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Riccardo Talamazzi

Eyolf Dale – The Wayfarers (Edition Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

La prima cosa a cui ho pensato prestando ascolto alle note iniziali di questo ultimo album di Eyolf Dale, The Wayfarers, (I viandanti), è stata quella di capire che diavolo di strumento stesse suonando l’Autore. Di primo acchito mi è sembrato potesse trattarsi di un pianoforte ma con una sonorità molto più brillante rispetto al solito. In effetti si tratta di una Hammerspinet, una sorta di fortepiano che da quanto sono riuscito a capire, invece di avere le corde pizzicate come il clavicembalo, ha un sistema meccanico di martelletti che battono su un’unica corda, anziché sulle doppie dei bassi o sulle triple come avviene nei pianoforti normali. Devo dire che nonostante questo tipo di scelta, insieme all’uso della bizzarra lama sonora, The Wayfarers concettualmente non si allontana troppo dal modello collaudato che lo stesso Dale, sia da solo che in gruppo, ha già abbondantemente sperimentato durante il suo percorso discografico. Il musicista norvegese, di solida formazione jazzistica ma comunque egualmente coinvolto empaticamente nella tradizione classica, ci offre uno spaccato dell’odierno stato dell’arte del piano-trio, almeno di quello che proviene dalla Scandinavia. Avvalendosi della stessa ritmica che lo ha accompagnato nel precedente Being (2021) – Per Zanussi al contrabbasso, già presente in Wolf Velley (2016) e Audun Kleive alla batteria – la musica non sembra rilevare alcuna flessione etica rispetto ai cànoni che ci si aspettava. Delicatezza di fondo, suoni che a volte, pur muovendosi nell’ambito del jazz, inclinano maggiormente a un modus levigato e riflessivo ma che diventano pronti ad esplodere in un turbinio di colori caleidoscopici come accade a tratti lungo il percorso dell’album. L’Autore descrive l’estetica di questa musica come la risultante di un viaggio, forse non solo metaforico, attraverso paesaggi interiorizzati sulle cui tappe del percorso ci si può arrestare, sia per immergersi in un meditabondo spleen che per perdersi nella contemplazione di propri intimi simbolismi.

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Bill Laurance & Michael League – Where You Wish You Were (Act Records, 2023)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

È da un po’ che facevo la posta a questo disco, Where you Wish you Were del duo Laurance- League. Innanzitutto per la copertina dell’album – finalmente qualcosa di decoroso nel tristo panorama grafico della ACT – e poi naturalmente per l’interessante accoppiata del duo proveniente dagli Snarky Puppy, il pianista Bill Laurance e il polistrumentista e bassista Michael League. Ma al di là dell’ovvio riconoscimento della caratura tecnica di questi musicisti e della loro indubbia capacità creativa, il mio svalvolato cuore Byrdsiano ha battuto ritmi più felici quando Laurance prima e League poi hanno collaborato con David Crosby, chiudendo un cerchio generazionale originatosi alla fine dei ’60 e conclusosi qualche settimana fa, con la morte dello stesso. Quindi una serie di buone motivazioni che mi hanno indotto a prestare la dovuta attenzione a questa particolare miscellanea di suoni, visto che accanto al pianoforte s’alternano i diversi strumenti utilizzati da League e cioè alcuni cordofoni tradizionali come l’oud e lo ngoni originario del Mali, più la chitarra acustica e l’elettrica baritono entrambe fretless, cioè senza la tastiera segnata dalle usuali traversine metalliche. Naturalmente anche il basso elettrico, lo strumento d’elezione all’interno dell’economia S.P, compare nella dotazione di League che dimostra una capacità di adattamento al climadi ogni strumento invidiabile. Sebbene egli ammetta di avere un approccio con l’oud più istintivo che tecnico, uno stile rimastogli impresso forse dai ricordi delle origini greche della sua famiglia, il risultato ottenuto non perde un grammo di quella modesta nudità essenziale che lo oud possiede per natura. Così come la dimensione evocativa che rimanda giocoforza ad immagini paesaggistiche medio-orientali che ben si sposano con gli altopiani spirituali raggiunti dal pianoforte. La relativa povertà strumentale a cui la coppia di Autori si è qui consacrata è cosa molto diversa dalla usuale e coinvolgente baraonda strumentale degli Snarky Puppy e la capacità di raggiungere i momenti lirici e rarefatti che ritroviamo in questo album è, a mio parere, resa possibile anche per il duraturo rapporto d’amicizia che lega i due strumentisti, datato addirittura prima del 2006, anno della pubblicazione dello primo disco degli stessi Puppies. La capacità di entrare in risonanza emotiva l’uno con l’altro crea un sospeso, caldo magnetismo che si espande all’ascoltatore avvolgendolo come un soffio d’aria vibrante. Le composizioni si svolgono in una misura essenziale, con linee melodiche addolcite ben al di qua dell’instabile confine della contemporaneità, anzi, a ben vedere questa è una musica che aggira il Tempo e si cala in uno spazio senza memoria geografica, al di là di ogni moda e tendenza.

