R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

La scomparsa di Wayne Shorter ha lasciato, oltre a un’indiscussa eredità spirituale, anche un’indiretta donazione…più pragmatica. Mi riferisco ai due musicisti che hanno avuto l’avventura di accompagnare il grande sassofonista, soprattutto nelle esibizioni live dall’inizio degli anni duemila, cioè il contrabbassista John Patitucci e il batterista Brian Blade. Chris Potter, contattando questa coppia di artisti e aggiungendo il tocco di Brad Mehldau come pianista, si è creato un quartetto da sogno per il suo ultimo album, Eagle’s Point. Facendo seguito al precedente Got the Keys to the Kingdom uscito l’anno scorso – vedi recensione qui, dove rimandiamo anche per altre notizie biografiche Potter sembra aver realizzato un desiderio che teneva nell’animo da molto tempo, cioè quello di ritrovarsi a tu per tu con dei musicisti da sempre ammirati e coi quali ha in precedenza anche collaborato – ad esempio nel Live in Italy del John Patitucci Trio (2022) –  per dare adito ad un nuovo proposito, un album tutto di composizioni nuove e firmate dal sassofonista. Nei termini di paragone con l’album del ’23, realizzato tra l’altro live al Village Vanguard e beninteso con una diversa formazione, si avverte come in questo disco registrato in studio, la musica fluisca con più calma e ponderazione. Non c’è il pubblico presente, non c’è trance da prestazione, l’energia fluisce con leggerezza e una certa postura rilassata pare costituire l’essenza più o meno di tutti i brani presenti. Coloro che volessero provare sensazioni particolarmente euforiche dovranno o riorientarsi al live del Vanguard oppure rassegnarsi ad un amalgama equilibrato, soppesato in ogni sua parte in cui un eccessivo ruolo del singolo viene parzialmente sfavorito rispetto all’esigenza dell’insieme, anche se non mancano, ovviamente, alcuni momenti più spinti con una sollecitazione improntata allo swing e all’hard-bop, soprattutto da parte dello stesso Potter.

L’Autore si è trovato, si può dire, al crocevia di mondi diversi ma non poi così lontani tra loro. La componente ritmica Patitucci-Blade – basta seguire la sua storia – è ben rodata per quel che riguarda l’accompagnamento dei fiati e Mehldau ha un’incredibile capacità d’adattamento, avendo passato nella sua carriera momenti in solitaria e in trio, in quartetto nonché in subitanee apparizioni nel mondo della lirica come in Love Sublime del 2006 con la cantante Reneè Fleming. Quindi, l’elasticità e la duttilità dei singoli elementi certo non mancano. Per quello che riguarda in modo più specifico la personalità di Potter, in questo album lo ascoltiamo suonare sia il sax tenore che il soprano e in modo particolare il clarinetto basso, in quello che è forse il brano emotivamente più intenso fra tutti, Indigo Ildikò. I suoi fraseggi non sono mai convenzionali e non tendono, se non sporadicamente, ad imitare l’impronta di Shorter, nonostante egli si ritrovi a suonare con la stessa componente ritmica… In effetti l’impressione è che le composizioni dell’Autore siano, in questa occasione, sensibili a una linea più docilmente melodica, osservando che anche il contrabbasso e la batteria si adattano volentieri a toni genericamente più tranquilli. Che sia la presenza di un pianista dall’antico retaggio romantico come Mehldau ad aver inconsciamente influenzato le direttive del quartetto?

Si comincia con Dream of Home, introdotta da una breve sequenza di accordi pianistici moderatamente dissonanti. Potter attacca con il suo sax un tema melodicamente sfacciato percorrendo a 360° tutta l’escursione timbrica possibile, sistemandosi, soprattutto con l’aiuto di contrabbasso e batteria, in un territorio compreso tra subitanee malinconie ed aspre evoluzioni sonore. Il piano elegante di Mehldau resta in ambito be-bop ma dimostra un approccio ed un conseguente tocco decisamente lieve. La ricomparsa del sax avviene sotto una doccia d’incremento percussivo operata da Blade. Qualche ultima frase conclusiva ripropone il tema iniziale, tra gli stessi accordi evanescenti di pianoforte presenti all’inizio. Cloud Message s’impone con un sassofono che sguscia attraverso le note introduttive di Patitucci. Certo, in questo brano Potter mostra tutta l’abilità nel fraseggiare ed è forse il momento più tecnico, musicalmente parlando, di tutto l’album. Molto swing che si svolge in spazi stretti e che attira nella sua orbita anche il pianeta Mehldau. Tuttavia non c’è inquietudine emotiva, i musicisti infatti, ciascuno nel proprio ruolo, si misurano con equilibrata partecipazione. Si crea anche lo spazio per un assolo di piano e di contrabbasso all’insegna di una prova d’autore decisamente professionale. Ma è con Indigo Ildikò che avviene un deciso cambio di passo. Innanzitutto Potter si esibisce al clarinetto basso e le note iniziali calde ed espansive di questo strumento giungono quasi inaspettate dopo i primi due brani dominati dal sax. Il tema è molto bello, reso ancor più melodico dall’assolo di contrabbasso che insegue una sua linea espressiva non solo ritmica. Chiariamo da subito che questo brano non è una ballad, ma un downtempo affrontato con una sorta di tenerezza interpretativa che lo mantiene in un clima costantemente delicato. Dalla metà in poi ritorna il sax a rischiarare la scena ma sarebbe stato altrettanto bello poter riascoltare il timbro più grave e scuro del clarino. Segue la title-track Eagle’s Point, introdotta da un semplice riff di contrabbasso. Il pianoforte prepara il terreno al tenore di Potter che dopo l’esecuzione del tema s’immola sull’altare del bebop. Ascoltiamo inoltre lo scalpitio esuberante di Blade alla batteria e l’assolo di Mehldau, con delle interessanti progressioni ascendenti di accordi e i suoi intrecci funambolici di note. Si va a terminare non prima della riesposizione del tema e con Potter che si arrampica sui muri inanellando una serie di scale turbinose. Ma il finale è poco più di un soffio, quel che avanza dell’aria rimasta nei polmoni dell’Autore…

