R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

C’è una nicchia anche per gli amanti del jazz mainstream, pure se questo termine, che viene utilizzato per comodità, in realtà non mi piace affatto. Suona un po’ come un riferimento denigratorio anche se invece si allude prevalentemente alla modalità di genere in auge negli anni’50 e ’60. Come afferma lo stesso trombettista John Bailey, riguardo questo suo nuovo lavoro Time Bandits che potrebbe benissimo inquadrarsi in quest’ottica stilistica, “…la sensazione ritmica è ciò che si definisce come jazz”. Che si possa concordare oppure no, con questa dichiarazione c’è comunque una regola di fondo non scritta, al di là della valenza ritmica, che è alla base di ogni tipo di jazz, anche e soprattutto di quello definito mainstream. Mi riferisco alla indubbia abilità tecnica e, per mezzo di questo assoluto tramite, alla conseguente capacità espressiva che ne possa originare. Tutto questo non lo si acquisisce per puro dono divino – e i musicisti lo sanno bene – ma solo con anni di studio e direi soprattutto di confronto con altri strumentisti. E così è andata per lo stesso Bailey, cinquantasettenne trombettista newyorkese, con una gavetta professionale estremamente eclettica che l’ha guidato a testarsi tra molti generi e varianti musicali, dalla Buddy Rich Band a Ray Barretto, da Ray Charles a Frank Sinatra, da Woody Hermann a Kenny Burrell e altri ancora. Una carriera quarantennale che l’ha attualmente portato alla pubblicazione del suo terzo disco da titolare. Per la preparazione di questo Time Bandits, Bailey s’è scelto un trio di musicisti che chiamare iconici è dir poco. Ladies & gentlemen, potete ammirare George Cables al pianoforte, 79 anni di vita e di esperienze con i migliori jazzisti in assoluto della Storia e passando un po’ di tempo su WP al riguardo ci si può aggiornare sulle sue collaborazioni, avendone voglia. Alla batteria c’è Victor Lewis, anni 72, e anche per lui è una bella lotta tra compartecipazioni e lavori solistici. Last but not least Scott Colley al contrabbasso, che con i suoi 59 anni di età è il più giovane tra i musicisti arruolati da Bailey ma non per questo quello con meno esperienza. Insomma, un trio che definirlo stellare è fin poco e che garantisce al leader, com’è facile immaginare, ampio sostegno e una solida struttura armonica e ritmica per le escursioni della sua tromba. Altro fattore suggestivo è il luogo in cui questo album è stato inciso, cioè il mitico Rudy Van Gelder studio nel New Jersey, dalle cui pareti trasudano le orgogliose voci del periodo Blue Note, Prestige, Impulse! e insomma gran parte della Storia più fiorente e seminale del jazz. La musica che Bailey propone, potete già intuirlo, è un jazz piuttosto classico, con qualche parentesi contemporanea ma fondamentalmente ancorato allo stile che partendo da Dizzy Gillespie – a cui lo stesso Bailey ha dedicato l’insolito lavoro Can You Imagine del 2020 – si trova a costeggiare Thad Jones – “il più grande trombettista mai ascoltato” come lo definì Mingus – Freddie Hubbard e Woody Shaw fino ad arrivare ai giorni nostri a lambire lo stile lirico e preciso di Tom Harrell.