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Little North – Wide Open (April Records, 2023)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Dove e quando è cominciato tutto questo? Voglio dire, chi ha iniziato questa tendenza del jazz scandinavo – o comunque sarebbe meglio definirlo nordico – a proporsi con degli stigmi riconoscibili quanto insoliti, tanto da creare due antagoniste fazioni a riguardo, una di sostenitori ad oltranza e l’altra di oppositori accaniti? C’è infatti un gruppo di paesi nordici, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Islanda in cui il jazz è stato preso, filtrato e riproposto in una veste estetica ben diversa da quella che siamo abituati ad ascoltare, in genere, nel resto dell’Europa e in America. Qualcuno afferma che l’etichetta di Manfred Eicher, la ben nota ECM, insieme alla meno famosa Rune Grammofon, abbiano sortito da spartiacque, innescando una frattura all’interno della maniera classica d’intendere il jazz, imponendo un loro modo personale di tradurre questa musica, costruita attorno a temi più rarefatti, quasi mai frenetici ed infarciti spesso di elementi tradizionali che talora però si trovano a scivolare verso il rock o, per contro, ad indirizzarsi verso influenze di musica classica. Ma i paesi scandinavi, a monte del gran numero di jazzisti che essi stessi hanno prodotto, forse qualche preciso nume tutelare a questo riguardo ce l’hanno, indipendentemente dalle etichette discografiche che hanno fatto e fanno tendenza. Ad esempio, per quello che riguarda la musica incentrata sul pianoforte, il nome dello svedese Jan Johansson, pianista eccellente che purtroppo morì in un incidente stradale nel 1968, è un punto di riferimento accertato presso il nuovo jazz nordico. Per farsi un’idea di questa continuità possiamo facilmente reperire in streaming alcune sue originali incisioni, sia in solitudine che in gruppo, come Nusik Genom Fyra Sekler del ’68, oppure quello che fu il più grande successo di vendite personale, Jazz Pa Svenska, uscito nel’64.

