R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Dove e quando è cominciato tutto questo? Voglio dire, chi ha iniziato questa tendenza del jazz scandinavo – o comunque sarebbe meglio definirlo nordico – a proporsi con degli stigmi riconoscibili quanto insoliti, tanto da creare due antagoniste fazioni a riguardo, una di sostenitori ad oltranza e l’altra di oppositori accaniti? C’è infatti un gruppo di paesi nordici, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Islanda in cui il jazz è stato preso, filtrato e riproposto in una veste estetica ben diversa da quella che siamo abituati ad ascoltare, in genere, nel resto dell’Europa e in America. Qualcuno afferma che l’etichetta di Manfred Eicher, la ben nota ECM, insieme alla meno famosa Rune Grammofon, abbiano sortito da spartiacque, innescando una frattura all’interno della maniera classica d’intendere il jazz, imponendo un loro modo personale di tradurre questa musica, costruita attorno a temi più rarefatti, quasi mai frenetici ed infarciti spesso di elementi tradizionali che talora però si trovano a scivolare verso il rock o, per contro, ad indirizzarsi verso influenze di musica classica. Ma i paesi scandinavi, a monte del gran numero di jazzisti che essi stessi hanno prodotto, forse qualche preciso nume tutelare a questo riguardo ce l’hanno, indipendentemente dalle etichette discografiche che hanno fatto e fanno tendenza. Ad esempio, per quello che riguarda la musica incentrata sul pianoforte, il nome dello svedese Jan Johansson, pianista eccellente che purtroppo morì in un incidente stradale nel 1968, è un punto di riferimento accertato presso il nuovo jazz nordico. Per farsi un’idea di questa continuità possiamo facilmente reperire in streaming alcune sue originali incisioni, sia in solitudine che in gruppo, come Nusik Genom Fyra Sekler del ’68, oppure quello che fu il più grande successo di vendite personale, Jazz Pa Svenska, uscito nel’64.

È possibile affermare, con solo pochi dubbi al merito, che proprio dalla sua musica si sono sparsi quei semi preziosi che hanno fatto fiorire gruppi come i mai troppo celebrati E.S.T, i Martin Tingvall Trio, l’Espen EriksenTrio, Kjetil Mulelid, Bobo Stenson, Lars Danielsson e decine di altri nomi ancora. Anche se personalmente dissento dai luoghi comuni che definiscono questa musica come fredda, glaciale o chissà che altro – solo perché nasce a nord del mondo – non posso che trovarmi d’accordo con chi vi trova invece una forte componente romantica. Naturalmente mi riferisco ad un romanticismo filosofico e idealista, in grado di vedere la Natura come un tutt’uno prodotto dallo stesso Spirito che anima l’Uomo. Non più una Realtà concettuale, quindi, ma un’entità dentro cui dissolversi per ritrovare in sé stessi l’origine di ogni cosa. Ed è proprio all’interno delle pause in quel diradarsi delle sonorità, in una musica densa di lontananze e richiami che mi sembra di cogliere l’onda lunga di quella cultura, nata un tempo in terra tedesca e attecchita altrettanto bene ancora più a nord della patria di Goethe.
Questa volta ci occupiamo di un trio danese, Little North, giunti al quinto album con Wide Open, dopo l’esordio nel 2016 con la loro prima uscita Yonder. Benjamin Nørholm Jacobsen al piano, Lasse Jacobsen alla batteria e Martin Brunbjerg Rasmussen al contrabbasso ripercorrono il canovaccio tipicamente sorretto da vaghe e vaporose malinconie che già riconosciamo essere iconiche di questo stile. Volendo essere un po’ critici, potremmo anche osservare come questi gruppi abbiano un target che li rende poco riconoscibili gli uni dagli altri. Forse il trio danese, da questo punto di vista, allunga maggiormente il suo debito verso Niels-Henning Ørsted Pedersen, altro richiamo importante per la musica danese, soprattutto, nello specifico, per quello che riguarda la cavata del contrabbassista Rasmussen. Inoltre mi sembra che Little North esprima un desiderio di ricerca sempre sostenuto da arrangiamenti assennati, lavorando in modalità per lo più tonale, appoggiandosi all’espressività dei silenzi e dei lunghi respiri consentiti dalle loro melodie.