Ed eccola, la prima vera ballad dell’album, Aria for Anna. Il suono del sax si affida al soprano, in questo caso. L’intenzione è piuttosto shorteriana, nonostante Potter abbia maggiormente riconosciuto tra i suoi maestri gente come Lester Young, Sonny Rollins e ovviamente Parker. Ma non si può mai esser sicuri delle influenze di un artista, soprattutto per chi è veramente bravo come lo stesso Potter che nella sua carriera deve aver raccolto e rielaborato ispirazioni da ogni dove. Le note volatili e intervallate da ampi spazi di respiro rendono lo stile del sax soprano piuttosto peculiare nel contesto di questo album. E dopo l’ombra di Shorter, Mehldau, dal canto suo, evoca l’anima di Bill Evans, con quelle note lunari espresse prima in un temporaneo assolo e poi riproposte in un discorso a due con Potter. L’ultimo quarto del brano richiama a sé anche la parte ritmica, rimasta a lungo un po’ defilata, quasi in silenziosa ammirazione del magico dialogo notturno tra sax e piano. Quando arriva Other Plans si resta in ambito ballad con un inizio a tre e una frase melodica che rimbalza tra contrabbasso e pianoforte prima dell’intervento del tenore di Potter. Quasi subito, però, il sax cede spazio a Patitucci con la sua solita capacità d’integrare battito ritmico e melodia in un tutt’uno. Poi è la volta di Mehldau che resta nell’assetto a trio per oltre un minuto, fino alla ricomparsa del sassofono. L’impostazione del tenore qui è particolarmente morbida, anche nell’evoluzione finale dove Potter si lascia andare un poco di più. La struttura moderata e vagamente misteriosa di Màlaga Moon, introdotto dalle cupe cavate di contrabbasso – c’è forse qualche sfregamento d’archetto sovrainciso – non perde la grazia di mostrare le sfaccettature luminose del piano emergere dall’oscurità. Un pattern reiterato di Patitucci sorregge l’attacco di Mehldau su cui s’impianta il tenor-sax di Potter, leggermente languido. L’assolo di piano si svolge parzialmente in ambito modale sopra la frase insistita del contrabbasso, con qualche accenno di progressioni classiche incastonate nell’atmosfera be-bop. Non si può certo dire, soprattutto con questo apporto, che il pianismo di Mehldau sia facilmente prevedibile!! Quando rientra il sax il clima si scalda, Potter si allunga sulle note più acute in una sorta di subbuglio pulsionale ricordando un poco le melodie latine di Gato Barbieri. La chiusura avviene con Horizon Dance e la variabiltà ritmica imposta soprattutto dalla batteria di Blade indirizza il timone ancor più verso una latinità dal sapore cubano. Il brano si sviluppa attraverso numerosi cambi tonali e sia Potter che Mehldau si fanno coinvolgere pienamente dal puntellato assetto ritmico. Il meritato assolo di Blade nella seconda parte della traccia conferma tutto l’estro esecutivo di questo batterista. Finale collettivo brillante e contagiosamente allegro.

Gli arrangiamenti turgidi di questo quartetto risentono, ovviamente, della pastosità della coppia Patitucci-Blade. Certo non manca un po’ di accademia ma del resto non capita tutti i giorni d’incappare in un supergruppo come questo. La musica non esce dai binari tonali in cui la lunga tradizione alle spalle di questi musicisti li ha nel tempo indirizzati. Potter, dal canto suo, ribadisce la propria autorevole presenza, sapendosi indirizzare sia verso interpretazioni eclettiche e potentemente partecipate sia calandosi in momenti più riflessivi e introvertiti. Accanto a lui, oltre ai due più volte nominati responsabili del robusto traino ritmico, c’è un pianista enciclopedico come Mehldau, da tempo baciato dagli dei, che aiuta a completare la bontà della combinazione strumentale.

Tracklist:
01. Dream of Home (5:39)
02. Cloud Message (7:05)
03. Indigo Ildikó (7:19)
04. Eagle’s Point (7:36)
05. Aria for Anna (6:15)
06. Other Plans (7:40)
07. Málaga Moon (8:28)
08. Horizon Dance (6:40)