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Fred Hersch & Esperanza Spalding – Alive at the Village Vanguard (Palmetto Records, 2023)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Mi ero fatto un’idea, evidentemente balzana, che alcuni musicisti reagissero ad una eventuale stage fright, cioè a quella paura da palcoscenico che impedisce a volte di ricordare le parole d’una canzone, altre volte di azzeccare gli accordi giusti o una melodia nel suo corretto sviluppo. Non sapevo ancora che una coppia artisticamente collaudata del livello di Fred Hersch ed Esperanza Spalding, invece, quando sale sul palco non solo è piuttosto rilassata, ma non si preoccupa nemmeno di organizzare un arrangiamento definito al pianoforte né di non aver nessuna linea guida da seguire. Anzi, accade anche, come in questo album, che la Spalding si trovi a modificare spontaneamente il testo di una canzone durante la sua esecuzione, magari inserendovi delle osservazioni polemiche o spiritose, come appunto vedremo tra poco. Se dunque d’improvvisazione si tratta – e nel jazz ciò è assolutamente vitale – improvvisazione sia, persino nel modo un po’ avventuroso che Hersch & Spalding propongono al loro pubblico. In realtà, secondo quanto i due artisti dichiarano pubblicamente, il bello di collaborare insieme da una decina d’anni sta soprattutto nell’aspetto poco formale del gioco, nella possibilità di far musica senza necessariamente dover inquadrare il tutto in un contesto seriosamente professionale. La verità è che questa coppia si diverte nell’esibirsi senza rete e tutto questo lo si percepisce dal clima che si crea durante il concerto live, col pubblico talora divertito dalle battute della Spalding ma che nel contempo ascolta attentamente la musica performata. Naturalmente si parla di un mood particolare che si può cogliere solo in piccoli locali, meglio ancora se si tratta di luoghi storici come il Village Vanguard di New York che Hersh conosce bene per avervi suonato già parecchie volte e per averci inciso sei concerti. In questo vero e proprio tempio del jazz si è realizzato questo concerto dal vivo, Alive at the Village Vanguard, registrato nell’Ottobre del 2018, anche se pubblicato solo quest’anno. In realtà questo evento è stato organizzato durante un periodo piuttosto drammatico in concomitanza di problemi personali di natura fisica e professionale che avevano interessato entrambi i musicisti. Nulla di drammatico emerge, però, da questa sessione live che ci restituisce un umore solido ed eclettico, accogliente e informale come se ci si trovasse ad una serata tra amici.

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Joe Chambers – Dance Kobina (Blue Note Records, 2023)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Arrivato agli ottant’anni sembra che Joe Chambers, anche a giudicare dalla posa un po’ guascona con la quale appare in copertina di questo nuovo Dance Kobina, mantenga un atteggiamento sufficientemente spavaldo senza avere alcuna intenzione di recedere dai suoi progetti creativi. Da questo punto di vista Chambers è un musicista che pare sempre sospeso in uno stato perdurante di grazia e tutto ciò lo dimostra annunciandosi in un nuovo album ricco di ritmi ma leggero come una nuvola. Questo suo procedere, pragmatico nel non disperdersi in superflue evoluzioni strutturali e costantemente vitalistico nelle linee espressive, viene giustamente premiato da un lavoro formalmente perfetto anche se non compare, in assoluto, niente di particolarmente nuovo. Ma da un batterista come lui, uno di quelli che hanno fatto la storia del jazz e se vogliamo pure della Blue Note – la recensione del suo precedente lavoro Samba de Maracatu e ulteriori informazioni sulla sua identità artistica potete rintracciarle qui – non ci si aspetta uno spavaldo orizzontismo di frontiera ma piuttosto proprio un album come questo, generoso nella sostanza, con un’identità locativa centrata sul jazz ma non fossilizzata in territori risaputi. Così com’era accaduto per il suo lavoro precedente, il titolo di quest’album può trarre in inganno, dato che il termine congolese Kobina significa “ballare”. Chi si aspetta quindi un lavoro dance infarcito di percussioni esotiche resterà ovviamente deluso. Non che in questo disco manchino aspetti ritmici e percussivi a suggerire l’influenza di matrici africane o latine – del resto la tecnica di Chambers, in questo album, coaudiuvata o meno da altri percussionisti, è in grado di assorbire e rielaborare qualsiasi stimolo poliritmico – ma l’impronta definitiva che si avverte è quella di un jazz che pare bastare quasi a sé stesso, focalizzato ma non sclerotizzato nella tradizione e inoltre alieno da qualsiasi nomadismo etnico.

