampio sostegno e una solida struttura armonica e ritmica per le escursioni della sua tromba. Altro fattore suggestivo è il luogo in cui questo album è stato inciso, cioè il mitico Rudy Van Gelder studio nel New Jersey, dalle cui pareti trasudano le orgogliose voci del periodo Blue Note, Prestige, Impulse! e insomma gran parte della Storia più fiorente e seminale del jazz. La musica che Bailey propone, potete già intuirlo, è un jazz piuttosto classico, con qualche parentesi contemporanea ma fondamentalmente ancorato allo stile che partendo da Dizzy Gillespie – a cui lo stesso Bailey ha dedicato l’insolito lavoro Can You Imagine del 2020 – si trova a costeggiare Thad Jones – “il più grande trombettista mai ascoltato” come lo definì Mingus – Freddie Hubbard e Woody Shaw fino ad arrivare ai giorni nostri a lambire lo stile lirico e preciso di Tom Harrell.

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