R O C K M E M O R I E S
Articolo di Andrea Notarangelo
Le persone vivono e muoiono, alcune nascono due volte e vivono per sempre. Questa storia comincia dalla fine, per la precisione dal 18 maggio 1980; ma ad essere sinceri avrebbe potuto iniziare poco prima, il 15 giugno del ’79 ad esempio, quando uscì Unknonw Pleasures, o forse agli sgoccioli della vicenda, il 18 luglio dell’80, quando Closer, secondo e ultimo disco della band, venne dato alle stampe e riempì gli scaffali di tutti i negozi di dischi, prima del Regno Unito e in seguito di tutto il mondo. Il 18 maggio però è una data emblematica; si tratta del momento in cui la storia terrena di Ian Kevin Curtis, cantante e autore di tutti i testi del suo gruppo, s’interruppe bruscamente. E a seguire arrivò la leggenda con annesso bagaglio di verità e fantasie mescolate assieme. Nonostante il tragico atto, la fama del nostro protagonista crebbe poco alla volta; senza fornire qui un excursus storico pieno di date e citazioni, è necessario però dare un ordine e narrare dell’opera breve ma intensa che contraddistinse la dark band per antonomasia. I Joy Division.

Peter Hook, Bernard Sumner, Stephen Morris e il nostro Ian. Eccoli qui, quattro giovani che avrebbero davanti una vita intera e invece si trovano a Salford, un sobborgo di Manchester, a pensare fin troppo presto a come sbarcare il lunario, trovare un lavoro onesto possibilmente non in fabbrica, sposarsi, far figli e adagiarsi nel proprio pub di fiducia come tutti i degni rappresentanti della working class britannica. La storia però, bastarda e imprevedibile, donò loro un percorso tortuoso e per nulla scontato.
I versi tratti da Decades, traccia finale di Closer sono emblematici nella loro rappresentazione lucida e puntuale sulla fatalità della propria esistenza. Così Ian narra dell’impresa del vivere comune: “Ecco i giovani, il peso sulle loro spalle. Eccoli. Beh, dove sono stati? /Abbiamo bussato alle porte della camera più buia dell’Inferno spinti fino al limite. Ci siamo trascinati dentro / per osservare da dietro le quinte mentre le scene si ripetevano e ci siamo visti come non ci eravamo mai visti prima“.
Una camminata in mezzo ai mattoni delle fabbriche, ai fumi delle ciminiere e ai suoni meccanici e industriali in sottofondo, possono renderci bene l’idea dell’humus calpestato dai nostri quattro. Un percorso di miseria civile e di mancato riscatto sociale che Martin ‘Zero’ Hannett, produttore dei due capolavori discografici della band, ha voluto innestare nel loro esordio sulla lunga distanza per ricordare lo scenario e per far capire che questi ragazzi non volevano e non potevano essere un sottoprodotto della borghesia. I Joy Division erano essenziali, Ian Curtis era essenziale e le prime esibizioni dal vivo, incerte e sporche, prendevano in prestito la rabbia punk solo per veicolare meglio il loro messaggio del cambiamento in atto. Mentre band come i Fall urlavano un presunto odio contro le istituzioni, e contro le forze dell’ordine, Ian Curtis recitava versi raffinati e nei quali faceva a pezzi l’essere umano mettendone in risalto paure, speranze mal riposte, alienazione e una qual certezza di fatalità che non consentiva di sperare in qualcosa di migliore. Ma questo era solo l’inizio, ancora l’immagine maledetta non era stata totalmente messa a fuoco. Ian non era Sid Vicious e nemmeno Johnny Rotten e seppur i Sex Pistols ispirarono lui e gli altri tre a mettere su una band al grido di “No Future”, la realtà urlava con una voce roca e potente che il passato era ormai andato e non poteva essere cambiato e che il presente era qualcosa fuori dal loro controllo. Il tempo sfuggiva di mano e la società aveva contribuito a negarlo e a fotterlo ai giovani che si apprestavano a cavalcarlo. Figuriamoci il futuro. Men che meno I sogni di gloria. Ed è con questo bagaglio di disperazione che Ian decantava poesie suburbane e raccontava della fatalità. In New Dawn Fades, canzone capolavoro di Unknown Pleasures, dopo aver provato a spiegare con le buone a un ipotetico interlocutore cos’è la vita umana, ecco prendere coraggio a due mani e urlargli in faccia, attraverso versi di profonda tristezza, l’inevitabilità della vita: “Colori diversi, sfumature diverse. Di ogni errore che è stato commesso me ne sono preso la colpa./ Senza direzione e così semplice da capire che una pistola carica non ti renderà libero. Così dici”.
