L’ombra benevola di Charlie Parker, ancor più che quella di altri grandi del sax, influenza la sonorità di Chris Potter in quello che è il suo terzo disco in carriera registrato live al Village Vanguard di New York e cioè Got The Keys to The Kingdom. Non è solo una confessione personale quando Potter afferma che “..la mia estetica come sassofonista è sempre stata basata su Bird, Lester Young e Rollins..”. C’è anche la compartecipazione del destino intervenuto sotto le sembianze del trombettista Red Rodney che fu, nel 1949, membro del quintetto di Parker, insieme a Gillespie. Rodney ha officiato il battesimo musicale di Potter in quel di New York, dato che proprio nella Grande Mela si è completata la formazione dell’allora poco più che ventenne sassofonista proveniente dalla South-Carolina. Qualcosa di quel glorioso periodo di fioritura be-bop sotto la stirpe parkeriana è rimasto impigliato tra le chiavi del sax di Potter anche se è altrettanto indubbio che un ulteriore numero di spiriti benevoli abbiano visitato la tecnica e l’ispirazione di questo sassofonista, non ultimo quello di Coltrane. Nonostante Potter sia relativamente giovane – nato nel 1971 – è giunto ora al suo ventiquattresimo album da titolare ma possiamo contare oltre un centinaio di collaborazioni con il fior fiore del jazz contemporaneo. Qualche nome? David Binney, Dave Douglas, Dave Holland, Pat Metheny, Paul Motian, John Patitucci, Steely Dan, Wayne Shorter, Enrico Pieranunzi e qui mi fermo perché l’elenco è lunghissimo e volentieri vi rimando a Wikipedia per ulteriori ragguagli. In questo ultimo album, ritroviamo Scott Colley al contrabbasso – già con Potter in Lift, prima esperienza live al Vanguard nel 2004 – Craig Taborn al piano – partner del sassofonista in Follow the Red Line, seconda esperienza sempre nello stesso prestigioso locale newyorkese avvenuta nel 2007 – e infine il terzo elemento del gruppo, l’esuberante batterista Marcus Gilmore, nipote del grande Roy Hanes.
Un rimarchevole gioco di intarsi strumentali è forse la caratteristica che più risalta all’orecchio riguardo alla musica di Patricia Brennan, grande vibrafonista, spesso impegnata anche alla marimba, che ha traslato nelle proprie sonorità i suoni legati alla sua infanzia e adolescenza mescolandoli con i più densi umori metropolitani. In modo particolare, questi ultimi, costituiscono un nodo di influenze esperite a Filadelfia e a New York, le città della sua formazione nell’ambito del jazz soprattutto contemporaneo. Ma la Brennan non proviene dal nulla. Nata in Messico a Veracruz, ha assorbito soprattutto le discorsività ritmiche afro-cubane delle danze latine di cui il padre era appassionato ed è venuta in contatto, come milioni di giovani negli anni ’70, con il rock dei Led Zeppelin e di Jimi Hendrix. Questa mescolanza di tradizione e contemporaneità potrebbe aver influenzato la sensibilità musicale della nostra vibrafonista che tuttavia ha iniziato presto le sue esperienze con le percussioni, all’età di quattro anni, passando però anche tra le maglie dell’insegnamento del pianoforte classico, iniziato per merito della nonna concertista e poi perfezionato in Conservatorio. Dai diciassette anni in poi la Brennan dimostra tutto il suo talento e le sue capacità, venendo coinvolta nell’organico di numerose orchestre, come la Youth Orchestra of Americas e in un secondo tempo con l’Orquestra Sinfonica di Xalapua e ancora con la Orquestra Sinfonica di Mineria. Negli USA la Brennan viene attratta dall’area del jazz contemporaneo e la ritoviamo perciò nell’Ensemble Kolossus del contrabbassista Michael Formanek, comparendo nell’album ECM The Distance (2016) dello stesso Formanek e in un altro disco, All Can Work di John Hollenbeck (2018). Ma al di là di ulteriori altre importanti collaborazioni è con Maquishti (2021) che la Brennan si affaccia in un album di puro solismo nel grande mare del jazz, un lavoro coraggioso senza rete per suoi due strumenti, vibrafono e marimba, al di