R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Una curiosa manipolazione narrativa è alla base di questo disco in cui il gruppo in questione, Hitra, prende il nome dall’omonima isola situata nella parte centro-occidentale della Norvegia. Potremmo affermare che l’intera opera sonora – Transparenceè un’eterotopia focalizzata sulle città, non solo quelle esistenti ma anche in tutte le altre frutto di ideazioni fantastiche, utopistiche e letterarie. Si tratta di architetture nate dai racconti delle Mille e una notte come Lebtit e Labtayt o a progetti abitativi parigini come La città dei poeti (che è pure il titolo di un romanzo fantastico di Daniel Abraham). Anche quando gli agglomerati urbani sono realmente esistenti ci si riferisce a luoghi esotici, indonesiani come Sêtu o a villaggi semi-sperduti come Sandstadt, situato nella stessa Hitra. Si tratta quindi di non-luoghi, o meglio di luoghi dove il presente si riassorbe e si collega ad un’interiorità nascosta, una dimensione sacra e privilegiata in cui il Tempo abituale rallenta e si dissolve. Gli autori di tutta questa creazione musicale sono un quartetto italo-nordico in cui, accanto al nostro pianista Alessandro Sgobbio, suonano il chitarrista islandese Hilmar Jensson, il bassista Jo berger Myhre e il batterista Øyvind Skarbø, questi ultimi entrambi norvegesi.

I quattro musicisti, nonostante non siano conosciutissimi, vantano sostanziosi curriculum alle spalle ed esperienze molteplici in vari contesti, suddivise in egual misura tra uscite discografiche e concerti un po’ in tutto il mondo. L’impostazione sonora di questo disco è moderatamente sperimentale, nel senso che non si ascoltano estremismi inutili o derive ostinatamente frammentate, anche se in alcuni momenti la chitarra si concede dei propri spazi in cui l’elemento puramente sonoro si “effettizza”, diventa accentrante e saltuariamente spigoloso. Il clima complessivo è fluttuante, instabile, come un illusorio velo di Maya che nella sua trasparenza avvolge forme vaghe e poco riconoscibili ma che togliendolo si perde nella realtà stessa e tutto scompare nel Nulla. Così come, risvegliandoci da un vivido sogno, ci rendiamo conto che la realtà onirica è un trucco, un’illusione, un vagheggiamento chimerico. Forse tutta l’arte e la musica in particolare vive di queste esperienze fantasmatiche ed è certo che questo disco vuole portarci lontano, nel mondo raccontato da Sharazad, nella silloge delle storie inanellate delle Mille e una notte. Si inizia con Lebtit, la misteriosa città andalusa con le sue statue nascoste e levitanti, ed è solo un’introduzione, quasi il suono di una tensione meccanica sul quale s’allarga un semplice ed evocativo arpeggio di chitarra. Sêtu è forse inizialmente il momento più caotico, un ribollire di strumenti che traduce una momentanea angustia interiore per poi risolvere in uno spazio largo e più sereno nel finale. Künftiges è il momento che preferisco dell’intero lavoro, quello più melodico e meditato, dove il piano segue un percorso lineare con accordi assonanti sul cui sentiero compare un bell’assolo di Jensson, quasi nello stile di Robert Fripp. Arriviamo così al frammento più visionario, The perfect light of Sandstad, dominato da echi di chitarra che si esprimono con tonalità scure su un tappeto di piatti ottenuto dal sapiente collage percussivo di Skarbø. Quando giungiamo a Cité Des Poètes non ho potuto fare a meno di pensare ai tedeschi Agitation Free, a quel loro insistere su armonie modali arricchite da molte percussioni sullo sfondo, riproposte in questo contesto in modo quasi analogo, anche se probabilmente senza alcun intento volontario. Labtayt è puro sogno, un’inalazione oppiacea, un tremolio di immagini vaporose, anelli di fumo dove le note del piano sono l’unica àncora che ci tiene legati alla realtà, mentre tutt’attorno è nebbia nella quale emergono profili di torri e di templi nascosti che sembrano erigersi minacciosi all’improvviso davanti alla nostra coscienza. Il titolo enigmatico che segue, To see was to be, è a mio parere il brano più debole se isolato dal contesto ma che resta comunque piuttosto coerente nell’insieme della narrazione globale. Infine Lebenslauf sembra ricondurci sulla Terra con una cadenza di batteria e di basso che procede inizialmente in tempi interi ma che poi torna a spezzettarsi e a concludersi con qualche tocco instabile di pianoforte e percussioni. Sempre in una zona-limite, comunque, sempre sull’orlo di una costante instabilità. Come la storia di quel tipo che, sognando di essere una farfalla, al risveglio non era più in grado di capire se egli fosse stato effettivamente uomo o farfalla che sognava di diventare uomo. In effetti, per tutto il trascorrere del disco si ha l’impressione di una ricerca che non è solo musicale ma che suggerisce un’esplorazione interiore, una discesa nel profondo, un’indagine dei propri confini dove il concetto di realtà si segmenta in particelle disomogenee cui dovrà seguire la fatica di ricomporle in un tutto. E non è detto che questa ritrovata unità avvenga sempre con la benedizione di una “trasparenza” chiarificatrice.

Tracklist:
01 Lebtit 
02 Sêtu 
03 Künftiges 
04 The Perfect Light Of Sandstad
05 Cité Des Poètes 
06 Labtayt 
07 To See Was To Be 
08 Lebenslauf

 

Cover © Soukizy