I Joy Division erano un mistero, una bella e diversa realtà, un’alternativa rispetto al mainstream. Aspiravano a diventare famosi e nel prendersi cura di quel sogno, il loro cantante parlava di nichilismo e di malessere, oltre a porsi quesiti esistenziali e a chiedersi perché valesse la pena vivere nonostante le azioni compiute o incompiute non spostassero assolutamente gli equilibri dell’universo. Nella pratica un suicidio commerciale.
Dopo i primi inizi come Warsaw (nome tratto da Warszawa, brano estratto da Low, uno dei tre dischi berlinesi di Bowie e fra i più amati da Ian), i ragazzi affinarono la loro tecnica agli strumenti mentre Curtis abbandonò il tema caro della guerra a favore di qualcosa di più introspettivo. Non solo. Su suggerimento di qualche addetto ai lavori iniziò ad ascoltare Frank Sinatra, non tanto per intraprendere un progetto di mera imitazione, ma per comprendere a pieno le potenzialità di un vero crooner e di conseguenza interpretare nel miglior modo possibile una canzone. E i giovani non li freghi, loro percepiscono la bontà della proposta e ritrovano in quei testi le loro insicurezze. Gli scritti di Ian inducono infatti a riflettere su come provare a cercare una soluzione ai problemi della vita quotidiana, seppur essi sembrino insormontabili. Ma c’è un “però”. Il cantante dei Joy Division, a differenza di quei giovani, ha fatto scelte avventate dalle quali non si torna indietro e per le quali ha provato a prendersi le sue responsabilità. Non riuscendo a trovare una via d’uscita ne è rimasto soppraffatto e la situazione in parte lo ha portato a quel nefasto 18 maggio. Si sposò giovane, anzi giovanissimo, a 19 anni. In seguito, divenne padre a 22 e quando arrivarono i primi riscontri per la band, comprese che la vita da rockstar prevedeva continui spostamenti e una lontananza costante dalla famiglia. Non solo. La vita on the road, in generale, prevede anche l’attrazione di persone più o meno interessate che, come orsi affamati, iniziano ad attaccarsi ad un favo per succhiare quanto più miele possible. In brevissimo tempo queste attenzioni divennero distrazioni. I ragazzi dei Joy Division furono però bravi e riuscirono a restare coi piedi per terra per concentrarsi sul loro lavoro. Ian Curtis però iniziava ad essere Ian Curtis e all’improvviso intraprese una vita parallela quando, al di fuori dei confini nazionali, conobbe una giornalista belga che di lì a poco scoprì essere la sua anima gemella. Il gioco inizò a complicarsi: da una parte il desiderio di mantenere il contatto con la sua famiglia, dall’altro, la voglia di ricominciare tutto da capo scegliendo la persona che il fato aveva deciso di fargli piovere dal cielo.

Heart and Soul (Cuore e Anima), raccontava in uno dei suoi pezzi più famosi “…one will burn (chi dei due brucerà?)“. E proseguendo con una lucidità pazzesca, sempre in questo pezzo chiave di Closer, racconta: “Istinti che possono ancora tradirci… una battaglia tra giusto e sbagliato“.
Una storia già vista nelle cronache di tutto il mondo, se non fosse che nel caso specifico la qualità della produzione musicale dei quattro è eccelsa. La loro opera si manifestò in seguito come una pièce circolare che poteva ripartire da sola, giusto il tempo di introdurre nuovamente la puntina sui solchi dei vinili una volta raggiunto il fondo (inteso come fine del disco, ma anche spirituale). Le storie, le tematiche e soprattutto le copertine vanno sempre più in questa direzione e rappresentazione: Il bianco e il nero, la luce e il buio. Le foto di Peter Saville (il graphic designer della Factory), ad esempio, scelte per Unknown Pleasures e Closer, sono così diverse tra loro ma riescono a pieno nel caratterizzare due opposti complementari in tutti gli aspetti della vicenda. Qui abbiamo un leader della band, un ragazzo simpatico, ma fin troppo serioso e in grado di far ridere gli altri come solo i veri comici sanno fare. Un giovane uomo tanto loquace quanto introverso, che sapeva tenere il palco a patto di non soffermarsi sul pubblico ma solo sui i suoi demoni, esseri epilettici che lo combattevano e lo divoravano pezzo per pezzo, un giorno dopo l’altro.