là di qualche sporadico effetto elettronico. Questo suo ultimo lavoro in quartetto, More Touch, allarga e approfondisce il discorso già iniziato con il disco precedente. La distribuzione del peso creativo ed esecutivo coinvolgendo altri musicisti ha fatto molto bene alla Brennan, rendendo le proprie idee più fruibili ed apprezzabili e regalando alla sua arte una profondità tridimensionale che Maquishti non possedeva. Che musica esce da More Touch? Nonostante il genere possa essere etichettato sotto il termine avantgarde in realtà si tiene ben lontano da corrosivi sperimentalismi, preferendo climi tranquilli con ampi spazi aperti, talora riposanti e alle volte decisamente inquietanti. I centri tonali appaiono instabili e si può avvertire la strana sensazione di un continuo scivolamento verso posizioni tra loro apparentemente lontane, eppure costantemente legate dall’importante pulsazione ritmica di batteria, contrabbasso e percussioni che percorre tutto l’album. A tratti prevale l’impressione che il vibrafono e la marimba siano impegnati in una sorta di evocazione spiritica, completamente o quasi avvolti dalle ombre notturne e da atmosfere magico-misteriche. Altre volte siamo invece proiettati in aliene sale da ballo dove le originarie danze latine e i loro fondamentali hanno subito una radicale rivisitazione nei modi e dei movimenti. Ma a conti fatti, come suggerito all’inizio di questa recensione, tutte le dinamiche e i profili sonori tendono a regolarizzarsi tra loro con ordine geometrico, sotto quell’Ananke la cui presenza rende necessaria quest’amalgama di una forma nell’altra, come un mobile ligneo in cui si leggano le varie intarsiature distinte tra loro in diversi colori. Insieme agli strumenti della Brennan – vibrafono e marimba – lavorano tre musicisti come Kim Cass al contrabbasso, Marcus Gilmore alla batteria – forse il più famoso dei tre, nipote di Roy Haynes e con numerose collaborazioni alle spalle con Chick Corea, Gonzalo Rubalcaba, Nicholas Pyton, Steve Coleman, Vijay Iyer, ecc..- e infine il percussionista cubano Mauricio Herrera.
Credo che Pat Metheny possieda una elevata concentrazione di quella misteriosa vitamina cerebrale che si libera a volontà permettendogli una creatività ancora oggi ben lungi dall’esaurirsi. Certo, gli alti e bassi sono di tutti noi mortali e anche gli artisti non ne sono immuni. Per esempio ricordo ancora con un certo brivido il periodo in cui alle spalle dello stesso Metheny incombeva quel mostro faustiano dell’Orchestrion, interrogandomi dove mai avrebbe potuto portare tutto quel suo suonare da solo decine di strumenti, avendo continuamente il controllo di ogni nota. Una situazione quasi delirante in cui il passo successivo poteva essere quello di un’esplicita nevrosi ossessiva. Invece il sessantasettenne del Missouri non solo pare abbia brillantemente superato quel periodo ma si è rilanciato negli ultimi due anni con una coppia di dischi notevoli, From this place – disco jazz del’anno 2020 secondo Downbeat – e l’inaspettato Road to the sun uscito nel marzo di quest’anno in cui Metheny appare solo come compositore e non come esecutore di una serie di pregevoli brani cameristici incentrati sul ruolo della chitarra classica. La sua ultima produzione si raccoglie in questo Side-Eyed NYC V1/IV, che tradotto in italiano sta a significare più o meno “un’occhiata di sbieco a New York City”. Cosa mai potrà notare Metheny con la coda dell’occhio? Sicuramente il “via vai” dei giovani musicisti che ruotano attorno a lui in questo disco dal vivo. Il chitarrista americano, infatti, si presenta in trio con il supporto di uno stupefacente James Francies alle tastiere, talento incredibile di soli 26 anni – che pare occuparsi anche dell’ottava bassa di tutto il concerto sfruttando l’abilità della sua mano sinistra – e di un turnover di batteristi tra cui Marcus Gilmore – che sembra aver fatto la parte del leone in questa incisione – insieme ad Anwar Marshall, Nate Smith e Joe Dyson.