Il primo brano in sequenza è proprio il medesimo che intitola l’album, cioè Time Bandits. L’inizio è quasi elementare – si fa per dire – giocando continuamente su un intervallo ripetuto di seconda maggiore, dietro il quale il resto della band con Lewis e Colley in testa, comincia a scaldare i motori. Un breve riff di piano accompagna l’altalena della tromba su quei due toni iniziali che preludono all’improvvisazione. Lo strumento di Bailey è pulitissimo, si slancia tra le note con una precisione chirurgica facendo squillare la timbrica che risplende di luce abbagliante così come avrebbe brillato la tromba dello stesso Gillespie. Swing e be-bop come se piovesse e sui tempi implacabili gestiti dalla ritmica Lewis-Colley, si lancia anche Cables con un solismo ultraterreno, una trama di suoni così ben fatta che è persino raro ascoltarne una simile in molte delle produzioni contemporanee. Colley ne approfitta per proporre un suo breve e ficcante assolo, e così è per la batteria blakeiana di Lewis, fino a chiudersi con la ripresa del semplice tema proposto inizialmente. Various Nefarious – che in italiano suona più o meno come nefandezze variabili – ha una sua motivazione, nel titolo. Si riferisce al periodo lockdown e il termine various allude al doppio senso sia grammaticale che riguardante le varianti virali, mentre nefarious è un termine spesso usato per definire i comportamenti negativi della classe politica in genere. Il brano è un blues in cui Bailey risente forse maggiormente dell’impronta di Shaw, ma la sua tromba è sempre solare e sgargiante e ci evidenzia platealmente quale sia, nel caso del suo strumento, lo stato dell’arte. Apprezziamo l’accompagnamento di Cables al piano che di blues evidentemente se ne intende parecchio, infilando nel rigore tonale di questa musica qualche fuggevole ma ben percepibile fuga in avanti, dilatando cioè le sue scale fino ad uscire impercettibilmente e con maestria dai limiti armonici che la struttura stessa del blues suggerisce per sua natura. C’è anche spazio per un assolo di Colley sul finale. Long Ago and Far Away esce dall’arcinota scrittura di Jerome Kern, autore sempre molto celebrato nel mondo e specie in U.S.A, creatore di conosciutissime melodie diventate jazz standard come The Way You Look Tonight (1937), The Last Time I Saw Paris (1942), Smoke Gets In Your Eyes (1933) ecc… Autentico peana di uno swing con un tocco di romanticismo tutto old style, il brano viene introdotto da una breve progressione di note discendenti che fluiscono poi nel tema. Il pezzo forte è naturalmente la sezione improvvisativa in cui possiamo riscontrare la tipica chiarità sonora di Bailey, anche e soprattutto nel mentre del proprio fraseggio. Il lavoro di Cables è altrettanto magistrale per come riempie con i suoi accordi molto dinamici le pause che lascia Bailey, e questo a monte del suo assolo, comunque sempre perfetto nello stile sviluppato con la solita scioltezza. Ma tutto il brano è condotto con mano felice, esplicitando quella stordente gioia di vivere che solo il jazz sa regalare nei suoi connubi più elevati tra ritmo, melodia ed improvvisazione. Dopo l’elegante assolo di Colley viene ripreso il tema e portato fino alla chiosa finale. Ode to Thaddeus è un’accorata ballad dedicata a Thad Jones che fu uno degli ispiratori di Bailey e questo ci aiuta a farci un’idea della completezza tecnica dell’esecutore che adatta il suo suono di regola così acceso alle tonalità mellow mood richieste dal brano. Sul soffice accompagnamento ritmico fornito dalla coppia Lewis-Colley siamo in grado anche di avvertire il tocco morbido di Cables al piano. Spettacolare eleganza che trasuda da tutte le battute, un’occasione d’insieme così ben organizzata non capita tutti i giorni di poterla ascoltare. È la volta poi di un brano di Victor Lewis, Oh Man Please Get me Out of Here! che si presenta inizialmente con una serie di stacchi e riprese ben gestita dal piano il cui fine è di innescarsi in uno swing lanciato da un serrato lavoro solistico di contrabbasso. Ma la costruzione tutta pause e riprese continua inframmezzandosi tra gli interventi della tromba e del piano, contribuendo ad offrire a questo brano un bell’aspetto dinamico, continuamente cangiante.