E tornando al nostro 18 maggio, sarà proprio l’epilessia e la conseguente danza macabra che lo sfiniva sul palco, a giocare un ruolo chiave. Perché i problemi personali col tempo si sarebbero superati; forse avrebbero portato a lunghi strascichi ma si sarebbero sicuramente risolti, non foss’altro a causa di un ordine naturale delle cose. Diverso il discorso per l’epilessia. La percezione di non poter guarire da un male debilitante e che stava compromettendo per sempre il suo sogno di gloria era diventato inaccettabile. Da una parte c’era la prima tournée negli Stati Uniti d’America e le infinite possibilità racchiuse di mega concerti sold out, dall’altra c’era invece il rotolare su piccoli palchi cittadini, stremato da un attacco improvviso che non gli avrebbe lasciato scampo e che avrebbe richiesto un successivo ricovero d’urgenza in ospedale.
C’è qualcosa di strano che da sempre caratterizza i Joy Division. Quando un giovane curioso si avventura nel mondo della musica, prima o poi sente parlare da qualcuno di “quella band che ha fatto in tempo ad incidere un disco. Quella stessa band che, non appena pronto il secondo, nel momento in cui finalmente si apprestava a raggiungere i Campi Elisi del successo perse il suo cantante, morto suicida”. La curiosità pulsa e spinge, ma è poi la musica a rapirti per sempre e a farti percepire l’intensità della proposta. Perché I Joy Division non mentivano. Ian non mentiva e mostrava al pubblico le conseguenze dell’esistenza e per questo veniva anche applaudito e incoraggiato.
Poco sopra si parlava degli opposti ed è così evidente dopo qualche ascolto, di come si resti spettatori di una sorta di spettacolo umano dove vengono esposti, sotto strati di bassi pulsanti, chitarre taglienti e batterie serrate, i limiti e le possibilità di ognuno di noi (si potrebbe definire tutto ciò come un’Esibizione atroce, per parafrasare la traccia di apertura orgiastica di Closer intitolata per l’appunto Atrocity Exhibition). Ed è così che in Unknown Pleasures, il disco nero con in copertina la radiografia di una supernova in esplosione, possiamo sentire un suono e una voce che si dilatano fino ai confini sconosciuti dello spazio; mentre nel successivo Closer, il disco bianco rappresentato dalla foto di una tomba, ci riporta con il pensiero all’inevitabile e ci sentiamo catapultati di colpo nel nostro corpo terreno, nel nostro io più profondo, per interrogarci su quell’universo insesplorato che abbiamo dentro e che nessuno riuscirà mai a conoscere pienamente in tutta un’esistenza.
In quel 18 maggio, in una casa di Macclesfield, Ian Curtis ha appena finito di vedere alla televisione La Ballata di Stroszek, uno dei film di Werner Herzog, il suo regista preferito e, in preda ad una profonda inquietudine, fuma una sigaretta dietro l’altra. Si calma, respira e mette sul giradischi The Idiot di Iggy Pop, forse un piccolo lampo di lucidità in una notte di follia sul gesto che stava per compiere e del quale non era completamente sicuro. Infine il volo interrotto, l’impiccagione, la fine del sogno a un passo dalla realizzazione a una manciata di giorni dal viaggio verso gli Stati Uniti e la sicura fama.
“Accetta come una maledizione un affare sfortunato accaduto al cancello in fondo al giardino. La mia vista si estende dal recinto fino al muro. Nessuna parola potrebbe spiegare di più e nessuna azione potrebbe risolvere. E in tutto questo resto solo a guardare gli alberi e le foglie mentre cadono”. Così recita The Eternal, forse il capolavoro e sunto dell’opera di Ian Curtis e dei Joy Division. Un gioiello di infinita malinconia che rapisce l’ascoltatore e lo lascia in preda a sogni e incubi senza fine.
Non sono sicuro che queste parole rendano giustizia a Ian, che, come dichiarato nella biografia di Peter Hook, suo compagno di band: “era uno come noi, né più né meno. Era uno che rideva nel fare scherzi stupidi, che tifava una squadra di calcio e che beveva come tutti”. Ian era tutto questo ed era anche in grado di scrivere testi essenziali ma pregni di significato. Non può che ricordarci la condizione umana che sa presentarci come degli esseri inutili ma all’occorenza anche degli angeli caduti dal cielo. E quando ho iniziato a scrivere le prime battute, sono uscito a fare due passi e in una stradina del centro di Milano ho incrociato una ragazza molto giovane, forse minorenne, con indosso la maglietta iconica che riproduce la copertina di Unknown Pleasures. Ci siamo guardati per un istante, non ci siamo riconosciuti e per me ha significato il passaggio dei tempi e l’inevitabile perdita di qualcosa. Chissà cosa prova quando ascolta la voce di Ian Curtis, chissà se ascolta realmente la musica dei Joy Division. Chissà se sente quanto ho sentito io fino ad ora.
Grazie ad Alessandra De Amicis (Dea Illustra) per aver impreziosito l’articolo con un suo disegno sonoro, preparato per l’occasione.
Photo 1 © Getty Images, 2 © Harry Goodwin
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