R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Di Alessandro Sgobbio avevamo già parlato, noi di Off Topic, riguardo a quel bell’album Transparence uscito l’anno scorso nell’ambito del progetto italo-norvegese Hitra – potete trovarne la recensione qui. In effetti la formazione professionale di Sgobbio, pianista dai natali pugliesi, si è realizzata fondamentalmente tra la via Emilia e la Scandinavia, con gli studi al conservatorio di Parma e l’esperienza alla Norges Musikkhogsckole di Oslo. Ma sicuramente Sgobbio riconoscerebbe come prezioso l’apporto di uno dei suoi mentori, cioè lo scomparso pianista ucraino Misha Alperin, a cui è dedicato un brano di questo ultimo album Piano Music. Per proporre un disco di solo pianoforte come questo – il secondo della carriera di Sgobbio dopo il quasi-solo (a parte l’ospitata del clarinetto di Achille Succi) Aforismi Protestanti del 2010 – bisogna possedere uno stato di luminosa grazia che non piove, tuttavia, improvvisamente dal cielo. Occorre una preparazione robusta, ad esempio quella avuta in musica classica, e un bagaglio che abbia toccato, nonostante l’apparente giovane età del pianista, diverse e disparate esperienze musicali, e mi riferisco in modo più esplicito al lavoro coi Pericopes, Silent Fires (recensione qui) e il già citato ensemble Hitra. In effetti è proprio quest’esperienza in più che sottolinea la differenza con il lavoro in solitudine sopracitato. Se in Aforismi le idee erano molte e vitali – 14 brani in meno di 40 minuti di musica – in Piano Music è come se quelle idee seminali venissero meglio sviluppate, selezionate, approfondite, dimostrando una maturità che a parer mio oggi si sta decisamente rendendo evidente. Non è un pianista new-age, Sgobbio, e nemmeno soffre di languori accondiscendenti ad un pubblico di bocca buona. Ma non è nemmeno uno di quegli stancanti minimalisti che insistono delle mezz’ore su qualche accordo reiterato – anche se in Acqua Granda si può ascoltare qualche richiamo a Steve Reich e Philipp Glass. Le sue melodie lavorano sul colorismo di arrangiamenti turgidi ma non debordanti, anzi, si avverte un lavoro di lucida selezione tra le note, come se si puntasse, in fondo, non tanto ad un’asciutta essenzialità quanto ad un suono mondato da impurità, da barocchismi art noveau, per recuperare in toto quella che a me piace definire nuda scienza armonica. Sgobbio passa attraverso tematismi cantabili per toccare attimi di contemporaneità, sfiorare – ma solo per fugaci momenti – l’atonalità giocando sulle dissonanze come in Atma Mater o calandosi all’interno di atmosfere dichiaratamente jazz e cariche di intimismo come in Racemi. Attraverso il suo divenire melodico Sgobbio mira alla preservazione di un proprio personale candore, scavandosi la strada tra varie influenze, combattuto tra l’abbandono alla reverie e istanti di laceranti malinconie ma rimanendo comunque vicino a ciò che importa maggiormente, cioè la verità dell’ispirazione, resa possibile, ovviamente, dal suo adeguato bagaglio tecnico.