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Stephan Micus – Thunder (ECM Records, 2023)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

È un mondo insolito, quello abitato da Stephan Micus. Forse siamo noi a non accorgerci di quanto la realtà sia eterogenea e composita. Di certo, Micus, ”vecchio” hippy dalla pulsione errante mai sopita, mosso quasi da una genetica wanderlust che lo spinge a viaggiare nei posti più lontani, è da sempre alla ricerca soprattutto di suoni inusuali o comunque non cosi facilmente assimilabili e metabolizzabili dalla cultura occidentale. Dopo venticinque (25!!) album pubblicati a suo nome per ECM, il sessantanovenne musicista di Stoccarda è votato al suono della beatitudine, una musica ottenuta con strumentazione acustica, di tradizione antica, così radicata nei secoli in grado di condurre l’Autore al cospetto di un primitivo sapere, risultato forse d’un insieme di intuizioni che parte dalle radici dell’induismo per transitare attravero religioni e miti orientali, approdando poi, dopo un lungo e ricco viaggio, in Occidente. Micus viene a contatto non solo con le tradizioni e i miti dei paesi che visita, ma soprattutto con gli strumenti musicali che trova – quando non sono gli strumenti stessi a trovare lui! In questo suo ultimo lavoro, Thunder, dedicato alle minacciose divinità dei tuoni in cui hanno creduto – e credono ancora – molti popoli distribuiti dall’Asia all’Europa, Micus utilizza soprattutto tre strumenti particolari. Il primo, di provenienza himalayana, si chiama dung-chen, una sorta di tromba lunga circa quattro metri che viene usata nelle cerimonie buddhiste all’interno dei monasteri. Il secondo è il ki kun ki, uno strumento a fiato lungo un paio di metri, dal suono simile ad una tromba ottenuto soprattutto inalando aria più che soffiarla, costruito con un unico stelo ligneo che cresce in certe foreste siberiane – avrebbe mai potuto trovarsi dietro casa nostra? – ed il terzo è il nahkan, una specie di flauto di provenienza giapponese. Naturalmente questi non sono i soli mezzi che Micus padroneggia perché, oltre a servirsi di strumenti già collaudati, egli utilizza sovraincisioni della sua voce – e questa non è una novità nella sua discografia – riuscendo a creare effetti di canto ipnotici a richiamare a volte echi di formule sciamaniche e liturgiche. Certo Micus non è nuovo per Off Topic e se volete saperne di più potete consultare la recensione del suo disco dell’anno scorso, Winter’s end, che trovate qui. Tenete presente che comunque Micus suona tutto ciò che sia suonabile e gestisce in solitudine, attraverso opportune sovraincisioni, ogni strumento che potrete ascoltare in questo album.

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John Bailey – Time Bandits (Freedom Road Records, 2023)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