La Parte l’Improv#1 come brevissimo pezzo iniziale, un arpeggio ondoso che rammenta, nel suo gioioso scampanio, qualche ricordo di gioco infantile. Con Floating e il suo ostinato riff di contrabbasso che lo caratterizza inizialmente, entriamo all’interno del clima reale di questo gruppo. Inizialmente ci accorgiamo solo di poche note di piano in forma modale, tra un veloce disegno medio-orientale ed un altrettanto fugace ombreggiatura alla Nino Rota, poi la tastiera si distende e s’allunga con qualche percussione di batteria in sottofondo. Le pause aumentano la loro presenza – e questo è proprio un paradosso linguistico (!!)– e a tratti sembra che tutto s’arresti, cristallizzandosi in un’aura di minimalistica attesa. Sunyata – che in sanscrito indica uno degli orientamenti della filosofia buddhista – è un brano più tradizionale, con molto pianoforte e molti cambi di tonalità. A tratti prende la forma di un riarrangiamento jazz di qualche canzone popolare e qui il pieno riempie quasi ogni vuoto, sovvertendo il rapporto con le pause che vengono messe all’angolo. L’andamento melodico non è di quelli cantabili e tende a perdersi nell’imponderabile, mentre la ritmica interviene aumentando la propria presenza verso il finale. Improv#2 è poco più di un minuto di quello che sembra quasi una filastrocca per bambini raccontata dal pianoforte e da qualche rumore percussivo tra le quinte.

Elna è introdotto da un giro deciso e lento del contrabbasso ma da lì a poco parte una musica dolente, quasi un’elegia oppure una manifestazione di quel malessere che origina dal peso dell’Amore – tutto costa, infatti, nell’economia dell’esistenza. Si respira la classica atmosfera nordico-jazz con molta suggestione classica. L’andamento orecchiabile della melodia emana un lucore malinconico che resta nelle ossa, tra le note di piano, i colpi robusti e drammatici del contrabbasso e l’inesauribile fantasia percussiva di Jacobsen. With Four Shadows non ci chiarisce la natura delle ombre suggerite dal titolo. Le fasi iniziali sembrano la continuazione del brano precedente, con l’archetto che sfrega le corde del contrabbasso innescando nell’ascoltatore un velato malessere. Poi si prosegue con un leggero aumento del ritmo e un moderato incresparsi della superficie sonora mentre il piano finalmente corre più libero e- apparentemente – spensierato. Tutto il brano è comunque all’insegna di una certa sottrazione, senza mai arrivare ad un minimalismo esasperato, anzi, conservando sino all’ultimo una brillantezza espressa con appunti di note che volano rapide su e giù per la tastiera. Dissolving Points considera chiuso il discorso con l’eventuale leggerezza del brano precedente, incuneandosi tra le pieghe di un processo di introversione che ha bisogno di silenzi, più che di manifesto melodismo. Una riflessione allo specchio, quindi, un malinconico trasporto verso il centro di noi stessi, là dove regna l’inquietudine e non la serenità che si vorrebbe sperare di raggiungere. Swell è solo contrabbasso ed archetto, sfregamento di pelli di rullante, vibrazioni metalliche e rugose. In Improv#3 il pianista suona con le corde fermate dalla mano, soffocandone qualsiasi vibrazione naturale. Lullaby For a Day Fly è senz’altro uno tra i brani più melodici dell’album ma c’è sempre, tra le note, quel sentimento inquieto di una nientificazione in atto, una forza gravitaria che impedisce il distacco completo dalla superficie terrestre. Il lirismo è presente ma indossa una maschera infera. Più dolore che amore, in definitiva. Comunque, tecnicamente parlando, grande compattezza strumentale e ottimo interplay. Chiude Isolation Song con una introduzione di piano solo, presto arginata dall’impegno della ritmica. Anche qui molto lirismo meditativo passato attraverso il collo di bottiglia di un certo pessimismo di fondo. Eppure l’anelito romantico lo si sente, lo si percepisce ancora, pur se in parte precocemente sfocato.
Il registro narrativo di Little North è fatto, quindi, della stessa sostanza di cui sono fatti gli altri gruppi che possiamo inserire, più o meno arbitrariamente, nella cospicua ed eterogenea classificazione chiamata jazz nordico. Il trio danese si muove in un acquario muto, dove al posto delle certezze si trova tutto ciò che sa di transitorio e di contingente. La loro musica si tende come un arco verso una ricerca che non ha obiettivo preciso, fedele al concetto che è il viaggio ad essere importante, non la meta. Quindi l’aspetto lirico, così intriso di romanticismo, assume quasi una connotazione eroica perché si muove nella nebbia, in territori illimitati ma ancora, in gran parte, del tutto sconosciuti.
Tracklist:
01. Improv #1 (0:56)
02. Floating (4:54)
03. Sunyata (6:55)
04. Improv #2 (1:06)
05. Elna (5:06)
06. With Four Shadows (6:01)
07. Dissolving Points (4:18)
08. Swell (2:09)
09. Improv #3 (0:46)
10. Lullaby For a Day Fly (4:17)
11. Isolation Song (2:39)
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