Il pezzo che segue è di Lennon-McCartney, She’s Leaving Home, diventando successivamente alla sua pubblicazione nel 1967 su Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un appetibile brano di riarmonizzazione jazzistica. Nonostante la mia personale devozione per questa traccia e per i suoi autori originali, devo dire che essa risulta come la componente più debole di questa raccolta. Sembra quasi suonata più per dovere che per piacere. Bailey ha sovrainciso la tromba per creare, sembrerebbe, un desiderio di contrappunto ma la ritmica è molto blanda e Cables fa il suo minimo sindacale. Pare che la corrente elargita fin qui dalla band sia passata ad un voltaggio inferiore – qualcuno ricolleghi la spina, per favore… Detto fatto, ma non nel modo che potremmo immaginare. Rose è una traccia il cui tema sembra sia composto con andamento dodecafonico. Tutto il gruppo lavora su un altro livello di coscienza, molto più contemporaneo, tanto è vero che ascoltando questo brano slegato dal contesto difficilmente lo si potrebbe attribuire all’album che stiamo seguendo. Tutto ciò per riflettere sull’eclettismo di Bailey, che è anche l’autore di questo insolito motivo. Finalmente si assiste anche a un breve assolo di Lewis, libero dalla dittatura di un tempo fisso, che ci dà dentro ma con moderazione. How Do You Know è di Garry Dial, un pianista americano mio coetaneo – quindi anzianotto – che viene qui omaggiato indirettamente da Bailey, in quanto il vero tributo è diretto a Ira Sullivan, mentore del nostro trombettista che incise questo pezzo nel suo album Print insieme con l’altro fiatista Red Rodney nell’83. Un bell’intro dalle tonalità scure, scarne fino ad essere austere, spinge un brano che sembra una ballad ma che poi imbocca il corridoio di uno swing leggiadro, mantenendo un sentore intimo e che, in definitiva, per me si attesta ad essere come uno dei brani migliori dell’album. Prestate orecchio alla leggerezza di Lewis e al completo assolo di Colley, nonché all’intervento pianistico di Cables, ormai completamente ripresosi dal torpore beatlesiano, che swinga con le sue abituali e raffinate prodezze sulla tastiera del pianoforte. E di quest’ultimo straordinario compositore e strumentista cogliamo una fioritura in Lullaby, una sua creazione in cui si esprime duettando con la tromba di Bailey. L’inizio è spettacoloso, un incipit di solo piano dalle molte sfumature impressioniste, così come è bello l’abbrivio della tromba che procede quasi in sincrono con Cables per qualche battuta. Verso metà brano il pianoforte accenna ad un ritmo più deciso e spigoloso ma la tromba sorvola tutto questo ben attenta a non alterare il mood della composizione. Forse il brano più sofisticato del disco. Chiude Groove Samba e poteva mai mancare in una band composita e musicalmente poliedrica come questa, l’usuale cimento latino? Un samba assai jazzificato, suonato in punta di bacchette soprattutto da Lewis e nobilitato da un assolo spumeggiante di Cables e dalla posa spigliata di Colley.

Bailey è un attento tessitore di rime musicali, ha lavorato in sicurezza scegliendosi dei partner di statura principesca, è il caso di dirlo. I saliscendi dinamici della tromba vengono cosi strutturati dall’accompagnamento terrigno della base ritmica e dall’eleganza del pianismo di Cables. Ciò che si ottiene è un quadro di rigore sintattico che pur non seguendo la strada della contemporaneità propone un’anima solida e collaudata. Mainstream, quindi, ma senza quelle valenze riduttive, sia ben chiaro, di cui si era accennato all’inizio di questa recensione.

Tracklist:
01. Time Bandits
02. Various Nefarious
03. Long Ago And Far Away
04. Ode To Thaddeus
05. Oh Man, Please Get Me Out Of Here!
06. She’s Leaving Home
07. Rose
08. How Do You Know?
09. Lullaby
10. Groove Samba

Photo © Scott Friedlander