C’è una nicchia anche per gli amanti del jazz mainstream, pure se questo termine, che viene utilizzato per comodità, in realtà non mi piace affatto. Suona un po’ come un riferimento denigratorio anche se invece si allude prevalentemente alla modalità di genere in auge negli anni’50 e ’60. Come afferma lo stesso trombettista John Bailey, riguardo questo suo nuovo lavoro Time Bandits che potrebbe benissimo inquadrarsi in quest’ottica stilistica, “…la sensazione ritmica è ciò che si definisce come jazz”. Che si possa concordare oppure no, con questa dichiarazione c’è comunque una regola di fondo non scritta, al di là della valenza ritmica, che è alla base di ogni tipo di jazz, anche e soprattutto di quello definito mainstream. Mi riferisco alla indubbia abilità tecnica e, per mezzo di questo assoluto tramite, alla conseguente capacità espressiva che ne possa originare. Tutto questo non lo si acquisisce per puro dono divino – e i musicisti lo sanno bene – ma solo con anni di studio e direi soprattutto di confronto con altri strumentisti. E così è andata per lo stesso Bailey, cinquantasettenne trombettista newyorkese, con una gavetta professionale estremamente eclettica che l’ha guidato a testarsi tra molti generi e varianti musicali, dalla Buddy Rich Band a Ray Barretto, da Ray Charles a Frank Sinatra, da Woody Hermann a Kenny Burrell e altri ancora. Una carriera quarantennale che l’ha attualmente portato alla pubblicazione del suo terzo disco da titolare. Per la preparazione di questo Time Bandits, Bailey s’è scelto un trio di musicisti che chiamare iconici è dir poco. Ladies & gentlemen, potete ammirare George Cables al pianoforte, 79 anni di vita e di esperienze con i migliori jazzisti in assoluto della Storia e passando un po’ di tempo su WP al riguardo ci si può aggiornare sulle sue collaborazioni, avendone voglia. Alla batteria c’è Victor Lewis, anni 72, e anche per lui è una bella lotta tra compartecipazioni e lavori solistici. Last but not least Scott Colley al contrabbasso, che con i suoi 59 anni di età è il più giovane tra i musicisti arruolati da Bailey ma non per questo quello con meno esperienza. Insomma, un trio che definirlo stellare è fin poco e che garantisce al leader, com’è facile immaginare, ampio sostegno e una solida struttura armonica e ritmica per le escursioni della sua tromba. Altro fattore suggestivo è il luogo in cui questo album è stato inciso, cioè il mitico Rudy Van Gelder studio nel New Jersey, dalle cui pareti trasudano le orgogliose voci del periodo Blue Note, Prestige, Impulse! e insomma gran parte della Storia più fiorente e seminale del jazz. La musica che Bailey propone, potete già intuirlo, è un jazz piuttosto classico, con qualche parentesi contemporanea ma fondamentalmente ancorato allo stile che partendo da Dizzy Gillespie – a cui lo stesso Bailey ha dedicato l’insolito lavoro Can You Imagine del 2020 – si trova a costeggiare Thad Jones – “il più grande trombettista mai ascoltato” come lo definì Mingus – Freddie Hubbard e Woody Shaw fino ad arrivare ai giorni nostri a lambire lo stile lirico e preciso di Tom Harrell.

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Antonio Artese Trio – Two Worlds (Abeat Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Percorrere in lungo e in largo le tracce di questo Two Worlds di Antonio Artese Trio è un esercizio ritemprante. Come tirare un respiro profondo dopo un’immersione in apnea. Un po’ perché l’autore non raccoglie l’angustia di molto jazz contemporaneo, di quello più provocatoriamente dissonante, per capirci. In secondo luogo perché ci troviamo di fronte ad un’opera molto ben armonizzata in cui si percepisce senza sforzo la forte impronta classica che condiziona, con i suoi aromi altresì consonanti, la tessitura ariosa e nitida di questa musica. La dolcezza eufonica, l’espressivo scorrere dei suoni e il nucleo leggero delle composizioni fanno sì che si realizzi una vera e propria jazz-therapy, quasi un’azione lenitiva sul nostro stato psico-fisico o, se preferite, una moderata ed effervescente stimolazione del tono dell’umore. Ma dobbiamo ben intenderci su quest’ultimo punto. Two Worlds è un disco jazz, non un gingillo new-age e come tale riconosce una serie di crediti piuttosto evidenti, direi suddivisi a metà tra certo pianismo duttile e velatamente romantico alla Bill Evans e un’impronta non sfacciata ma piuttosto percepibile di estetica nordico-scandinava. I due mondi di cui parla questo album, qualunque essi siano e pur potendo essere interpretati in ottiche diverse, non sono in opposizione uno all’altro, bensì in reciproca, fluida continuità. Così se da una parte si avverte l’educazione classica – tutti i componenti del gruppo hanno in comune il diploma al Conservatorio di S.Cecilia in Roma – dall’altro lato colpisce l’impostazione jazzistica che corroborata da soggiorni e master negli U.S.A da parte di ognuno dei tre musicisti, rappresenta la vera anima narrante di questo lavoro. Le succitate influenze, così apparentemente differenti, s’intercalano tra loro come se le reciproche prospettive diventassero interpretabili da un unico punto di vista. Lo stesso intendimento potremmo riscontrarlo nel penultimo brano in scaletta di questo disco, quello che vede l’italianissima tradizione del melodramma – nello specifico un estratto dalla Madama Butterfly – a confronto con la scioltezza di un interplay tipico di un buon gruppo jazz, cioè portatore di una cultura musicale di radici e sviluppi assai diversi. Nessuna opposizione, comunque, ma una sintesi direi quasi hegeliana tra mondi apparentemente antitetici eppure così ben compenetrati uno nell’altro.

