R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Credo che Pat Metheny possieda una elevata concentrazione di quella misteriosa vitamina cerebrale che si libera a volontà permettendogli una creatività ancora oggi ben lungi dall’esaurirsi. Certo, gli alti e bassi sono di tutti noi mortali e anche gli artisti non ne sono immuni. Per esempio ricordo ancora con un certo brivido il periodo in cui alle spalle dello stesso Metheny incombeva quel mostro faustiano dell’Orchestrion, interrogandomi dove mai avrebbe potuto portare tutto quel suo suonare da solo decine di strumenti, avendo continuamente il controllo di ogni nota. Una situazione quasi delirante in cui il passo successivo poteva essere quello di un’esplicita nevrosi ossessiva. Invece il sessantasettenne del Missouri non solo pare abbia brillantemente superato quel periodo ma si è rilanciato negli ultimi due anni con una coppia di dischi notevoli, From this place – disco jazz del’anno 2020 secondo Downbeat – e l’inaspettato Road to the sun uscito nel marzo di quest’anno in cui Metheny appare solo come compositore e non come esecutore di una serie di pregevoli brani cameristici incentrati sul ruolo della chitarra classica. La sua ultima produzione si raccoglie in questo Side-Eyed NYC V1/IV, che tradotto in italiano sta a significare più o meno “un’occhiata di sbieco a New York City”. Cosa mai potrà notare Metheny con la coda dell’occhio? Sicuramente il “via vai” dei giovani musicisti che ruotano attorno a lui in questo disco dal vivo. Il chitarrista americano, infatti, si presenta in trio con il supporto di uno stupefacente James Francies alle tastiere, talento incredibile di soli 26 anni – che pare occuparsi anche dell’ottava bassa di tutto il concerto sfruttando l’abilità della sua mano sinistra – e di un turnover di batteristi tra cui Marcus Gilmore – che sembra aver fatto la parte del leone in questa incisione – insieme ad Anwar Marshall, Nate Smith e Joe Dyson.

Cinque brani su otto sono già stati editati in lavori precedenti e qui rivisitati in questa forma a trio. Mi riferisco a Better days ahead da Letter from home (1989) e Timeline da Time is of the Essence, disco del 1999 di cui Michael Brecker era titolare. C’è poi anche Brigt Size Life e Sirabhorn che provengono addirittura da quell’album ECM che fu il lavoro d’esordio di Metheny, nel lontano 1976. In aggiunta è presente anche Turnaround tratto da 80/81. In fondo Metheny altro non fa che restituire ciò che gli era stato dato, cioè tutta l’esperienza che egli stesso ha raccolto negli anni della giovinezza suonando accanto a colleghi più anziani come Gary Burton, Dave Holland, Jim Hall, Roy Haynes, Ornette Coleman, ad esempio, passando poi il testimone ai musicisti più giovani che suonano con lui in questo disco e a tutti quelli che sicuramente ruoteranno in futuro attorno a questo progetto aperto da Side-Eyed. Utilizzando un termine di paragone per raccontare questo ultimo lavoro, potrei dire trattarsi di una sorta di riedizione letteraria, riveduta e corretta, di uno stile che pur essendo sempre quello riconoscibile negli anni, subisce una rilettura più fresca, rinvigorito e riottimizzato dal contributo dei suoi partner. L’atmosfera live e l’andare sul velluto della band conferiscono a questa musica tutta la leggerezza e l’eleganza necessaria a questo jazz rock fusion che non dimostra alcun segno d’invecchiamento.