Il brano d’apertura, Fireflies, è dedicato ai genitori. Le lucciole che appaiono nel titolo, forse, come successe anche a me da bambino, potrebbero rappresentare un momento in comune, di quelli irripetibili, dove la magia della visione di questi esseri teofanici, innocenti nel loro essere naturalmente prodigiosi, diventa poi un legame indissolubile, almeno nel ricordo, verso chi ci stava vicino. La musica ha la delicatezza di un’esperienza semplice ed appagante nella sua cantabilità, con le note evanescenti che si disperdono nell’aria notturna. Zolla, con il suo incedere più formale, mi piace pensare – ma è solo una personale interpretazione, non confermata da nessuna nota stampa in mio possesso – possa essere dedicata al filosofo e storico delle religioni Elèmire Zolla. Alcuni passaggi portano con sé elementi velatamente misteriosi ed un ricordo di Mussorgskij, almeno negli accordi introduttivi. Anche in questo caso viene proposta una melodia fluida, sebbene meno affettiva, quasi leggermente “distaccata” rispetto a quella del brano precedente. Atma Mater è il brano ufficialmente dedicato, come si è già detto, a Misha Alperin, ed in effetti tende ad assomigliare al modo di suonare dello stesso, almeno come me lo ricordo ad esempio in Blue Fjord. Le relazioni musicali tra Sgobbio e Alperin s’incrociano a mio parere anche con quelle di un altro grande pianista, l’inglese John Taylor. Comunque il brano in questione dimostra la capacità di Sgobbio di uscire dagli schemi, di avventurarsi in scale lontane dalla cristallizzazione melodica fin qui evidenziata. Il tutto con una padronanza tecnica dello strumento – un bellissimo gran coda Fazioli – che lascia trasparire un mare di risonanze, grazie anche all’ottima modalità d’incisione che non disperde il brillante bouquet di fragranze armoniche che si sprigionano da questa composizione. Ghaza esordisce come una melodia modale, dall’evidente aroma medio-orientale, con un paio di accordi di base che si muovono per la maggior parte del brano oscillando nello spazio di un tono – Si bemolle minore e La bemolle maggiore – e solo nella parte centrale compare qualche modulazione a interrompere il filo meditativo dell’arco stilistico adottato.

Racemi è un bellissimo frammento sospeso tra sogno ed illusione in cui maggiormente intravedo l’impronta di Taylor da un lato e qualche accenno a Debussy dall’altro. Si tratta di un brano che dimostra una spettacolare eleganza formale in cui il cuore della musica continuamente si svela e si rivela in un‘alternanza di fantasiose policromie armoniche. Le note stampa presentano la prima parte di Third Ward (Elegy) come un omaggio all’eredità lasciata dal povero George Floyd, che perse la vita sull’asfalto – ricorderete – durante un brutale fermo di polizia avvenuto a Minneapolis nel maggio del 2020. L’insondabile e breve melodia suona quasi come un carillon, carica di suggestione ed empatia, che fa trasparire in qualche breve battuta un sentimento profondo colmo di umanità. Acqua Granda è il termine con cui i veneziani ricordano un giorno preciso del novembre 1966 in cui l’acqua dell’Adriatico in tempesta sommerse quasi tutta la città. Gli accordi iniziali, appoggiati sulla parte grave della tastiera, si alternano ad un’ondulazione di note che diventano via via più invasive, quasi simulando una marea in salita ed è proprio in questo brano, come segnalato in precedenza, dove si possono avvertire le influenze di Reich e di Glass. Brano affascinante, anomalo in questo contesto, tale da innescare una sensazione d’ansia e di imprevedibile caos. Feuilles è una ripresa cinematografica di un autunno incipiente, colmo di memorie e rimpianti. La musica si sviluppa su una progressione di accordi in cui triadi maggiori e minori si susseguono senza dissonanze. La traccia si avvicina – ma è l’unica – a certe risoluzioni new age che rendono il pezzo, a mio parere, meno convincente rispetto a tutti gli altri. Si chiude con la coda di Third Ward e qui è veramente un’altra storia. Finalmente una conclusione degna di un bell’album come questo. La ripresa è tra le cose decisamente memorabili di Piano Music. Una stupenda sequenza di accordi discendenti in stile impressionista offre l’avvio ad un incedere crepuscolare, meditativo, che stimola a perdersi tra le note e le pause che intercorrono. Il brano procede in una tranquillità fluida, una piccola riserva paradisiaca, forse una meditazione sul tempo che passa e su chi non ha avuto il tempo d’invecchiare. Finisce così questo album come fosse una foto solarizzata, un’indecifrabile zona luminosa che legge il presente trasfigurandolo con i passi leggeri dei tasti del piano, quasi immateriali.
Tracklist:
01. Fireflies
02. Zolla
03. Atma Mater
04. Gaza
05. Racemi
06. Third Ward (Elegy)
07. Acqua Granda
08. Feuilles
09. Third Ward (Coda)
Crediti:
cover e foto 1 © Jeff Sales
foto 2 e video © Soukizy
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