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Sebastian Rochford, Kit Downes – A Short Diary (ECM Records, 2023)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Questo A Short Diary, pubblicato da Sebastian Rochford e Kit Downes, è un epicedio, un’elegia funebre dedicata al padre di Sebastian, Gerard Rochford, prestigioso poeta scozzese morto nel 2019. Si tratta di un lavoro così fragile che andrebbe maneggiato con cura, rimanendo consapevoli non solo della forte matrice sentimentale di cui l’album è impregnato ma anche dello sforzo dell’Autore stesso di metabolizzare, col tempo, la perdita del proprio affetto. I due artisti tracciano un reticolo di decriptazione abbozzato originariamente da Rochford – che non è in realtà un vero pianista ma un ottimo batterista – proprio sul pianoforte del padre, nella vecchia casa della sua infanzia ad Aberdeen. Lasciandosi trasportare dal ricordo, tracciando sulla tastiera solo pochi segni di un percorso melodico che verrà poi arrangiato da Downes, Rochford applica l’arte della sottrazione, quasi si fosse messo all’opera come un maestro zen, scarnificando il cuore della sua musica fino alla fibra primigenia. Le note scivolano sul piano goccia dopo goccia, gli accordi sono momenti di abbandono per costruire un percorso armonico dilatato basato sull’arte del respiro e – paradossalmente – del silenzio. Si ascoltano echi di canzoni infantili, discorsi rimasti catturati tra le mura della casa avita, odori, luci, passioni e sentimenti, tutto il rimescolio di memorie in grado di estrarre dalla trance rimembrante di Rochford un neorealistico codice miniato, un disegno in punta di pennello dove ogni traccia di colore è il risultato di una sintesi, un diario di souvenirs sfogliato con commozione pagina dopo pagina. Come tradizione vuole, Thanatos richiama Eros, la Morte evoca l’Amore in un eterno andamento ciclico che prosegue dall’inizio dei Tempi.
Chi sono i due protagonisti coinvolti professionalmente in questo album? Di Kit Downes noi di Off Topic ci siamo occupati a lungo, sia per quello che riguarda una sua performance live all’organo chiesastico in quel di NovaraJazz nel corso di quest’anno – la recensione potete leggerla quie anche a proposito del suo album Vermillion, sempre del 2022, che potete invece rintracciate qui. Sebastian Rochford è un apprezzato batterista cinquantenne, scozzese, con alle spalle una cospicua selezione d’incisioni, sia come leader dei Polar Bear, una band di avant-jazz in attività dal 2004, sia come solista sotto lo pseudonimo auto-ironico di Kutcha Butcha, un nomignolo dispregiativo talvolta utilizzato per definire i nati da coppie anglo-indiane come lo stesso Rochfort. Ma è stato anche il batterista dei Sons of Kemet – nominati qui a proposito del recente album di Tom Skinner – ed ha collaborato con il sassofonista Andy Sheppard, con Brian Eno & David Byrne, con il pianista Bojan Zulfikarpasic, Rokia Traorè, Patti Smith e molti altri ancora. Ai rispettivi strumenti, Rochford con la batteria e Downes al piano, i due artisti s’inseguono entrambi con comprensione ed empatia soffermandosi sull’idea di ciò che è transitorio, fuggevole e contingente, attraverso una lettura fatta di progressivi rispecchiamenti, immagini nelle immagini in un rincorrersi all’infinito di una vera e propria mise en abyme di figurazioni concatenate.

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