It starts when we desappear apre la sessione svolgendosi quasi in un quarto d’ora di sottile godimento sensoriale. Metheny è sempre impeccabile nella linea melodica della sua chitarra ma quello che impressiona è la sicurezza, la precisione, quasi la spavalderia di Francies alle tastiere che insieme alla brillantissima batteria sostiene e struttura i misurati interventi del leader. Veramente un piccolo trattato su come si suona fusion, come imparare l’arte e farne tesoro. Si procede più lentamente, quasi sotto una luce lunare in Better days ahead, uno dei brani ripresi e ritradotti del repertorio di Metheny. Rispetto a quello tratto da Letter from home, il brano appare più asciutto, quasi mondato da tutte le fastidiose percussioni brasiliane dell’originale. Il ritmo è rallentato assai ed in questo contesto suona più fascinoso, grazie all’incredibile lavoro al piano elettrico di Francies – non finirò mai di stupirmi abbastanza (ma che gli fanno agli allievi delle scuole musicali americane per farli suonare così bene??). Timeline è il secondo brano riproposto dal passato, estratto dal lavoro di Brecker Time is of the essence. In questo frangente, rispetto alla traccia precedente, viene mantenuta l’impronta bluesy dell’originale con la chitarra che riempie l’assenza del sax di Brecker e l’organo di Francies che non fa rimpiangere Larry Goldings. Anche qui, condizionati da una certa attitudine alla sintesi e dalla diversa formazione rispetto al brano originale, gli equilibri tendono all’essenziale, i contrappesi sono tutti posizionati al posto giusto per ottenere uno spumeggiante e divertente elisir sonoro. Bright Size Life è un’altra ripresa, come già prima accennato e l’applauso iniziale del pubblico dimostra come quasi non si avvertano i quarantacinque anni trascorsi da quel lontano debutto ECM proprio con questo brano – prima traccia della facciata “A” dell’Lp. Il pezzo appare appena più accelerato, leggermente più convulso – ma questo credo sia dovuto alla natura stessa della performance live. Grande brillantezza nell’esecuzione, certo, ma forse rimpiango un po’ la pulizia estrema del brano così come si presentava all’esordio discografico. Banale questione di gusti personali, comunque, che non intaccano minimamente il principio estetico di questa musica. Lodger tira dalle parti della rock ballad e Metheny apre tutte le valvole, facendo fluire la timbrica della chitarra in territori più vicini a Clapton che non agli usuali stilemi jazz-fusion a cui ci ha abituati. Note iridescenti, distorte quanto basta per mandare in brodo di giuggiole il pubblico che risponde con gridolini di soddisfazione a questo cambio momentaneo di direzione. Con Sirabhorn si torna a ripescare nel grande mare del passato, ancora dall’arcipelago di Bright Size Life. In quell’album, occorre ricordarlo, era presente il basso elettrico di Pastorius che qui ovviamente manca ma bisogna dire che Francies si dà un gran da fare per tamponarne l’assenza, provando ad imitarne, per quanto possibile, il timbro con la sua tastiera. Melodia convincente, arrangiamento molto simile all’originale, con una batteria che varia maggiormente tra i piatti e un bel piano che non era presente nel trio operativo in Bright Size. Anche Turnaround, termine che i jazzisti usano spesso per indicare la ripetizione “all’infinito” di un particolare giro armonico su cui improvvisare, proviene da un vecchio album, 80/81 che vedeva Metheny impegnato con Charlie Haden e Jack DeJohnette tra gli altri. Brano dalle connotazioni tipicamente jazz dove Francies si lancia in assoli di piano probabilmente condotti su scale doriche, per dare l’impressione di portarsi ai margini della tonalità d’impianto. Chiude Zenith Blue in cui possiamo riascoltare il timbro classico prolungato ed effettato di Metheny cha ha costituito un po’ il suo marchio di fabbrica in tutti questi anni. Un brano che veleggia vicino alla costa dei Weather Report, con la chitarra che pare far rivivere le escursioni alla tastiera synth di Zawinul.
Pat Metheny dimostra, in questo scintillante album, di credere alla collaborazione con le nuove leve del jazz avendo scelto, in un gesto tutt’altro che corrivo, di esporsi insieme a musicisti più giovani per continuare a testare la bontà della propria musica e la sua proverbiale abilità tecnica. Metheny pare non accorgersene più di tanto del tempo trascorso dai suoi esordi, sbirciando di “sottecchi” gli anni che passano, magari non puntando più a qualcosa di nuovo – la sua parte, comunque, l’ha fatta – ma regalandoci lavori ispirati e coerenti proprio come questo.
Tracklist:
01. It Starts When We Disappear
02. Better Days Ahead
03. Timeline
04. Bright Size Life
05. Lodger
06. Sirabhorn
07. Turnaround
08. Zenith Blues
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